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S.Agostino - De vera religione/4

L'errore non dipende dai corpi o dai sensi, ma dal giudizio.

33.61. Se i corpi costituiscono una simulazione della verità, non dobbiamo credere loro proprio in quanto simulatori per non cadere nelle vanità dei vaneggianti, ma piuttosto dobbiamo chiederci - dato che la simulano perché sembra che la mostrino agli occhi carnali, mentre essa può essere colta solo dalla mente pura - se la simulano in quanto le sono simili o in quanto non la raggiungono. Infatti, se la raggiungessero, realizzerebbero pienamente ciò che imitano. Se poi la realizzassero pienamente, le sarebbero simili in ogni aspetto; ma se le fossero simili in ogni aspetto, non ci sarebbe nessuna differenza fra la sua natura e quella dei corpi. In tal caso, non la simulerebbero, ma sarebbero con essa la stessa cosa. Tuttavia, guardando con maggiore attenzione, ci si rende conto che essi non simulano, perché simula chi vuol apparire ciò che non è; invece chi, suo malgrado, è ritenuto diverso da quello che è, non simula ma inganna semplicemente. Infatti chi simula si distingue da chi inganna per il fatto che ha sempre la volontà di ingannare, anche quando non gli si creda; mentre, finché uno non inganna, non può essere ingannatore. Perciò le specie corporee, in quanto sono prive di volontà, non simulano; se, inoltre, non sono prese per quello che non sono, non ingannano neppure.

34.62. Ma neppure gli occhi ingannano; essi infatti non sono in grado di far altro che riportare alla mente le loro impressioni. E se non solo essi, ma tutti i sensi del corpo riportano soltanto le loro impressioni, non so che cosa d'altro dovremmo pretendere da essi. Se togli perciò coloro che vaneggiano, non ci sarà più alcuna vanità. Se qualcuno ritiene che il remo in acqua sia spezzato e che torni integro una volta che ne è tolto, ciò non dipende dal fatto che ha un cattivo organo di senso, ma dal fatto che giudica erroneamente. Data la sua natura, infatti l'occhio non poteva né doveva vedere diversamente nell'acqua; giacché, se l'aria e l'acqua sono tra loro differenti, è legittimo che si abbiano percezioni diverse nei due elementi. L'occhio perciò vede in modo corretto; del resto, è stato fatto per questo, soltanto per vedere; chi sbaglia invece è l'anima, alla quale, per contemplare la suprema bellezza, è stata data la mente, non l'occhio. Ora, essa vuole rivolgere la mente ai corpi e gli occhi a Dio, cioè cerca di comprendere le cose carnali e di vedere quelle spirituali, ma questo non è possibile.

Come si devono giudicare le immagini sensibili.

34.63. Perciò bisogna correggere questa perversione, perché l'anima, se non avrà riposto in basso quel che è in alto e in alto quel che è in basso, non sarà preparata per il regno dei cieli. Non cerchiamo dunque le cose somme tra quelle infime e non attacchiamoci a queste. Giudichiamo tali cose, per non essere giudicati insieme ad esse; ossia diamo loro l'importanza che ricoprono le cose di infima bellezza, perché non ci capiti di essere posti tra gli ultimi da colui che è primo, dal momento che cerchiamo le cose prime tra le ultime. Ciò non nuoce affatto alle cose ultime, a noi invece moltissimo. Né per questo il governo della divina Provvidenza viene meno al proprio decoro; poiché gli ingiusti hanno il posto che spetta loro secondo giustizia e i deformi quello che spetta loro secondo bellezza. E se siamo ingannati dalla bellezza delle cose visibili, perché essa partecipa dell'unità senza raggiungerla in modo completo, rendiamoci conto, se ci riusciamo, che siamo ingannati non da ciò che è, ma da ciò che non è. Ogni corpo infatti è un vero corpo, ma una falsa unità: non è l'Uno supremo, e non lo imita al punto di raggiungerlo; tuttavia non sarebbe neppure un corpo, se non avesse in qualche modo l'unità. D'altra parte, non potrebbe avere in nessun modo l'unità, se non la ricevesse da colui che è l'unità somma.

34.64. O anime pervicaci, datemi un uomo che riesca a vedere senza alcuna immagine di realtà materiali. Datemi un uomo che sia capace di comprendere che il principio dell'unità di ogni realtà non è che quell'unità dalla quale scaturisce tutto ciò che è uno, sia che lo realizzi pienamente sia che non lo realizzi pienamente. Datemi un uomo che veda effettivamente, non che stia a obiettare o che voglia sembrare che vede ciò che invece non vede. Datemi un uomo che resista ai sensi della carne e ai colpi che, attraverso essi, ha subito nell'anima; che resista alle abitudini umane e alle lodi degli uomini; che si penta nel suo giaciglio, che rinnovi il proprio cuore, che non ami le vanità esteriori e non cerchi illusioni; che insomma sappia dire a se stesso: " Se non c'è che una sola Roma, fondata, a quanto si dice, da un certo Romolo vicino al Tevere, è falsa questa che immagini con il pensiero; non è infatti la stessa, né io con l'animo sono lì, altrimenti di certo saprei che cosa ora vi accade. Se vi è un solo sole, è falso questo che mi immagino col pensiero; infatti quello compie le sue orbite in spazi e tempi determinati, questo invece lo colloco dove voglio e quando voglio. Se uno solo è quel tal mio amico, falso è questo che mi immagino con il pensiero; infatti, dove quello sia non lo so, questo invece me lo immagino dove voglio. Io stesso, di certo, sono uno e sento che il mio corpo è in questo luogo; tuttavia, con gli artifici del pensiero vado dove voglio e parlo con chiunque. Tutto ciò è falso e nessuno comprende il falso. Dunque non comprendo quando contemplo e credo queste cose, perché, se è necessario che sia vero ciò che contemplo con l'intelletto, sono forse tali queste cose che siamo soliti chiamare immagini? Da cosa dipende dunque che la mia anima è piena di illusioni? Dove è il vero che si coglie con la mente? ". A chi così pensa si può dire: la vera luce è quella per la quale riconosci che queste cose non sono vere. Attraverso essa vedi quell'Uno in base al quale giudichi che ha unità quanto altro vedi, ma tuttavia non è l'Uno ciò che di mutevole tu vedi.

Solo nella contemplazione di Dio l'anima trova la quiete.

35.65. Se l'occhio della mente freme per il desiderio di vedere queste cose, calmatevi; combattete soltanto contro le abitudini legate ai corpi: sconfiggete queste abitudini e tutto sarà vinto. Di certo, noi cerchiamo l'Uno, e niente è più semplice di ciò. Cerchiamolo perciò in semplicità di cuore. Sta scritto: State quieti, e sappiate che io sono il Signore: non nella quiete della pigrizia, ma in quella del pensiero, che lo libera dai condizionamenti dello spazio e del tempo. Infatti, le immagini che provengono dall'eccitazione e dall'incostanza ci impediscono di vedere l'immutabile unità. Lo spazio ci presenta cose da amare, che poi il tempo ci porta via, lasciando nell'anima una folla di immagini che stimolano la cupidigia ora verso un oggetto ora verso un altro. Così l'animo diviene inquieto e travagliato nel suo vano desiderio di possedere ciò da cui è posseduto. Per questo è invitato alla quiete, ovvero a non amare le cose che è impossibile amare senza affanni. Solo così infatti le dominerà: non ne sarà posseduto, ma le possederà. Il mio giogo è leggero, è detto. Chi è sottomesso a questo giogo ha tutte le cose sottomesse e non si affannerà, perché ciò che è sottomesso non gli fa resistenza. Ma i miseri, che sono amici di questo mondo, dovranno esserne padroni, se vorranno essere figli di Dio, perché fu data loro la possibilità di divenire tali; i miseri appunto hanno tanta paura di separarsi dall'abbraccio del mondo che niente per essi è più affannoso quanto il non provare affanni.

Errore e verità.

36.66. Ma a chi è chiaro almeno che la falsità consiste nel credere che sia quel che non è, costui comprende che è la verità a mostrare ciò che è. Ma se i corpi ingannano, in quanto non raggiungono completamente quell'unità che, come è provato, imitano, ossia il principio, perché è uno tutto ciò che è; inoltre, se è naturale che approviamo tutto ciò che tende ad essergli simile, mentre disapproviamo ciò che si allontana dall'unità e tende a essere dissimile da essa; allora si comprende che c'è qualcosa così simile a questa unità - Principio dal quale deriva l'unità di tutto ciò che in qualche modo è unitario - da realizzarlo completamente e identificarsi con essa: questa è la verità, il Verbo che era in principio, il Verbo Dio presso Dio. Se dunque la falsità deriva dalle cose che imitano l'unità, però non in quanto la imitano ma in quanto non riescono a realizzarla completamente, la Verità è quella che riuscì a realizzarla completamente e ad essere ciò che essa è. È quella che la mostra come è, per cui assai opportunamente è chiamata suo Verbo e sua Luce. Tutte le altre cose si possono dire simili a questa unità in quanto sono, giacché, come tali, sono anche vere; ma essa ne è la perfetta somiglianza e dunque la Verità. È per la verità, infatti, che sono vere le cose che sono vere, come è per la somiglianza che sono simili tutte le cose che sono simili. Come, dunque, la verità è la forma delle cose vere, così la somiglianza è la forma delle cose simili. Perciò, dato che le cose vere sono vere in quanto sono e in tanto sono in quanto sono simili all'Uno che ne è il principio, la somma somiglianza al Principio è la forma di tutte le cose che sono; essa è anche la Verità, perché è priva di dissomiglianza.

36.67. Perciò la falsità non ha origine né dall'inganno delle cose, perché a chi le osserva esse mostrano soltanto l'aspetto che hanno ricevuto secondo il loro grado di bellezza, né dalla fallacia dei sensi, perché all'anima che li governa essi non trasmettono altro che le impressioni che hanno ricevuto secondo la natura del corpo a cui appartengono. Sono invece i peccati che ingannano le anime, quando esse cercano il vero, dopo aver abbandonato e dimenticato la verità. Infatti, dal momento che hanno amato le opere più del loro artefice e dell'arte stessa, è questo stesso errore la loro punizione: cercando l'artefice e l'arte nelle opere e non riuscendo a trovarli (Dio, infatti, non solo non è oggetto dei sensi del corpo, ma sovrasta la mente stessa), credono che le opere siano l'arte e l'artefice.

L'idolatria nasce dall'amore per le creature.

37.68. Da qui scaturisce ogni empietà, non solo di coloro che peccano, ma anche di quelli che sono stati condannati per i loro peccati. Infatti, non solo vogliono esplorare le creature contro il precetto divino e godere di esse anziché della legge e della verità - in questo consiste il peccato del primo uomo che fece cattivo uso del libero arbitrio - ma, in questa loro dannazione, fanno anche dell'altro: non solo amano, ma servono anche le creature piuttosto che il Creatore e le venerano in tutte le loro parti, dalle più alte fino alle più basse. Alcuni si limitano a venerare, invece del sommo Dio, l'anima e la prima creatura dotata di intelletto, che il Padre creò per mezzo della verità perché contemplasse sempre quella stessa verità e, attraverso essa, Lui stesso, in quanto gli è somigliante sotto ogni aspetto. Quindi passano alla vita generativa, attraverso la quale Dio eterno ed immutabile produce gli esseri che generano le cose visibili e temporali. Poi procedono a venerare gli animali, quindi i corpi stessi e, tra questi, in primo luogo scelgono i più belli, tra i quali danno la preminenza ai corpi celesti. Di essi il primo che si incontra è il sole, e al sole alcuni si arrestano. Altri giudicano degno di culto anche lo splendore della luna; infatti è più vicina a noi, come si crede, per cui si pensa che abbia un aspetto più familiare. Altri aggiungono altri corpi celesti e l'intero cielo con le sue stelle. Altri al cielo etereo uniscono l'aria e sottomettono le loro anime a questi due elementi corporei superiori. Ma tra questi si reputano i più religiosi quelli che riguardano come l'unico grande Dio, del quale tutte le altre cose sono parti, tutta quanta la creazione, cioè il mondo intero con tutto ciò che contiene, e il principio vitale per il quale respira ed è animato, e che alcuni credono corporeo, altri incorporeo. Infatti, non conoscendo l'Autore e Creatore dell'universo, si gettano sugli idoli e, dopo essersi immersi nelle opere di Dio, si immergono nelle proprie, che tuttavia sono ancora visibili.

Le tre forme della concupiscenza.

38.69. C'è infatti un culto idolatrico deteriore e più basso, per il quale gli uomini adorano le proprie immaginazioni e rispettano con il nome di religione tutto ciò che, nella loro mente in disordine, hanno immaginato pensando con superbia ed orgoglio, fino a che l'anima non prende coscienza che nulla affatto si deve adorare e che errano gli uomini che si avvolgono nella superstizione, impigliandosi in una misera schiavitù. Tuttavia, si tratta di una vana coscienza, perché non riescono a liberarsi della schiavitù: rimangono infatti gli stessi vizi dai quali sono attratti, al punto di ritenerli degni di adorazione. Sono schiavi di una triplice cupidigia: del piacere, dell'ambizione e della curiosità. Escludo che vi sia qualcuno, fra coloro che ritengono che nulla si debba adorare, che non sia sottomesso ai piaceri carnali o non nutra una vana ambizione di potenza o non vada pazzo per qualche spettacolo. Così, senza rendersene conto, amano le cose temporali al punto che si aspettano da esse la felicità; e di queste cose, dalle quali si attendono la felicità, ineluttabilmente diventano schiavi, lo vogliano o no. Infatti, si finisce con il seguirle, dovunque esse conducano, nel timore che qualcuno possa portarsele via. Eppure le può portar via o una scintilla di fuoco o una piccola bestiola; inoltre, per tralasciare le innumerevoli avversità, c'è il tempo che ineluttabilmente porta via tutte le cose destinate a finire. Pertanto, siccome questo mondo comprende tutte realtà temporali, quelli che ritengono che non si deve adorare nulla per non essere schiavi, di fatto sono schiavi di tutte le parti di cui il mondo è costituito.

38.70. Questi infelici tuttavia, benché si trovino in una condizione così bassa da essere dominati dai loro vizi, vittime o della lussuria o della superbia o della curiosità, oppure di due di questi vizi o di tutti, fino a che sono nella vita terrena possono combattere e vincere, a patto però che prima credano a ciò che non sono ancora in grado di comprendere e non amino il mondo, perché, come Dio stesso ha detto, tutto quello che è nel mondo è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e ambizione mondana. I tre vizi sono così designati: la concupiscenza della carne indica chi ama i piaceri più bassi, la concupiscenza degli occhi i curiosi, l'ambizione mondana i superbi.

38.71. Nell'umana natura, di cui essa stessa si è rivestita, la Verità ha mostrato una triplice tentazione da cui liberarci. Il tentatore disse: Ordina che queste pietre diventino pane; ma l'unico e solo Maestro rispose: Non di solo pane vive l'uomo, ma di ogni parola che proviene da Dio. Così ha insegnato che bisogna dominare le brame del piacere, in modo da non cedere neppure alla fame. Ma chi non si era lasciato attrarre dal piacere della carne, forse avrebbe potuto essere attratto dal fasto del potere temporale; perciò gli furono mostrati tutti i regni della terra e gli fu detto: Ti darò tutte queste cose se, prostrandoti, mi adorerai. Ma gli fu risposto: Adorerai il Signore Dio tuo e a Lui solo renderai culto. Così fu schiacciata la superbia. Ma fu domata anche l'ultima tentazione, quella della curiosità. Il tentatore lo spingeva a gettarsi giù dalla sommità del tempio solo allo scopo di dare una prova; ma neppure in questo caso fu vinto e rispose in modo da farci comprendere che, per conoscere Dio, non c'è bisogno di prove rivolte a scoprire le cose divine in modo visibile. Disse infatti: Non tenterai il Signore Dio tuo. Pertanto, chiunque si nutre interiormente della parola di Dio, non cerca il piacere nel deserto di questo mondo. Chi è sottomesso solo all'unico Dio, non cerca di mettersi in mostra sul monte, cioè attraverso l'elevazione terrena. Chiunque sta saldamente legato allo spettacolo eterno della verità immutabile, non se ne distacca per precipitarsi a conoscere, attraverso la parte più alta del suo corpo, cioè gli occhi, le cose temporali e inferiori.

Perfino i vizi sono un richiamo a Dio. Interiorità e trascendenza.

39.72. C'è dunque ancora qualcosa che non possa ricordare all'anima la primitiva bellezza che ha perduto, dal momento che lo possono fare i suoi stessi vizi? La sapienza divina pervade il creato da un confine all'altro; quindi, per tramite suo, il sommo Artefice ha disposto tutte le sue opere in modo ordinato, verso l'unico fine della bellezza. Nella sua bontà pertanto a nessuna creatura, dalla più alta alla più bassa, ha negato la bellezza che da Lui soltanto può venire, così che nessuno può allontanarsi dalla verità senza portarne con sé una qualche immagine. Chiediti che cosa ti attrae nel piacere fisico e troverai che non è niente altro che l'armonia; infatti, mentre ciò che è in contrasto produce dolore, ciò che è in armonia produce piacere. Riconosci quindi in cosa consista la suprema armonia: non uscire fuori di te, ritorna in te stesso: la verità abita nell'uomo interiore e, se troverai che la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso. Ma ricordati, quando trascendi te stesso, che trascendi l'anima razionale: tendi, pertanto, là dove si accende il lume stesso della ragione. A che cosa perviene infatti chi sa ben usare la ragione, se non alla verità? Non è la verità che perviene a se stessa con il ragionamento, ma è essa che cercano quanti usano la ragione. Vedi in ciò un'armonia insuperabile e fa' in modo di essere in accordo con essa. Confessa di non essere tu ciò che è la verità, poiché essa non cerca se stessa; tu invece sei giunto ad essa non già passando da un luogo all'altro, ma cercandola con la disposizione della mente, in modo che l'uomo interiore potesse congiungersi con ciò che abita in lui non nel basso piacere della carne, ma in quello supremo dello spirito.

39.73. Ma se non ti è chiaro ciò che dico e dubiti che sia vero, guarda almeno se non dubiti di dubitarne; e, se sei certo di dubitare, cerca il motivo per cui sei certo. In questo caso senz'altro non ti si presenterà la luce di questo sole, ma la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo. Essa non si può percepire né con questi occhi né con quelli con cui sono pensate le rappresentazioni che gli occhi stessi imprimono nell'anima, ma con quelli con cui alle stesse rappresentazioni diciamo: " Non siete voi ciò che io cerco, e non siete neppure il principio in base al quale vi dispongo in ordine; ciò che trovo di brutto in voi lo disapprovo, mentre approvo ciò che trovo di bello; ma, poiché il principio per cui disapprovo e approvo è più bello, lo approvo di più e lo antepongo non solo a voi, ma anche a tutti i corpi dai quali vi ho attinte ". Quindi questa regola che tu constati formulala così: chiunque comprende che sta dubitando, comprende il vero e di ciò che comprende è certo; dunque è certo del vero. Ciò vuol dire che chiunque dubita dell'esistenza della verità, ha in se stesso il vero, per cui non può dubitarne. Ma il vero è tale unicamente per la verità; perciò non deve dubitare della verità chi ha potuto dubitare per qualche motivo. Queste cose appaiono manifeste dove risplende la luce che non si estende né nello spazio né nel tempo e che non può essere rappresentata né in forma spaziale né in forma temporale. Tali cose possono corrompersi da qualche parte? No, benché perisca o diventi vecchio tra gli esseri carnali inferiori chiunque possiede l'uso di ragione. In realtà, il ragionamento non crea tali verità, ma le scopre. Esse perciò sussistono in sé prima ancora che siano scoperte e, una volta scoperte, ci rinnovano.

La bellezza dei corpi come riflesso dell'ordine universale.

40.74. Così rinasce l'uomo interiore, mentre l'uomo esteriore si corrompe di giorno in giorno. Ma l'interiore guarda l'esteriore e lo trova deforme rispetto a se stesso; eppure lo vede bello nel suo genere, lieto per l'armonia che è propria dei corpi e capace di consumare ciò che trasforma a suo beneficio, cioè gli alimenti della carne. Questi, una volta che sono stati consumati, cioè che hanno perduto la propria forma, vanno a costituire la materia di cui sono fatte queste membra e ricostituiscono ciò che è stato disgregato, assumendo altre forme ad esse assimilabili. Mediante l'impulso vitale, quindi, sono in qualche modo selezionati, così che quelli tra essi che sono adatti vengono assunti nella struttura della nostra bellezza visibile, quelli che non lo sono invece sono espulsi attraverso le opportune vie. Di questi ultimi alcuni vengono restituiti alla terra come escremento per assumere altre forme, altri fuoriescono per tutto il corpo, altri ancora accolgono in sé gli ordini temporali latenti di tutto l'essere vivente, preparandosi alla procreazione, e, quando sono stimolati o dall'unione di due corpi o dall'immagine di tale unione, defluiscono dalla sommità della testa attraverso gli organi genitali in un basso piacere. Nella madre poi, secondo un ordine temporale ben determinato, essi vengono predisposti in un ordine spaziale, di modo che tutte le membra occupino il loro posto. E se queste hanno mantenuto la giusta proporzione, una volta aggiunto lo splendore del colore, nasce il corpo che si dice ben formato e che è amato intensamente da coloro che lo hanno caro. E tuttavia in esso ciò che piace di più non è la bellezza che viene animata, ma la vita che la anima. Infatti questo essere vivente, se ci ama, ci attira a sé con più forza; se invece ci odia, ci adiriamo e non riusciamo a sopportarlo, anche se ci offre la sua stessa bellezza per goderne. È qui che regna il piacere, e la bellezza più bassa, perché è soggetta a corruzione; se così non fosse, sarebbe ritenuta somma.

40.75. Ma interviene la divina Provvidenza per mostrare che tale bellezza non è di per sé un male, perché sono ben evidenti in essa le tracce delle supreme armonie in cui si manifesta la sapienza illimitata di Dio; e per mostrare anche, col mescolarvi dolori, malattie, deformazioni di membra, pallori, gelosie e discordie tra gli animi, che si tratta di una bellezza infima, in modo che siano ammoniti a cercare ciò che non muta. Realizza tutto ciò tramite quegli infimi servitori che le Sacre Scritture chiamano angeli sterminatori ed angeli dell'ira, i quali provano piacere a farlo, benché non sappiano quale beneficio ne derivi. A costoro sono simili quegli uomini che godono delle disgrazie altrui e che si procurano o cercano di procurarsi motivi di riso o divertenti spettacoli con le sciagure e gli errori altrui. Per i buoni tutto ciò serve di ammonimento e di prova e così essi vincono, trionfano, regnano; i malvagi invece sono ingannati, tormentati, vinti, condannati e costretti a servire non l'unico sommo Signore di tutte le cose, ma gli ultimi suoi servi, ossia quegli angeli che si nutrono dei dolori e della miseria dei dannati e che, a causa della loro malvagità, si affliggono per la liberazione dei buoni.

40.76. Così tutti, secondo i rispettivi ruoli e fini, sono ordinati in rapporto alla bellezza dell'universo in modo che quanto, considerato per se stesso, ci fa orrore, se considerato nell'insieme, invece ci piace moltissimo. Pertanto, nel giudicare un edificio non dobbiamo limitarci a considerare un angolo soltanto, né in un uomo bello i soli capelli, né in un buon oratore il solo movimento delle dita, né nel corso della luna le fasi di tre giorni soltanto. Queste cose infatti, che sono infime perché composte di parti imperfette, sono invece perfette nell'insieme: la loro bellezza può essere percepita sia in quiete sia in movimento; tuttavia bisogna considerarle nell'insieme, se si vuole giudicarle in modo corretto. Il nostro giudizio vero infatti è bello sia che riguardi l'insieme sia una sua parte: in quanto è conforme alla verità, con esso trascendiamo il mondo intero e non restiamo legati a nessuna delle sue parti. Il nostro errore invece è brutto di per sé, in quanto ci fa aderire ad una sua parte. Ma come il colore nero in un dipinto diviene bello in rapporto all'insieme, così l'agone della vita nel suo insieme si rivela accettabile perché l'immutabile divina Provvidenza assegna un ruolo ai vinti, un altro a chi lotta, un altro ancora ai vincitori e uno agli spettatori, un ultimo infine ai pacifici che contemplano solo Dio. In tutti costoro, infatti, non vi è altro male che il peccato e la pena del peccato, ossia il distacco volontario dalla più alta essenza e l'affanno involontario in quella più bassa o, per dirla in altri termini, l'affrancamento in virtù della giustizia, la servitù in conseguenza del peccato.

C'è bellezza anche nella pena del peccato.

41.77. L'uomo esteriore viene meno o per i progressi di quello interiore o per proprio difetto. Nel primo caso lo fa in modo da migliorare l'insieme che viene ricostituito nella sua totalità e da essere restituito, al suono dell'ultima tromba, alla sua originaria integrità, per non più corrompersi né corrompere. Nel secondo caso, invece, precipita in mezzo alle bellezze più corruttibili, cioè nell'ordine delle pene. Non meravigliamoci che le chiami ancora " bellezze "; infatti non vi è nulla che, in quanto rientra nell'ordine, non sia bello, perché, come dice l'Apostolo, ogni ordine viene da Dio. Bisogna riconoscere che un uomo che piange è migliore di un vermiciattolo felice; pur tuttavia con animo sincero potrei tessere un ampio elogio del vermiciattolo, considerando lo splendore del suo colore, la forma ben tornita del corpo, la proporzione fra le parti anteriori e quelle mediane e fra queste e quelle posteriori, la tendenza all'unità che esse conservano, pur nell'umiltà della loro natura: non c'è nessuna parte nel vermiciattolo che non trovi piena corrispondenza nell'altra. Che dire poi del principio vitale che anima il modo di modularsi del suo corpo, di come lo fa muovere ritmicamente, di come gli fa ricercare ciò che gli è confacente, di come gli fa superare o prevenire, per quanto può, gli ostacoli e di come, riportando tutto al solo istinto di conservazione, lascia intravedere in maniera molto più evidente del corpo quell'unità che fa essere tutte le cose? Eppure parlo di un qualsiasi vermiciattolo vivo. Molti hanno pronunciato le lodi della cenere e dello sterco in modo ampio e con grande verità. Perché allora meravigliarsi se dico che l'anima dell'uomo - migliore di ogni corpo, dovunque sia e come che sia - appartiene all'ordine delle bellezze e che dalle sue pene scaturiscono altre bellezze, pur trovandosi, nella sua miseria, dove conviene che stiano i miseri anziché i beati?.

41.78. Non lasciamoci ingannare da nessuno. Tutto ciò che è giustamente oggetto di disprezzo, è rifiutato rispetto a ciò che è migliore. Ogni natura, per quanto ultima o infima, è a buon diritto degna di lode in confronto al nulla. Ed allora nessuno sta bene, se può star meglio. Perciò per noi, se può essere bene rimanere con la verità stessa, è male rimanere con una sua traccia qualsiasi e, dunque, ancora peggio con ciò che resta di una traccia, come avviene quando ci attacchiamo ai piaceri della carne. Cerchiamo di vincere quindi sia le lusinghe che le molestie di questa cupidigia: sottomettiamo questa dimensione effeminata, se siamo uomini. Se siamo noi a comandare, anch'essa diventerà migliore e non si chiamerà più cupidigia ma temperanza; se invece è essa a comandare e noi le andiamo dietro, si chiamerà cupidigia e libidine e noi non saremo altro che temerità e stoltezza. Seguiamo Cristo, nostro capo, affinché anch'essa venga dietro a noi, che le siamo guida. Quanto detto si può prescrivere anche alle donne, non per diritto coniugale, ma per diritto di fraternità, in base al quale in Cristo non siamo né maschio né femmina. Anch'esse, infatti, hanno qualcosa di virile per sottomettere i piaceri da femmina, per servire Cristo e dominare la cupidigia. Nell'economia del popolo cristiano, del resto, ciò avviene già non solo in molte vedove e vergini consacrate a Dio, ma anche in molte donne sposate che adempiono ai doveri coniugali con fraterna disponibilità. Poiché, se di quella parte sulla quale Dio ci prescrive di avere il dominio, esortandoci e aiutandoci a tornare in possesso di noi stessi, per negligenza ed empietà l'uomo, cioè la mente e la ragione, diventerà suddito, egli sarà certamente un uomo turpe e infelice. Ma in questa vita egli ha un destino e, dopo questa vita, un posto là dove il supremo Reggitore e Signore ritiene giusto destinarlo e collocarlo. Perciò, nessuna deformità può macchiare il creato nel suo insieme.

La concupiscenza stessa della carne sollecita l'uomo a cercare l'armonia invisibile.

42.79. Camminiamo dunque, mentre è per noi giorno, cioè fino a che possiamo servirci della ragione, in modo che, rivolti a Dio, ci rendiamo degni di essere illuminati dal suo Verbo, che è la vera luce, e di non essere mai avvolti dalle tenebre. Il giorno infatti è per noi la presenza di quella luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo. Uomo è detto perché può valersi della ragione e, dove è caduto, lì può appoggiarsi per rialzarsi. Se dunque si ama il piacere della carne, a tale piacere si presti maggiore attenzione e, quando si siano riconosciute in esso le tracce di alcune armonie, si ricerchi dove si trovino nella loro forma originaria, perché lì è maggiore il grado di unità del loro essere. E se tali tracce sono presenti nello stesso impulso vitale che agisce nei semi, è lì che vanno ammirate più che nel corpo. Qualora, infatti, i ritmi vitali dei semi avessero un'espansione simile a quella dei semi stessi, da mezzo granello di fico nascerebbe mezzo albero di fico e da semi animali non integri nascerebbero animali non integri e completi e un solo e piccolissimo seme non avrebbe l'illimitata forza riproduttiva propria della sua specie. Da un solo seme invece, secondo la sua natura, si possono propagare, attraverso secoli, messi di messi, selve di selve, greggi di greggi, popoli di popoli, senza che vi sia, in una così ordinata successione, una foglia o un pelo la cui ragion d'essere non sia stata in quel primo ed unico seme. Si considerino poi le ordinate e soavi bellezze di suoni che l'aria trasmette quando vibra al canto dell'usignolo: di certo l'anima di quell'uccellino non potrebbe crearle spontaneamente a suo piacimento, se non le portasse impresse, in un modo non materiale, nel suo impulso vitale. Quanto detto si può riscontrare anche negli altri animali i quali, seppur privi di ragione, tuttavia non lo sono dei sensi. Tra loro, infatti, non vi è nessuno che, o nel suono della voce o in altro movimento e azione delle membra, non produca qualcosa di armonico e di misurato nel suo genere, non per effetto di qualche scienza, ma per un ordine intrinseco alla sua natura, regolato da quell'immutabile legge dell'armonia.

La verità eterna è la ragione dell'ordine universale.

43.80. Ritorniamo a noi e lasciamo da parte quel che abbiamo in comune con le piante e gli animali. La rondine, infatti, nidifica in un solo modo e così pure ciascuna specie di uccelli. Che c'è dunque in noi che, a proposito di tutte queste cose, ci consente di giudicare a quali forme mirino e fino a che punto le realizzino e che, negli edifici e nelle altre opere materiali, ci permette di inventarne innumerevoli, come se fossimo i signori di tutte le forme? Che c'è in noi che ci fa interiormente comprendere che queste stesse masse visibili dei corpi sono grandi o piccole in proporzione; che ogni corpo, per quanto piccolo, può essere diviso in due parti e che, anche così diviso, può esserlo ancora in innumerevoli parti; che ogni granello di miglio, rispetto ad una sua parte - la quale occupa in lui tanto spazio quanto il nostro corpo in questo mondo -, è tanto grande quanto lo è il mondo rispetto a noi? E ancora, che ci fa capire che tutto questo mondo è bello non per la grandezza ma per il rapporto tra le sue forme; che esso appare grande non per la sua ampiezza ma per la piccolezza nostra, cioè degli esseri viventi di cui è pieno, i quali, a loro volta, poiché possono essere divisi all'infinito, non sono così piccoli per se stessi, ma rispetto agli altri e soprattutto all'universo stesso? In modo del tutto simile avviene per il tempo, perché, come ogni estensione spaziale, così ogni durata temporale può essere divisa per due e, per breve che sia, ha un inizio, uno sviluppo e un termine. Dunque, deve comprendere inevitabilmente due metà, dal momento che si divide nel corso del suo procedere verso la fine. Per questo motivo la durata di una sillaba breve è breve in rapporto a quella di una più lunga, e l'ora invernale è più corta in rapporto a quella estiva. Come pure sono durate brevi quelle di una sola ora rispetto al giorno, di un giorno rispetto al mese, di un mese rispetto all'anno, di un anno rispetto al lustro, di un lustro rispetto a periodi più lunghi e di questi rispetto alla totalità del tempo. Però questa stessa armonica successione e, in qualche modo, gradazione di intervalli di luoghi e di tempi, è giudicata bella non per l'estensione o la durata, ma per l'ordinata disposizione.

43.81. Il criterio stesso che presiede a quest'ordine vive nell'eterna verità, inesteso di mole e immutabile quanto a durata; ma, in potenza, è più grande di tutti i luoghi e, nella sua eternità, più stabile di tutti i tempi. Senza di esso non sarebbe possibile ricondurre ad unità l'ampiezza di nessuna mole, né si potrebbe sottrarre alla dispersione lo svolgimento di nessun tempo: non vi potrebbe essere nulla, né un corpo che sia un corpo, né un movimento che sia un movimento. Tale criterio è l'Unità originaria, senza estensione e senza mutamento, tanto in senso finito quanto in senso infinito. Non ha infatti una parte qui ed una là, oppure una ora ed un'altra dopo, perché sommamente uno è il Padre della Verità, Padre della sua Sapienza, che, in quanto gli è simile in ogni sua parte, viene detta sua immagine e somiglianza, giacché deriva da Lui. A buon diritto, pertanto, è chiamata anche il Figlio che procede da Lui, mentre tutte le altre cose sono per mezzo di Lui. Infatti, la forma di tutte le cose, che realizza pienamente l'Uno dal quale procede, venne prima, perché tutte le altre cose che sono, in quanto sono simili all'Uno, fossero fatte per mezzo di Lui.

Il Figlio immagine di Dio.

44.82. Alcune di queste cose sono fatte mediante tale forma e in modo da essere in vista di essa, come è il caso di tutte le creature dotate di ragione e di intelletto, fra le quali l'uomo, che molto giustamente si dice fatto ad immagine e somiglianza di Dio : altrimenti non sarebbe in grado di contemplare con la mente l'immutabile verità. Altre invece sono fatte mediante essa, ma non in modo da essere in vista di essa. Perciò, se l'anima razionale si sottomette al suo Creatore, dal quale, mediante il quale e per il quale è fatta, tutte le altre cose le saranno sottomesse: sia la vita al suo livello più alto, che le è tanto simile e le funge da aiuto per dominare il corpo; sia il corpo stesso, che è la più bassa delle nature ed essenze, che essa dominerà in quanto è pienamente disponibile alla sua volontà e dal quale non riceverà alcuna molestia, perché non cercherà la felicità né in esso né per mezzo di esso, ma la riceverà da Dio per la sua stessa natura. L'anima perciò governerà il corpo, rigenerato e santificato, senza il danno della corruzione e senza il peso delle difficoltà. Alla resurrezione infatti non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo. I cibi sono per il ventre e il ventre per i cibi! Ma Dio distruggerà questo e quelli perché il regno di Dio non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia.

Il piacere stesso dei sensi spinge l'uomo alle cose più alte.

45.83. Perciò, in questo stesso piacere del corpo troviamo ciò che ci sollecita a disprezzarlo; non perché il corpo sia per sua natura un male, ma perché colui al quale è consentito di elevarsi ai beni più alti e di goderne, si voltola turpemente nell'amore per un bene infimo. Quando l'auriga viene trascinato via e paga le conseguenze della sua sconsideratezza, incolpa qualunque cosa di cui si serviva; piuttosto invochi aiuto, affidandosi al Signore di tutte le cose, e arresti i cavalli già pronti a far vedere a tutti la sua caduta e ad ucciderlo, se non viene soccorso; si rimetta al suo posto, si sistemi sopra le ruote, riprenda il controllo delle briglie, guidi con più prudenza le bestie sottomesse e domate: allora si accorgerà quanto bene sia costruito il carro nelle sue varie componenti, quale guasto l'abbia fatto cadere, togliendo alla sua corsa l'andatura giusta e moderata. Infatti nel paradiso terrestre ciò che rese debole questo corpo fu l'avidità dell'anima che male operò quando si appropriò del cibo proibito, contro la prescrizione del Medico in cui è riposta la salvezza eterna.

45.84. Se, dunque, in virtù della bellezza che dal livello più alto si diffonde fino a quello più basso, troviamo un ammonimento a cercare la felicità nella stessa debolezza della carne visibile, quanto più lo troveremo nel desiderio di notorietà e di eccellenza e in ogni superbia e vanagloria di questo mondo? In tutto ciò, infatti, l'uomo che altro cerca se non di essere, qualora fosse possibile, il solo a cui tutto è sottomesso, in una perversa imitazione dell'onnipotenza divina? Se lo imitasse sottomettendosi a Lui e vivendo secondo i suoi precetti, mediante Lui avrebbe ogni cosa sottomessa e non giungerebbe a tanta turpitudine da temere una bestiola qualunque, lui che pretende di comandare gli uomini. Dunque, anche nella superbia è presente un certo desiderio di unità e di onnipotenza, tuttavia nel puro dominio delle realtà temporali, le quali passano tutte come ombra.

45.85. Vogliamo essere invincibili, e a buon diritto: il nostro animo, infatti, per natura trae questa aspirazione da Dio, che l'ha creato a sua immagine. Ma dovevamo osservare i suoi precetti; se li avessimo osservati, nessuno ci avrebbe vinto. Ora invece, mentre colei, alle cui parole turpemente acconsentimmo, è costretta a sopportare i dolori del parto, noi ci affanniamo sulla terra, e con grande vergogna siamo sopraffatti da tutto ciò che riesce a turbarci e sconvolgerci. Così, non vogliamo essere vinti dagli uomini, e non riusciamo a vincere l'ira. C'è una vergogna più detestabile di questa? Diciamo che l'uomo è quello che noi stessi siamo: anche se ha vizi, tuttavia non è egli stesso il vizio. Non è perciò più onorevole che ci vinca un uomo, anziché il vizio? Chi dubita poi che l'invidia sia un vizio orribile dal quale è inevitabilmente tormentato e sottomesso chi non vuole essere vinto nelle cose temporali? È meglio, dunque, che ci vinca un uomo piuttosto che l'invidia o un qualsiasi altro vizio.

L'uomo può diventare invincibile solo amando Dio.

46.86. Ma chi ha vinto i suoi vizi non può più essere vinto da un uomo: è vinto infatti soltanto colui al quale l'avversario porta via ciò che ama. Chi dunque ama soltanto ciò che non gli può essere portato via, inevitabilmente è invincibile e non è tormentato in nessun modo dall'invidia. Ama infatti un essere il quale, quanti più sono coloro che giungono ad amarlo e possederlo, tanto più abbondantemente se ne rallegra con essi. Ama Dio appunto con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente. Ed ama il prossimo come se stesso. Per questo non invidia che sia come egli stesso è, ma piuttosto, per quanto può, lo aiuta. Né può perdere il prossimo che ama come se stesso, perché ciò che ama in se stesso non sono le cose che cadono sotto gli occhi o sotto qualche altro senso del corpo. Ha dunque in se stesso quello che ama come se stesso.

46.87. La regola dell'amore consiste nel volere che i beni che vengono a noi vengano anche all'altro e nel non volere che capitino all'altro i mali che non vogliamo che capitino a noi stessi, e nel conservare questa disposizione d'animo verso tutti gli uomini. Nei confronti di nessuno infatti va compiuto il male, e l'amore non fa nessun male al prossimo. Amiamo dunque, come ci è stato comandato, anche i nostri nemici, se vogliamo essere veramente invincibili. Nessun uomo è invincibile per se stesso, ma per quella immutabile legge per la quale solo coloro che la rispettano sono liberi. Poiché, in tal modo, non può essere loro portato via quello che amano, e questo soltanto li rende uomini invincibili e perfetti. Infatti, se l'uomo ama l'uomo non come se stesso, ma come si ama un giumento o un bagno o un uccellino variopinto e garrulo - ossia per ricavarne qualche piacere o vantaggio materiale - inevitabilmente si sottomette non all'uomo, ma, cosa ancora più turpe, ad un vizio tanto vergognoso e detestabile, per cui non ama l'uomo come dovrebbe essere amato. Se in lui domina, questo vizio lo accompagna fino alla fine della vita, anzi alla morte.

46.88. L'uomo, tuttavia, non deve essere amato dall'uomo come si amano i fratelli carnali o i figli o i coniugi o i parenti o gli affini o i concittadini: anche questo amore è temporale. Infatti, non conosceremmo nessuno di questi legami, che ci provengono dal nascere e dal morire, se la nostra natura, rispettando i precetti e l'immagine di Dio, non si fosse avvolta in questa corruzione. Per questo motivo la stessa Verità, richiamandoci alla primitiva e perfetta natura, ci ordina di resistere alle abitudini della carne, insegnandoci che non è adatto al regno di Dio chi non odia questi vincoli carnali. A nessuno ciò deve sembrare cosa inumana; infatti è più inumano non amare nell'uomo ciò che è uomo che amare ciò che è figlio, giacché questo vuol dire amare in lui non ciò che lo lega a Dio, ma ciò che lo lega a se stesso. Che c'è dunque di straordinario se non perviene al regno di Dio chi ama non ciò che appartiene a tutti, ma ciò che è suo soltanto? Si ami l'uno e l'altro, dirà qualcuno; no, solo l'uno, dice Dio; la Verità, infatti, molto giustamente afferma: Nessuno può servire a due padroni. Nessuno, dunque, può amare in maniera compiuta ciò a cui è chiamato, se non odia ciò da cui è sollecitato a tenersi lontano. Noi siamo chiamati alla natura umana perfetta, quale fu creata da Dio prima del nostro peccato; siamo invece sollecitati a non amare quella che abbiamo meritato col peccato. Perciò, dobbiamo detestare la natura dalla quale desideriamo essere liberati.

46.89. Se ardiamo d'amore per l'eternità, dunque dobbiamo detestare i vincoli temporali. L'uomo ami il prossimo come se stesso. Poiché certamente nessuno è a se stesso o padre o figlio o parente o qualcosa del genere, ma soltanto uomo, chi ama qualcuno come se stesso, in lui deve amare ciò che egli è per se stesso. Ora, i corpi non sono ciò che noi siamo; non è perciò il corpo che si deve ricercare o desiderare nell'uomo. A questo proposito vale anche il precetto: Non desiderare i beni del tuo prossimo. Perciò, chiunque nel prossimo ama altro da quello che egli è per se stesso, non lo ama come se stesso. Dunque, ciò che si deve amare è la natura umana in se stessa, indipendentemente dalla sua condizione carnale, tanto se è già perfetta quanto se è da perfezionare. Sotto l'unico Dio Padre sono tutti parenti coloro che lo amano e fanno la sua volontà. Tra di loro, poi, essi sono l'uno per l'altro padri quando si aiutano, figli quando si ubbidiscono reciprocamente e soprattutto fratelli, perché unica è l'eredità a cui l'unico Padre li chiama con il suo testamento.

L'unione con Dio e l'amore per il prossimo rendono invincibili.

47.90. Di conseguenza, perché non dovrebbe essere invincibile chi, amando l'uomo, in lui non ama che l'uomo, cioè la creatura di Dio, fatta a sua immagine, in quanto non può essere privo della natura perfetta che ama, quando egli stesso è perfetto? Così, ad esempio, se qualcuno ama chi canta bene - non questo o quello, ma soltanto uno che canti bene - essendo egli stesso un perfetto cantore, vuole che tutti siano come lui, in modo però che non gli venga a mancare quel che ama, perché egli stesso canta bene. Pertanto, se invidia qualcuno che canta bene, non è il canto che ama, ma la lode o qualcosa d'altro che desidera ottenere cantando bene o che può perdere, in parte o interamente, in presenza di un altro che canta bene. Dunque, chi invidia un buon cantore, non lo ama; per contro, chi manca di tali capacità, non è un buon cantore. Tutto ciò si può dire, in maniera molto più appropriata, di chi vive rettamente, perché non può invidiare nessuno; infatti, il fine a cui pervengono coloro che vivono rettamente conserva le stesse dimensioni per tutti e non subisce diminuzioni anche se lo possiedono in molti. Ci possono essere circostanze nelle quali il buon cantore non è in grado di cantare in modo adeguato e può aver bisogno della voce di un altro, il quale perciò gli offre ciò che ama; come quando, per esempio, si tiene un banchetto in un luogo in cui per lui sarebbe disdicevole cantare e onorevole invece ascoltare uno che canta. Al contrario, vivere giustamente è sempre onorevole. Quindi, chiunque ama vivere giustamente e lo attua, non solo non invidia i suoi imitatori, ma anche, per quanto può, si presenta loro con grande disponibilità e cortesia, pur senza averne bisogno; infatti, quel che in essi ama, lo possiede in se stesso in maniera totale e perfetta. Così, quando ama il prossimo come se stesso, non prova invidia per lui, perché non la prova neppure per se stesso; gli dà ciò che può, perché lo dà a se stesso; non ha bisogno di lui, perché non ne ha di se stesso: ha bisogno soltanto di Dio, perché, unendosi a Lui, è beato. Nessuno, infatti, gli può togliere Dio. Senza alcun dubbio, perciò, è un uomo invincibile colui che sta unito a Dio, non perché ottiene da Lui qualche altro bene, ma perché per lui non c'è nessun altro bene all'infuori dello stare unito con Dio.

47.91. Un uomo così, nel corso della sua vita, si serve degli amici per ricambiare la gratitudine, dei nemici per esercitare la pazienza, di quelli ai quali può fare del bene per far loro del bene, di tutti per dar prova della sua bontà. E, sebbene non ami i beni temporali, ne fa un giusto uso, aiutando gli uomini secondo la loro condizione, se non può farlo in modo eguale per tutti. Pertanto, se parla più volentieri con qualcuno dei suoi intimi che con il primo venuto, non significa che lo ami di più, ma che ha con lui maggiore confidenza e più occasioni. Tratta infatti tanto meglio quelli che sono occupati nelle questioni terrene quanto meno egli vi è impegnato. Poiché, dunque, non può essere di giovamento per tutti, che pure ama in egual misura, sarebbe ingiusto se non preferisse esserlo per coloro che gli sono più vicini. Il legame spirituale, poi, è più forte di quello di luogo e di tempo, nel quale siamo generati come esseri corporei, ed è un legame fortissimo, che prevale su tutti. Un tale uomo, perciò, non si affligge per la morte di nessuno, perché chi ama Dio con tutto il cuore sa che quanto non perisce per Dio neppure per lui perisce. Ora, Dio è il Signore dei vivi e dei morti. Perciò, come la giustizia altrui non lo rende giusto, così l'infelicità altrui non lo rende infelice. E come nessuno può portargli via la giustizia e Dio, così nessuno può portargli via la felicità. E se talora è turbato dal pericolo, dall'errore o dal dolore di qualcuno, è disposto a farne l'opportunità per soccorrerlo, correggerlo o consolarlo, ma non per distruggere se stesso.

47.92. In nessuna delle sue doverose incombenze viene fiaccato, sicuro nell'attesa della pace futura. Che cosa infatti potrà nuocere a colui che è in grado di trarre vantaggio anche dal nemico? Protetto e sostenuto da Dio per il cui precetto e dono ama i suoi nemici, non teme la loro inimicizia. Un uomo del genere non si rattrista troppo nelle tribolazioni; anzi addirittura ne gode, sapendo che la tribolazione produce la pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Chi potrà nuocere a costui? Chi potrà sottometterlo? L'uomo che progredisce nella prosperità, nell'avversità impara a conoscere i progressi che ha compiuto. Non confida infatti nei beni mutevoli, quando abbondano; perciò, quando gli sono tolti, scopre che se ne era lasciato afferrare. Perché per lo più, quando li abbiamo, pensiamo di non amarli; ma quando cominciano a mancare, scopriamo chi siamo. Infatti, perdiamo senza dolore ciò che possedevamo senza amarlo. Sembra dunque che vinca, mentre in realtà è vinto chi, prevalendo, ha raggiunto ciò che dovrà lasciare con dolore; al contrario, vince, mentre sembra che sia vinto chi, rinunciando, raggiunge ciò che non potrà perdere senza la sua volontà.

Libertà e giustizia.

48.93. Dunque, chi ama la libertà, cerchi di essere libero dall'amore per le cose mutevoli; e chi ama il potere, si sottometta come suddito a Dio, l'unico che regna su tutto, amandolo più di se stesso. Questa è la perfetta giustizia, per la quale amiamo di più le cose di maggior conto e di meno quelle di minor conto. Ami dunque l'anima sapiente e perfetta, così come la vede, e quella stolta non in quanto tale, ma in quanto può essere perfetta e sapiente, giacché non deve amare neppure se stesso in quanto stolto. Infatti, chi ama se stesso in quanto stolto non farà progressi verso la sapienza e nessuno diventerà quale desidera essere, se non avrà odiato se stesso come è. Ma, fino a che non avrà raggiunto la sapienza e la perfezione, sopporti la stoltezza del prossimo con la stessa disposizione d'animo con la quale sopporterebbe la propria, se fosse stolto e amasse la sapienza. Perciò, se la stessa superbia è un'ombra della vera libertà e del vero regno, anche per mezzo di essa la divina Provvidenza ci ricorda di che cosa noi peccatori siamo segni e dove dobbiamo ritornare, una volta ripresa la giusta via.

Anche la curiosità è monito a cercare la verità.

49.94. Che altro, poi, hanno di mira gli spettacoli e tutto ciò che chiamiamo curiosità, se non la gioia di conoscere le cose? Che c'è, dunque, di più ammirevole e di più bello della verità stessa, a cui ogni spettatore dà prova manifesta di voler pervenire quando vigila attentamente per non farsi ingannare e, poi, si vanta se nello spettacolo riesce a cogliere qualcosa e a giudicarlo con maggior acume e prontezza degli altri? Guardano con molta attenzione anche il prestigiatore, benché non prometta nient'altro che inganno, e lo osservano con grande impegno; se poi vengono ingannati, si compiacciono della sagacia di colui che li inganna, non potendolo fare della propria. Infatti, qualora il prestigiatore non sapesse per quali motivi gli spettatori si ingannino, o fosse ritenuto tale, nessuno lo applaudirebbe, essendo anch'egli in errore. Se però qualcuno del pubblico da solo ne scopre il trucco, ritiene di meritare una lode maggiore della sua, se non altro perché è riuscito a non farsi raggirare e ingannare. Se, invece, l'inganno è chiaro a molti, il prestigiatore non viene lodato, ma vengono derisi tutti gli altri che non sono capaci di scoprirlo. La palma della vittoria così è data sempre alla conoscenza, alla perizia tecnica, alla capacità di comprendere la verità: essa, però, in nessun modo è raggiunta da coloro che la cercano al di fuori di se stessi.

49.95. Pur tuttavia siamo immersi in frivolezze e turpitudini così grandi che, alla domanda se sia preferibile il vero o il falso, ad una sola voce rispondiamo che è preferibile il vero; ma poi ci attacchiamo ai giochi e agli svaghi, dove di certo sono le cose false che ci dilettano, non quelle vere, con molta più inclinazione che non i precetti della verità. Così siamo puniti dal nostro stesso giudizio e dalla nostra parola, perché con la ragione riconosciamo buona una cosa, mentre per vanità ne seguiamo un'altra. Ma una cosa ci diverte e ci rende allegri fino a quando sappiamo in rapporto a quale verità essa provoca il riso. Ora, con l'amare i giochi e gli svaghi, ci allontaniamo dalla verità e non troviamo più di quali cose essi siano imitazioni; li desideriamo intensamente come se fossero bellezze supreme e, anche quando ce ne allontaniamo, abbracciamo le nostre immaginazioni. E queste, se poi torniamo a cercare la verità, ci vengono incontro lungo il cammino e non ci consentono di procedere oltre, assalendoci senza violenza ma con abili insidie, poiché non abbiamo compreso in tutto il suo valore il significato del detto Guardatevi dai falsi dèi.

49.96. Per questo motivo alcuni sono stati portati per innumerevoli mondi dal loro errabondo pensiero. Altri hanno ritenuto che Dio non potesse essere che un corpo di fuoco. Altri ancora, con le loro fantasie, hanno immaginato che lo splendore della luce fosse esteso ovunque per infiniti spazi, ma che da una parte fosse interrotto come da un cuneo nero, e perciò hanno congetturato due opposti regni, ponendoli come princìpi delle cose. Se li obbligassi a giurare sulla verità di queste idee, forse non oserebbero farlo, ma a loro volta mi direbbero: " Mostraci tu, dunque, cosa è vero ". E se rispondessi loro che debbono cercare solo quella luce per la quale appare loro, ed è certo, che una cosa è credere e un'altra comprendere, anch'essi giurerebbero che questa luce non si può vedere con gli occhi né si può pensare come diffusa in un ampio spazio, e che è dovunque a disposizione di chi la cerca, e che non si può trovare niente di più certo e di più chiaro di essa.

49.97. D'altro canto, tutto ciò che ora ho detto di questa luce della mente, risulta manifesto solo in virtù di questa stessa luce. Per mezzo di essa, infatti, comprendo che sono vere le cose dette, e ancora per mezzo di essa comprendo che le comprendo: così avviene sempre di nuovo, quando ciascuno comprende di comprendere qualcosa e ancora comprende questo suo comprendere. Comprendo che si può andare all'infinito e che in tutto ciò non c'è nessuno sviluppo né in senso spaziale né in senso temporale; comprendo, inoltre, che non potrei comprendere se non vivessi e, con maggior certezza, comprendo di vivere in maniera più intensa quando comprendo: è per la sua intensità, appunto, che la vita eterna supera quella temporale. E non riesco a percepire in cosa consista l'eternità, se non con l'intelligenza. Con lo sguardo della mente, infatti, distinguo l'eternità da tutto ciò che è mutevole e in essa non vedo alcun intervallo di tempo, perché gli intervalli di tempo scaturiscono dai movimenti passati e futuri delle cose. Nell'eternità, invece, nulla passa e nulla deve avvenire, perché ciò che passa cessa di essere e ciò che deve avvenire non ha ancora cominciato ad essere. L'eternità è soltanto: né fu, come se ormai non sia più, né sarà, come se ancora non sia. Perciò essa sola poté dire alla mente umana con piena verità: Io sono colui che sono; e con altrettanta verità di lei si poté dire: È Colui che è che mi ha mandato.


 Sant'Agostino d'Ippona (4/5)