Se gli uomini di Chiesa aprono alla rivoluzione modernista e anticattolica
Posto che essenza del modernismo è la sua particolarità di non essere una dottrina, ma una modalità di azione di natura aggressiva, in sostanza una rivolta contro l’ordinamento soprannaturale (⇒ qui), ne discende che per la Chiesa l’aver aperto le braccia ai missionari del neo-teologia è stato un atto di puro autolesionismo. Il virus antinomico e anti divino penetrato nei piani alti si è infatti diffuso rapidamente nell’intero corpo ecclesiale, condizionando la formazione del clero, ormai quasi totalmente guadagnato alla causa modernista.
Ripercorriamo qui la svolta avvenuta, considerandone le origini e gli aspetti preminenti.
L’inizio: Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II
Tutto iniziò con il pontificato di Giovanni XXIII (⇒ qui), quando il papa Giovanni convocò un Concilio proprio in contrapposizione al Vaticano I, che egli considerava superato “nella sostanza e nella forma”. Il Concilio fu annunciato fin dall’inizio come un evento di natura pastorale, che non voleva riformare la dottrina con nuovi dogmi e precetti, né lanciare anatemi e condanne, ma solo cambiare la Chiesa per metterla in sintonia con i tempi moderni.
In linea con questo cambiamento di rotta, in concomitanza con l’annuncio, furono "risvegliati" e chiamati ad assumere dei ruoli chiave molti esponenti della Nouvelle Théologie, implicitamente condannati da Pio XII con l'Humani Generis.
Costoro, proponendosi come gli artefici dell’aggiornamento voluto dal papa, cominciarono ad introdurre durante i lavori delle concezioni di nuovo conio, non suffragate dalla Rivelazione divina (quali una nuova valenza dell’Incarnazione), alcune delle quali (ecumenismo, libertà religiosa) oggetto di condanna solenne da parte dei papi preconciliari.
Uno dei modi con cui imposero le cose aliene è stata la mescolanza tra elementi della Rivelazione ed elementi rivoluzionari (⇒ qui).
Un altro modo è stato l’abbandono del linguaggio chiaro e definitorio, pietra d’inciampo ai radiosi compromessi che i neo-teologi facevano intravvedere ai padri conciliari, sostituito da un lessico esortativo e non obbligante [1], orientato a costruire ponti tra la Chiesa e gli altri culti (chiese cristiane, religioni “del libro”, teosofie orientali, culti pagani) ed anche tra la Chiesa e le filosofie immanentiste, di matrice liberale o marxista.
I documenti vaticanosecondisti in alcuni passaggi, sono suscettibili tanto di una interpretazione ortodossa (utile a sedare pericolosi allarmismi) quanto di una liberale (quella che sarà impugnata come una clava dagli epigoni del modernismo).
Il modo non dogmatico, in definitiva, è stato il varco attraverso cui i neo teologi, con scaltrezza ma anche con frode, hanno potuto introdurre degli elementi privi di riscontro con la Rivelazione.
La responsabilità dei prìncipi della Chiesa è quella di essere andati in gran parte a rimorchio della minoranza rivoluzionaria, dando il via libera alle rivoluzionarie riforme. Alcuni per collusione settaria, molti abbagliati dall’illusione di poter convertire i corifei del liberalismo, del comunismo e del nichilismo, i più per un rassegnato e malinteso conformismo ai voleri superiori.
Quelle riforme umane del deposito divino continuano tuttora ad agire causando la mutazione in atto nella Chiesa, il cui Corpo Mistico viene di continuo spogliato, deturpato e flagellato.
Qui ci focalizziamo sugli elementi della svolta derivata dal Concilio, dei suoi devastanti effetti parleremo in un prossimo articolo.
Elementi fondanti della svolta postconciliare
I cambiamenti principali in seguito al Vaticano II sono l’innalzamento del concilio a paradigma irrefutabile, il ribaltamento del rapporto tra dottrina e prassi e la rinuncia della Chiesa a far valere la sua origine divina davanti al mondo e alle false religioni.
Il concilio come nuovo inizio
L’insieme degli enunciati non cogenti del concilio costituisce un mosaico frammentato che però, viene di continuo riproposto come unico punto di riferimento. Gradualmente, infatti, i testi conciliari (richiamati solo in modo generico dato che non contengono definizioni dogmatiche) sono diventati l’unicum che va tacitamente a sostituire i venti Concili precedenti, con le loro definizioni dogmatiche ed anatemi. Paradossalmente, i neo-teologi che hanno guidato il concilio con l’intento di liberare la Chiesa dai dogmi, hanno fatto del concilio stesso il riferimento ad un tempo intoccabile ed imperscrutabile [2], cui è obbligatorio conformarsi, in nome di formule nebbiose ma cogenti (“come dice il concilio”, “secondo lo spirito del concilio”, ecc.).
La parte modernista brandendo il super-dogma vuole abbattere gli elementi della vecchia religione per far passare le novità umane partorite dal giorno corrente. A poco a poco saranno banditi e poi sanzionati i precetti e la dottrina che la minoranza deciderà di labellare come costantiniani o tridentini.
Il confronto teologico con i precedenti vincolanti decreti viene infatti eluso, grazie alla tesi del Magistero vivente, una delle architravi del postconcilio.
Magistero vivente
Una nuova concezione di magistero vivente in sostituzione di quella tradizionale è stata proposta, dapprima sottotraccia, poi in modo esplicito [3]. Il magistero vivente coinciderebbe col magistero presente, perché solo esso detiene le chiavi di interpretazione della Tradizione.
Secondo questa tesi, il magistero vivente non consiste nello disvelare le ricchezze contenute nelle verità oggettive rivelate da Dio, ma nel permanere dell'unico soggetto Chiesa, da Gesù Cristo fino al papa regnante.
L’interpretazione dei testi conciliari e le conseguenze che se ne possono trarre sono così consegnate nelle mani del pontefice regnante, ormai libero di imporre concezioni e pesi, senza dover dare spiegazione alcuna: “qualunque enunciato della Chiesa, in quanto totalità del popolo che evangelizza, deve essere riconosciuto come di iniziativa divina” [4].
Lo storicismo sotteso a questa concezione permette al magistero di mutare nel tempo, tenendo conto dell’evoluzione della società e dei suoi inevitabili riflessi sul modo di sentire di fedeli, presbiteri e pastori. Di fatto de-dogmatizza la Chiesa e muta i papi da custodi della dottrina divina a possibili artefici di nuovi principi teologali ed etici, non necessariamente legati alla Tradizione Cattolica.
In generale, come osserva monsignor Antonio Livi, “l’impiego delle categorie dialettiche dello storicismo hegeliano rende impossibile la pretesa cristiana di una dottrina religiosa definita una volta per sempre e annulla la premessa metafisica della trascendenza assoluta di Dio”[5].
Al contrario, rende invece possibile una Chiesa sollevata dal fardello della Tradizione, libera di aggiungere al «deposito» ricevuto ed accantonato un patrimonio valoriale costruito ex novo a misura delle esigenze dell’uomo e dei tempi.
Il primo risultato dello storicismo introdotto nella Chiesa è che cadono le barriere dottrinali e si aprono i cieli nuovi dell’ecumenismo e delle fratellanze giudeo-massoniche.
Un secondo esito è che etica e precettistica possono essere accantonate.
Un terzo risultato è che la comunità ecclesiale può cambiare ed in effetti cambia al cambiare del suo Capo, fino a divenire quello che il Papa di turno decide di farla diventare.
In teoria i pontefici possono d’ora in poi mutare a proprio arbitrio le concezioni e le regole della Chiesa, e far tutto ciò in nome dell’intangibile mandato ricevuto.
Tre le conseguenze: papismo, conciliarismo e democratismo.
Papismo
I fedeli, dopo essere stati traghettati con soavità nel nuovo imperio romano, hanno in gran parte preferito adeguarsi al nuovo corso, avallando di fatto la concentrazione del magistero nelle mani del (dei) pontefici viventi, ed accettando - sempre di fatto - l’accantonamento di venti concili e di 2000 anni di storia.
Conciliarismo
Per scongiurare il pericolo di una Chiesa ad personam, il concilio ha decretato, invertendo l’ordine dei fattori [6], che “l'ordine dei vescovi […] è anch'esso insieme col suo capo il romano Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa” [7]. Ora, con tale mutamento, in modo per nulla chiaro, il Papa rischia di essere condizionato dalle maggioranze assembleari dei Vescovi. La struttura gerarchica basata sul chiarissimo primato di Pietro voluto da Nostro Signor Gesù Cristo viene minata alla base.
Ancora più deleteria l’introduzione delle Conferenze Episcopali che favorisce la frammentazione dell’Ecclesia in Chiese nazionali, condizionabili dal regime politico, esautorando in sovrappiù il vescovo locale, qualora egli abbia idee non allineate alla maggioranza deliberante (in pratica un vescovo non gradito ai modernisti viene delegittimato).
Queste due riforme democratizzanti sono state rese possibili in nome di una belva che si aggira mai sazia nei sacri palazzi, la collegialità [8]. Intento finale di chi agita questo vessillo modernista è trasferire a tutti i livelli il potere alle assemblee (vescovili, presbiteriali, parrocchiali), le quali giocoforza delibereranno in base ai principi liberali e democratici del consenso, e non della verità e del bene comune.
Riassume p. Calmel: “la gerarchia si dissolve insensibilmente nel popolo di Dio, del quale tende a divenire un'emanazione democratica, eletta a suffragio universale per una funzione provvisoria” (⇒ qui).
Con il decentramento alle Conferenze e ai vescovi di questioni anche dottrinali, ventilato da Bergoglio, inizierebbe lo smembramento della Cattolica in conventicole, a somiglianza del protestantesimo.
Democratismo
Dal vaticanosecondo nascono alcune espressioni - come “popolo di Dio” - volte a rassicurare (chi?) sul deciso e irreversibile [9] riorientamento democratista intrapreso dalla Chiesa Romana. Sfumano lentamente le differenze tra clero e laici e mentre il clero abbandona la veste talare, i laici vengono designati a funzioni prima riservate esclusivamente ai sacerdoti.
Il combinato tra democratismo e pastoralità adogmatica ha schiuso le praterie del nichilismo alle scorrerie dei nuclei più rumorosi. Alle pressanti richieste degli apripista, in costante rialzo, fanno eco le voci dei vescovi e cardinali “più sensibili” e quelle più titubanti dei moderati.
Ribaltamento del rapporto tra dottrina e prassi
Il ribaltamento del rapporto tra dottrina e prassi è il secondo elemento fondante della svolta modernista. Questo innaturale, illogico e antropocentrico sovvertimento – con cui il depositum fidei e il dogma vengono posti in secondo piano è il risultato dell’arretramento semisecolare del magistero, da dogmatico a pastorale.
Il mutamento viene oggi brandito come necessario e santo per due motivi. In primo luogo “formule e dogmi non possono comprendere l’evoluzione storica […] ogni problema va infatti collocato nel suo contesto storico e sociopolitico”. In secondo luogo l’ortodossia – questa “violenza metafisica” - va superata perché è utilizzata come “punto di riferimento per soffocare la libertà di pensiero e come arma per sorvegliare e punire” […] “al primato della dottrina va sostituito quello della prassi pastorale” [10].
La prassi pastorale non si cura quindi di giustificare le sue asserzioni con elementi del depositum, da cui rifugge, ma si impone da se stessa, forte com’è dei due superdogmi evanescenti che hanno sostituito gli altri (spirito del concilio e magistero vivente). L’assenza di argomentazioni ha il non secondario effetto di blindare le cose nuove in una sfera a parte, sottraendole da confutazioni teologiche circostanziate.
La giustificazione teologica è soppiantata dal teatrino degli psicodrammi. Si prospettano conflitti inesistenti tra ragione e cuore, giustizia e misericordia, legge e libertà, dogmi e spirito, ove il primo termine è in breve destinato alla damnatio memoriae, secondo la collaudata tattica dei manichei.
Ma dato che non esiste una prassi senza teoria ciò che è successo è che, studiatamente o meno, la Chiesa stessa ha cambiato la sua relazione col mondo e con le altre religioni.
Irenismo
L’ottimismo antropocentrico, causato dalla negazione del peccato originale (negazione dei neo-teologi mantenuta sotto traccia e mai palesata), ha spinto la gerarchia cattolica ad abbandonare ogni prudenza, cercando l’incontro pacificatore con tutte le forze in campo, sia religiose che sociali.
Apertura al mondo
L’apertura benevola nei confronti del mondo contemporaneo propria dei modernisti (⇒ qui) si trasmuta nell’"infinita simpatia" con cui la Chiesa conciliare guarda il mondo.
Dal concilio in poi i documenti relativi sono espressi con un lessico carezzevole (“dialogo”, “attenzione all’uomo, ai segni dei tempi”, “atteggiamento rispettoso e non giudicante”).
La missione per propagare la fede è sostituita dal dialogo, visto come premessa per il mutuo rispetto e per la costruzione della fraternità universale [11]. Interlocutori privilegiati del dialogo ed invitati nei vari cortili sono tutti i non credenti, nemici giurati del cattolicesimo inclusi.
Il mondo è considerato hegelianamente consustanziale allo Spirito e foriero di progresso, anche nei suoi aspetti negativi e non ha quindi bisogno di correzione.
Il depositum fidei di fatto se non de jure viene messo a confronto con le opinioni alla moda, con le istanze gridate dai gruppi di pressione contestatori, con i richiami all’ordine del potere veicolati dai media: “è la vita comune che fa il Vangelo, la Dottrina e l’insegnamento della Chiesa e non il contrario. Non è la Chiesa che ha un annuncio da fare, una verità da rivelare, bensì è il mondo, con la sua continua mutevolezza, che ha da dire qualcosa e la Chiesa vi si deve adeguare […] non in virtù di una verità, ma in virtù del tempo, del mutamento dei convincimenti del mondo e degli stili di vita di esso [12].
Sembra che la preoccupazione prima degli autorevoli prelati sia quella di “non apparire in ritardo rispetto alle mode di pensiero e di vita che si sono imposte nella società”, e quindi di assecondare la «realtà vissuta dalla gente» [13], quasi soggiogati “dal timore di perdere il treno della storia. L’errore di fondo è dato dalla considerazione secondo la quale l’effettività sociologico-storica è il criterio della verità” [14]. È questa la filosofia di Blondel, secondo cui è l'azione e non l'essere che determina la verità.
Con questi principi la Chiesa si fa discepola del tempo, dimenticando che “è la Verità che fonda il tempo e non è esito del tempo, è la Verità che giudica la storia e non è giudicata dalla storia” [15].
Dall’allineamento in breve si è poi passati alla subordinazione: gli ultimi sviluppi ci mostrano una gerarchia che scruta i comportamenti sociali del momento storico (prassi matrimoniale, ad esempio) per poi in base ad essi purificare/aggiornare i canoni e ridefinire la dottrina, con un capovolgimento totale del significato dell’azione evangelizzatrice, dalla conversione alla coabitazione.
Apertura alle altre religioni
Anche i documenti vaticanosecondisti relativi alle altre religioni sono espressi con un lessico carezzevole (“chiese sorelle, “fratelli separati”) atto ad esprimere concetti labili ed ambigui (“comunione non piena”).
Anche in questo campo prevale l’ossessione del dialogo, grazie al quale - per vie misteriose – il mondo otterrebbe la pace che non ha; dialogo per il dialogo, libero da vincoli e norme veritativi, idolo auto sussistente.
P. Calmel O.P (1914 – 1975) osservava come “prelati che occupavano le cariche più importanti lavorassero ad inventare una Chiesa senza frontiere, nella quale tutti gli uomini, dispensati in anticipo dal rinunciare al mondo e a Satana, non tarderebbero a ritrovarsi nella libertà e nella fraternità” (⇒ qui).
L’impostura ecumenica, al di là delle chiacchiere pudibonde, si basa sulla concezione che la Verità sia un’entità elusiva da ricercare in maniera progressiva in un processo senza fine, tramite il dialogo tra le religioni, essendo tutte in qualche modo partecipi di un’unica misteriosa Rivelazione (guénonismo). Alle false religioni si attribuiscono così “virtù, prerogative e valenze soteriologiche e di sacralità” [16]. Il dialogo diventa più importante della verità rivelate, ridotte ad opinioni tutto sommato accantonabili. Si rinuncia alla pretesa di Gesù Cristo di essere la Via, si misconosce la Sua Chiesa come unica arca di salvezza, abbassandola alla stregua di una confessione in cammino con le altre congregazioni, conventicole e sette, con le religioni non trinitarie e con i culti pagani, verso una fittizia unità umana tutta da inventare (da chi?). L’ecumenismo radicale insegue il miraggio di arrivare gradualmente, grazie agli apporti - mutabili a piacere - delle varie fedi, ad un minimo comune, ad una religione finalmente universale.
Primo passo è stato quello di indicare come lo stesso il Dio adorato dalle tre religioni abramitiche, cristianesimo, ebraismo, islamismo. Un Dio contraddittorio che avrebbe approvato le infamie talmudiche contro il Verbo e che a Lepanto, Belgrado e Vienna avrebbe combattuto contro Se stesso.
Oggi, osando l’inosabile, si afferma che spetta allo Spirito Santo il compito di armonizzare le diversità per formare l’unità [17]: uno Spirito dunque chiamato ad operare in contraddizione con il Verbo, unendo ciò che il Logos ha separato!
Ebraismo
Il ribaltamento dei rapporti con l’ebraismo talmudico inizia in sordina nel 1959, quando Giovanni XXIII - appena eletto - si affretta a modificare la preghiera del Venerdì Santo.
La preghiera fu poi soppressa definitivamente da Paolo VI nel 1969.
Un altro passo lo compie Paolo VI, nel 1964, dopo il suo pellegrinaggio in Terra Santa, quando cominciò a indossare il pettorale dei sommi sacerdoti ebrei (efod), la veste con monile portata da Anna e Caifa, caduta in disuso dopo la distruzione del Tempio (70 d.C.) e la conseguente cessazione del servizio sacerdotale.
Lo strano avvicinamento viene sancito con la dichiarazione Nostra aetate – documento concordato con i rappresentanti della sinagoga – in cui viene decretata l’eliminazione dell’imputazione di deicidio.
Da allora i papi si umiliano profondendosi in mea culpa e recandosi nelle sinagoghe subendo senza fiatare i minacciosi richiami dei rabbini. Non si attende più la conversione degli ebrei, al contrario si proclama una loro speciale via di salvezza al di fuori della fede in Gesù Cristo! Trattasi di una concezione antitetica a quanto la Chiesa ha sempre insegnato.
Ovviamentele condanne al Talmud e alla Cabala, comminate una prima volta da Clemente VIII nel 1593, sono state relegate tra le cose obsolete.
Islam
Anche i mussulmani, secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 841), fanno parte del disegno di salvezza, dato che “professando di tenere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso”.
Ecco allora i papi che si recano nelle moschee a pregare un Dio alieno, che chiede la sottomissione (in alternativa l’annientamento) dei cristiani. Ecco Giovanni Paolo II che bacia il Corano. Ecco i vescovi che augurano “buon Ramadan” e chiedono più moschee.
Esiti
La Chiesa è entrata in una spirale di cui non si vede fine. Infatti, per gli interlocutori privilegiati del cambiamento, ebrei, eretici ed atei, i passi che Roma compie non sono mai bastevoli. A Roma viene infatti richiesto con forza di rinnegare il proprio passato, antisemita, antiliberale e antimussulmano. Ed ecco i reiterati mea culpa dei papi per le presunte “colpe dei cattolici”, che marcano il solco tra la Chiesa nuova e quella di sempre, sprezzantemente definita pre-conciliare (insulto massimo lanciato dai custodi della rivoluzione). Ove non sai ove finisce la subordinazione ovina ed inizia l’arroganza di chi si crede più giusto dei Santi.
A vista umana o Roma si sgancia dal ricatto oppure continuerà ad alienare verità, cedendo progressivamente terreno.
L’altro lato della medaglia è il processo evolutivo con cui si sta costruendo la nuova religione filantropica, destinata a intorpidire definitivamente le coscienze. Il potere mondialista ne aspetta con impazienza i risultati per elevare la mescolanza di vero e falso che ne uscirà a braccio spirituale del suo impero, col compito di inculcare negli uomini i dogmi del nuovo ordine.
Elementi derivati della svolta conciliare
Le variazioni di fondo sopra menzionate hanno dato origine a delle manifestazioni ecclesiali collaterali, quali la progressiva desistenza della gerarchia, l’orientamento prevalentemente al sociale delle opere di chiesa, l’emergere di una religiosità di natura soggettiva e sentimentale.
Desistenza
La desistenza politica ha portato il Vaticano II a chiedere ai pochi Stati che ancora si riconoscevano nella religione cattolica, di cancellare lo status speciale di cui godeva nelle loro nazioni. Così, in applicazione alla Dignitatis Humanae, la religione di Dio viene equiparata agli altri culti e alle sette.
La desistenza giuridica ha permesso a gruppi apertamente contrari al cattolicesimo tradizionale di prosperare indisturbati, ai preti creativi di sfigurare la messa, ai preti politicizzati di propagandare comunismo ed omosessualismo.
Eclisse del soprannaturale
Le chiese locali e non solo tendono a trascurare la parte trascendente della religione, per ripiegare sull’umano concentrandosi prevalentemente sui temi sociali.
Sembra primario il compito di instaurare la felicità già qui in questo mondo, denunciando mafie e corruzioni, combattendo l’inquinamento, reclamando il diritto al lavoro, mostrando ospitalità ai migranti e solidarietà ai poveri, raccogliendo aiuti per ovviare alla fame nel mondo. Tutte opere buone, che però non dovrebbero oscurare l’annuncio evangelico, il culto a Dio, il richiamo alle realtà soprannaturali e la necessità della grazia santificante.
La Chiesa inizia a concepire se stessa come una comunità in cammino nel mondo, chiamata a dare risposte ai problemi e alle esigenze degli uomini. In luogo del Regno dei cieli si addita ai fedeli il paradiso in terra, da ottenere tramite l'unione e pacificazione universale.
La parte più avanzata del clero è giunta ad abbracciare i temi del laicismo (pacifismo, femminismo, animalismo, omosessualismo), coprendoli con le consunte bandiere arcobaleno e con gli estenuati invocazioni alla pace.
È grande il rischio che la Chiesa di Cristo si trasformi nella “chiesa dell’uomo, chiesa immanentistica, orizzontale, totalmente razionalistica e naturalistica, “colonna” di soggettivismo e relativismo” [18], una struttura del tutto simile alle organizzazioni sociali laiche (partiti, agenzie, sindacati).
Religiosità adogmatica
Il modernismo, nel sostituire alla Rivelazione il legame diretto della coscienza con la deitas, rende la persona indipendente sia dalla Chiesa sia dalla metafisica, precipitandola in una religiosità vagamente sentimentale, che rende ogni adepto un profeta potenziale.
Con l’apertura modernista insita nel Vaticano II e con il consolidarsi di vari movimenti di matrice esperienziale, carismatica o ecumenista, si afferma anche nel cattolicesimo lo pseudo profetismo, état d’esprit di matrice veterotestamentaria che le conventicole pietiste del seicento avevano riesumato in funzione antiromana.
Il profetismo modernista osa giustificare le sue asserzioni evocando il “soffio dello Spirito”, una pretensione non suffragata da elementi verificabili.
Conclusioni
Per poter introdurre i loro enunciati spuri, i neo-teologi e i prelati che in massa li hanno seguiti si sono coperti sotto il vello della pastoralità.
Ora si deve dire che la Chiesa, con l’accantonamentodel magistero dogmatico, non ha rinunciato ad un sua qualità accidentale, ma ad un elemento sostanziale della sua forma.
L’abbandono dottrinale ha permesso la commistione di verità e di tesi teologiche spurie.
La desistenza giuridica ha generato smarrimento e confusione tra i cattolici togliendo loro la pace spirituale, derivante dalla certezza e bellezza della fede razionale, per abbandonarli nell’insicurezza dottrinale ed etica.
La svolta non è un’invenzione. Come la Chiesa di Gesù Cristo nasce nel Cenacolo il giorno della Pentecoste, così la Chiesa in cammino col mondo si riconosce nella “nuova Pentecoste”, l’evento Concilio e i suoi testi autosussistenti.
La tesi secondo cui erratico sarebbe il concilio veicolato dai media, e non il concilio reale, si è rivelata insostenibile.
La commedia non troppo abilmente allestita dell’ermeneutica della continuità è stata di breve durata.
Il nuovo vescovo di Roma sta rivoluzionando il ruolo della Chiesa e del papato con i pronunciamenti e con la prassi, dando per scontata la cesura tra il triste passato di chi rimane arroccato alla Tradizione e il gaio futuro che attende i nuovi cristiani.
E così la parabola rivoluzionaria, iniziata con la medicina della misericordia di Giovanni XXIII, si chiude con l’autoritarismo a parole misericordioso del vescovo venuto dalla fine del mondo.
Oreste Sartore
[1] v. Enrico Maria Radaelli, La Chiesa ribaltata. Indagine estetica sulla teologia, sulla forma e sul linguaggio del Magistero di Papa Francesco, Verona, giugno 2014
[2] il modo di esprimersi descrittivo, sfumato e talora anche ambiguo rende ardua la separazione del grano dal loglio
[3] cfr. Benedetto XVI, Discorso alla curia romana, 22 dicembre 2005
[4] Papa Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, 2014
[5] atti del Convegno “Rivelazione e Storia”, organizzato da mons. Ennio Innocenti, Roma 7-8 marzo 2014
[6] la suprema potestà passa dal Papa unito al Collegio episcopale al Papa al Collegio episcopale unito al Papa
[7] Lumen Gentium, 21 novembre 1964, n. 22
[8] le istanze rivoluzionarie si caratterizzano per la loro insita ferocia, in quanto il “diritto” reclamato e raggiunto costituisce solo la base per altre e più avanzate richieste
[9] le conquiste rivoluzionarie sono per natura irreversibili
[10] Concilium, 2014 n.2
[11] v. don Patrice Laroche, Nouvelles de Chrétienté n. 98, marzo-aprile 2006
[12] sito infinito-quotidiano, 3 agosto 2014
[13] parole del cardinale Lorenzo Baldisseri; v. Danilo Castellano, Una resa incondizionata al mondo, Instaurare omnia in Christo, anno XLIII, Gennaio-Aprile 2014
[14] v. D. Castellano, Una resa incondizionata al mondo, op. cit.
[15] Corrado Gnerre, La Tradizione è sempre giovane, 10 luglio 2014, sito ilgiudiziocattolico
[16] Prandianus, Ecumenismo a senso unico, Torino, aprile 2013
[17] Discorso del Vescovo di Roma, Caserta,28luglio2014
[18] don Curzio Nitoglia, Introduzione a: Pierre Virion. “Mysterium Iniquitatis”, Milano, 2014