Oltre la linea delle parole perdute
Eppure, gli innocenti continuano a morire e nascere secondo leggi che offendono Dio e umiliano l’uomo. Eppure, oggi, ancora più di avantieri, la buona morte e la buona nascita sono lì per diventare moneta sonante anche dove avevano incontrato almeno un po’ di opposizione. Eppure, l’eugenetica e gli altri mali che inquietavano Chesterton al principio del secolo scorso si sono definitivamente incarnate all’inizio di quello in corso. Si potrebbe riempire una pagina di “eppure” mettendoli in conto a chierici e intello’ che avevano promesso di non negoziare e invece hanno negoziato perché con il secolo e il mondo, alla fine, è più comodo fornicare.
Un epilogo per il quale non si può neanche evocare la grandezza romantica di una trahison, perché quei clercs così solerti nel suonare la squilla della riscossa non si battevano per dei principi: difendevano una linea. Ma si trattava solo di un segno tracciato appena un poco più avanti in terra nemica, nulla di più. Oltre quella linea non ci sono mai voluti stare per comprendere cosa avviene e organizzare nidi di sopravvivenza. I luoghi più avventurosi che frequentano sono quelle periferie esistenziali dove la valuta del pensiero e della morale si assoggettano a un misericordioso cambio a tasso variabile. Da amici in visita, però, per inebriarsi dello spirito che soffia da quelle parti e trasferire al volgo il suo linguaggio perverso.
Si trovano a loro agio nella terra del Grande Fratello orwelliano, dove le parole non hanno più il loro significato originale. Si bevono come rosolio quanto dice in 1984 un funzionario addetto alla costruzione della neolingua: “È qualcosa di bello la distruzione delle parole” dice in 1984 un funzionario addetto alla costruzione della neolingua. (…) E non mi riferisco solo ai sinonimi, sto parlando anche dei contrari. Che bisogno c’è di una parola che è solo il contrario di un’altra? Ogni parola già contiene in se stessa il suo contrario. Se hai a disposizione una parola come ‘buono’, che bisogno c’è di avere anche ‘cattivo’? ‘Sbuono’ andrà altrettanto bene”.
Oltre a “sbuono”, ci sarà quindi “plusbuono”, “arciplusbuono”, fino a un numero infinito di gradazioni. Con l’esito di violentare la parola ingravidandola con il seme del suo contrario e farle partorire la sua caducità, farle desiderare la sua stessa morte per manifesta insignificanza pur nella consapevolezza di non poter morire.
Ma la violenza sulle parole è la fine degli uomini, è la chiusura dei Cieli, è la rinuncia a raddrizzare le creature piegate dall’errore o dal peccato. Se il vero non trova il suo contrario nel falso, se il “credente” non lo individua nell’”ateo”, negoziare neccesse est. Se nulla ha più il suo contrario, governa ciò che Orwell chiama bipensiero, “la capacità di accogliere simultaneamente nella propria mente due opinioni tra loro contrastanti, accettandole entrambe. L’intellettuale di Partito sa (…) di essere impegnato in una manipolazione della realtà, e tuttavia la pratica del bipensiero fa sì che egli creda che la realtà stessa non venga violata”.
L’osceno spettacolo della “vita” che diventa il proprio contrario senza essere chiamata “morte”, dell’”uomo” manipolato in qualcosa di “diversamente uomo” senza suscitare almeno un fremito d’orrore può essere interrotto solo da chi chiami le cose con il loro nome. Ma una chiesa e un occidente votati a radunare credenti e cittadini, diversamente credenti e diversamente cittadini, non credenti e credenti e non cittadini al cospetto di un non Dio e di un non stato sono privi dei mezzi per fare chiarezza.
È l’esito di un’operazione condotta per via esogena e per via endogena attraverso una metodica che ricalca quella descritta da Vladimir Volkoff nel Montaggio, un raro e quasi inosservato romanzo di spionaggio che, come tutti i capolavori del genere, cela una riflessione acuminata sulla natura dell’uomo e sul mistero di Dio. Volkoff narra come, tra gli Anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso, l’Unione Sovietica abbia manipolato, fino quasi spezzarla l’intelligenza dell’occidente. Un’opera paziente e inesorabile fondata, come rivela l’emissario della misteriosa Direzione degli agenti di influenza a una recluta, su tre archetipi: la Leva, il Triangolo e il Fil di ferro.
“La prima immagine” dice il reclutatore della Direzione “è la Leva. Più grande è la distanza fra il punto d’appoggio e il punto d’applicazione, più grande è il peso che si può sollevare, mantenendo uguale la forza. Bisogna ben impregnarsi dell’idea che ciò che forma la Leva è la distanza stessa e, di conseguenza, cercare sempre di aumentarla, mai di diminuirla. Ne deriva che, nel campo dell’influenza, non bisogna mai agire da soli, ma sempre attraverso un intermediario o, ancor meglio, attraverso una catena di intermediari. (…) Ha visto quel manifesto che rappresenta una madre con il bambino in braccio e il motto ‘Lottiamo per la pace’? È un’idea della nostra Direzione. Nell’Unione Sovietica, per lanciare lo stesso appello, abbiamo un manifesto con lo stesso motto, ma sa cosa vi è raffigurato? Un soldato dell’Armata Rossa con il mitra sulla pancia”. E quando la recluta chiede se la Leva sia quel manifesto, il maestro risponde: “No! La Leva è l’ingenuo che contempla il manifesto e ne ripercuote il messaggio perché, credendo nelle virtù della pace, non può fare a meno di credere alla sincerità di chi la rivendica”.
Quanto al Triangolo, svela il maestro, “si tratta ancora di un’applicazione del principio di base: nulla di diretto, sempre degli intermediari, mai lottare sul proprio terreno o su quello dell’avversario, regolargli il conto altrove, in un altro paese, in un altro contesto sociale, in un altro campo intellettuale che non sia quello in cui vi è veramente conflitto. Questa concezione presuppone tre partecipanti: noi, l’avversario e un elemento di contrasto, cioè un elemento che riverbera la nostra manovra. (…) Supponiamo che io decida di estendere la mia influenza su un certo paese. Il Triangolo sarà composto da me, dalle autorità di quel paese e dal suo popolo, che è l’elemento di contrasto”.
Infine, “L’immagine del Fil di ferro deriva dal fatto che, per spezzarlo, bisogna torcerlo nelle due direzioni opposte. Ora lei tocca proprio il fondo della nostra arte, uso la parola a proposito. L’agente d’influenza è il contrario di un propagandista, o meglio è il propagandista assoluto, colui che fa propaganda allo stato puro, mai in favore, sempre contro, senz’altro scopo che dare gioco, allentare, tutto scollare, sciogliere, disfare, disserrare. (…) l’agente d’influenza sovietico non si farà mai passare per un comunista. Ora con la sinistra, ora con la destra, segherà sistematicamente l’ordine esistente. (…) Basta giocare il rosso e il nero, il pari e il dispari”.
Applicazione ed esito finale sono sotto gli occhi di chiunque abbia onestà e coscienza per vedere.
Ecumenismo di nuovo conio e buonismo diffusi fin nell’ultima sacrestia e nell’ultima aula di scuola: e così è piantata nel cuore della chiesa e dell’occidente la Leva che ne scardinerà l’ordine.
Una pastorale e una politica votati a vanificare la dottrina sul terreno della prassi, per il bene del popolo di Dio e del Principe che tutto e tutti sussume: e il Triangolo è chiuso a dovere.
Un conservatorismo flaccido che se un tal documento, un tal gesto, un tal rituale vengono torti po’ troppo verso sinistra, invece di denunciare che sono divenuti un’altra cosa, mostra volentieri che li si può raddrizzare torcendoli anche verso destra: e il Fil di ferro del rigore si spezza assieme all’intelligenza di chi abbia assecondato il gioco.
Le parole perdute, prive di senso genuino, sono incapaci di salvare la ragione e le azioni degli uomini, proprio come il pane che non sia di frumento e il vino che non sia d’uva non possono essere consacrati nel Corpo e nel Sangue di Gesù Cristo per salvare le anime. C’è un legame evidente e insieme misterioso tra la Parola di Dio e la parola dell’uomo, così come tra le creature. Fu il monaco carolingio Rabano Mauro, nel De rerum naturis et verborum proprietatibus, a chiamare per primo questo legame “analogia”, che è una delle caratteristiche dell’essere.
“La legge dell’analogia” scrive Attilio Mordini in Verità del linguaggio “che ci mostra le creature come simboli, non in un convenzionale e rigido allegorismo, bensì come la vita stessa delle cose veramente amate, è il linguaggio di Dio nella creazione; e non vi sarebbe il linguaggio dell’uomo se la legge del simbolo fosse soltanto un’astrazione. Infatti, la parola umana è proprio un simbolo, il primo e l’ultimo simbolo dell’uomo, il simbolo da cui muove tutta l’esperienza del mondo esteriore, e il simbolo a cui l’esperienza stessa torna per farsi giudizio, preghiera, linguaggio d’amore”.
Private del loro significato le parole, non smettono di parlare, divengono simboli impazziti che distruggono la ragione. Divengono strumenti di un rito blasfemo che produce gli echi dell’inferno già qui sulla terra. Un esito evocato da Thomas Mann nel Doctor Faustus: “Questa è, precisamente, la gioia segreta, la sicurezza dell’inferno: che non è enunciabile, che è salva dal linguaggio, che esiste semplicemente, ma non la si può mettere nel giornale, non la si può rendere pubblica, non se ne può dare una nozione critica con parole, poiché le parole sotterraneo, cantina, mura spesse, silenzio, oblio, mancanza di salvezza sono solo deboli simboli (…) là tutto finisce, ogni pietà, ogni grazie, ogni riguardo e fino all’ultima traccia di comprensione per l’obiezione incredula e scongiurante: ‘Questo voi potete, eppure non potete fare di un’anima’. E invece sì, lo si fa e avviene senza il controllo della parola, in cantine afone, laggiù in fondo dove Dio non ode, e per tutta l’eternità”.
Il riflesso divino nel linguaggio dell’uomo che salva la ragione da quest’inferno trova sublimazione nelle parole che perpetuano il sacrificio del Logos sulla Croce. Inchiodate là, sul simbolo dei simboli, riportano in asse la creazione intera. “Hoc est enim Corpus meum”: se il sacerdote si sostituisce in qualche modo simbolicamente alla persona di Gesù nel pronunciare queste parole, proprio in quel momento il simbolo si fa realtà sostanziale nelle specie del pane e poi del vino. Realtà e simbolo si incontrano come una retta verticale che vada a trafiggere quella orizzontale al centro di una croce. E il mondo, popolato dai tanti legami dell’analogia ma sfigurato dal peccato, può continuare a reggersi.
Alla fine, è questo il bersaglio ultimo di chi ha corrotto il linguaggio fino quasi a farne l’inferno del Doctor Faustus, nell’illusione che Dio più non oda e più non parli.
“Impossibile che la Direzione non sia passata di qui” dice fra sé il protagonista del Montaggio assistendo a una Messa cattolica riformata. “Fu di una povertà sconcertante, la volgarità della musichetta sottolineava l’insulsaggine delle strofe. Aleksandr, che ricordava le austere magnificenze del rito gregoriano e, talvolta, frequentava le chiese ortodosse dove ‘il Signore si veste di splendore’, non capì nulla di quella parodia d’ufficio protestante, con ritornelli numerati e letture in una lingua grossolana se non plebea. ‘Impossibile’ disse fra sé ‘che la Direzione non sia passata di qui. Impossibile che la Chiesa abbia rinunciato spontaneamente alla bellezza di un servizio che dà agli uomini della terra un’idea del Regno dei Cieli. Quas vult perdere Directoratus dementat”.
Eppure, è accaduto. Chierici e intello’ non hanno smesso un monento di vomitare sul mondo le loro parole perdute. Cosicché, oltre la linea, ora scorgiamo solo rovine.
Alessandro Gnocchi (ricognizioni.it)