“Secondo me la Missione non può continuare senza il sacrificio di qualche suora”
“Sicuro Madre. Due frati sono già morti, ora tocca a noi morire qui, in martirio, come offerta a Cristo per il bene della missione, per tutta la Nigeria”.
Questa brevissimo dialogo tra due suore Francescane dell’Immacolata, di cui sono stata testimone durante la mia missione in Nigeria, rimarrà sempre incastonato nella mia anima. E’ stato difficile, per me, accettare che due donne giovanissime fossero disposte così serenamente al martirio. E sono sicura che non avrei compreso il vero senso di quelle parole se non avessi avuto la grazia conoscere la figura di San Massimiliano Kolbe, a cui si ispirano i Francescani dell’Immacolata.
Nella vita, nella morte e nella spiritualità di padre Kolbe, c’era qualcosa che parlava a una ragazza di oggi, ma non riuscivo ad afferrarlo. Poi grazie all’esempio di quelle missionarie, poco più grandi di me, ho scoperto perché la sua testimonianza di martire, che sembra tanto lontana da noi, può essere imitata anche oggi.
Bisogna tornare all’8 gennaio del 1894, quando il futuro santo nacque a Zduska-Wola, cittadina a est della Polonia, e venne battezzato con il nome di Raimondo. I suoi genitori, Maria Dabrowska e Giulio Kolbe, due modesti tessitori, diedero vita a una famiglia basata sull’insegnamento evangelico e marcata da una spiritualità fortemente francescana. Dei loro cinque figli solo tre sopravvissero: Francesco, Raimondo e Giuseppe. Tutti, finiti gli studi, espressero il desiderio di entrare nel seminario francescano di Leopoli.
Fra Massimiliano aveva sempre manifestato la sua predilezione per l’Immacolata, apparsagli quando era ancora un bambino. In una confidenza alla madre, raccontò che un giorno, inginocchiato in chiesa, una donna bellissima gli si avvicinò tenendo in mano due corone, una bianca, simbolo della vita consacrata, e una rossa simbolo del martirio, porgendogliele in offerta, e lui le accettò entrambe.
Nel 1911, Raimondo emise i voti temporanei come francescano conventuale con il nome di Massimiliano. L’anno seguente, nell’ottobre del 1912, studiò a Roma insieme ai migliori membri della sua diocesi. Qui, con il permesso del suo rettore, iniziò a reclutare i membri di quella che sarebbe diventata la Milizia dell’Immacolata: univa così la devozione mariana alla passione per la battaglia in nome di Cristo. Lo scopo principale della Milizia consisteva nel procurare la conversione dei peccatori, degli eretici, degli atei, in particolar modo dei massoni, oltre che la santificazione di tutti i membri.
Il 3 gennaio 1920 ebbe luogo la prima seduta dei sacerdoti francescani di Polonia appartenenti alla M.I. Poco dopo, per tenere in contatto gli aderenti, che andavano aumentando di numero, padre Kolbe fondò “Il Cavaliere dell’Immacolata”, un periodico finanziato dal sostegno provvidenziale di benefattori. Per avere la possibilità di utilizzare una propria macchina tipografica, padre Massimiliano venne trasferito a Grodno, in Polonia. Quando la sede del convento si fece troppo piccola il frate cercò un terreno esterno al convento per costruire un edificio sufficientemente ampio da ospitare la tipografia: nacque Niepokalanow (Città dell’Immacolata). Fu ideata come un insieme di baracche rudimentali, appena sufficienti a dare riparo a quelli che le abitavano. Massimiliano si appellava al senso più profondo della povertà francescana: per la Causa nessuna avarizia, per i frati nessun lusso e nessuna comodità.
Dopo qualche tempo trascorso a Niepokalanow, padre Kolbe, che nel 1928 era stato ordinato sacerdote, decise di fondare una missione in Giappone. Così, presso Nagasaki, nel 1931 venne fondata la versione Giapponese di Niepokalanow, chiamata Mugenzai no Sono. Quando il padre, cinque anni dopo, lasciò definitivamente il Giappone, a Nagasaki c’era ormai un gruppo di confratelli capaci di far fruttificare l’eredità ricevuta. Tornato in Polonia, continuò nel suo lavoro di evangelizzazione attraverso i mezzi di comunicazione: il 1° dicembre 1938 iniziava le sue trasmissioni la Stazione Polacca 3 Radio Niepokalanow.
In seguito all’occupazione nazista, nella Città dell’Immacolata si rifugiarono migliaia di fuggiaschi. Dopo una prima deportazione nei campi di prigionia, tornato a Niepokalanow, padre Massimiliano venne di nuovo arrestato dalla Gestapo 17 febbraio 1941 e, il 28 maggio, venne imprigionato ad Auschwitz.
I suoi carcerieri non sapevano che, in quell’inferno, avevano portato un santo capace di trasmettere il senso della vita soprannaturale in chi rischiava di perdere anche l’umanità. Basta scorrere solo alcune testimonianze dei compagni di prigionia:
“Fu uno shock enorme per tutto il campo, ci rendemmo conto che qualcuno tra di noi, in quella oscura notte spirituale dell’anima, aveva innalzato la misura dell’amore fino alla vetta più alta. Uno sconosciuto, uno come tutti, torturato e privato del nome e della condizione sociale, si era prestato a una morte orribile per salvare qualcuno che non era neanche suo parente. Migliaia di prigionieri si convinsero che il mondo continuava a esistere e che i nostri torturatori non potevano distruggerlo. Più di un individuo cominciò a cercare questa verità dentro di sé, a trovarla e a condividerla con gli altri compagni del campo”. (Giorgio Bielecki)
“Ci spronava a perseverare coraggiosamente. (…) Ci faceva vedere che le nostre anime non erano morte, che la nostra dignità di cattolici e di polacchi non era distrutta. Sollevati nello spirito, tornavamo nei nostri Blocchi ripetendo le sue parole: ‘Non dobbiamo abbatterci, noi sopravvivremo sicuramente, loro non uccideranno lo spirito che è in noi”. (Miecislao Koscielniak)
“Dopo averlo ascoltato, sentivo che non avevo più paura di morire, una cosa che mi aveva sempre angosciato… Nel campo di concentramento noi eravamo distrutti a causa delle sofferenze inumane e privati della fede, ma lui non solo accettava tutto come dono di Dio, ma lo ringraziava e lo amava ancora di più”. (Ladislao Lewkowicz)
Alla fine del mese di luglio del 1941, padre Kolbe venne trasferito al Blocco 14 e impiegato nei lavori di mietitura. La fuga di uno dei prigionieri causò una rappresaglia da parte dei nazisti, che selezionarono dieci persone della stessa baracca per farle morire nel cosiddetto bunker della fame. Tra questi, vi era anche Francesco Gajowniczek, il quale scoppiò in lacrime dicendo di avere una famiglia a casa che lo aspettava. Fu a questo punto che, un prete cattolico ormai ridotto allo scheletro, si offrì di morire al suo posto.
“Lei chi è?” chiese la guardia
“Un prete cattolico.”
“Al posto di chi vuole andare?”
“Al posto di quello là.” E padre Massimiliano indicò il prigioniero che qualche istante prima era scoppiato in lacrime.
“Perché?”
“Io sono vecchio e solo, lui invece è giovane e ha famiglia.”
La guardia fece segno di assenso e si allontanò.
I carcerieri condussero i condannati nella cantina del Blocco numero 11. Ordinarono loro di denudarsi. Da quel momento non avrebbero più ricevuto niente da bere e da mangiare, ma ogni giorno avrebbero dovuto fare la ginnastica mattutina, sorvegliati da uno dei carcerieri.
Ora per padre Kolbe non si trattava più di risparmiare la vita di uno dei detenuti, ma di aiutare gli altri nove a morire. Confessò tutti e, da quel momento, diede tutto se stesso per risollevare lo spirito dei compagni, per accompagnarli ad una morte serena.
Scrisse più tardi Bruno Borgowiec, una SS che fu testimone del martirio:
“Si può dire che la presenza di Padre Massimiliano nel bunker fu necessaria per gli altri… Stavano impazzendo al pensiero che non sarebbero più tornati alle loro famiglie, alle loro case e gridavano per la disperazione. Egli riuscì a rendere loro la pace ed essi iniziarono a rassegnarsi. Con il dono della consolazione che egli offrì loro, prolungò le vite dei condannati, di solito così psicologicamente distrutti che morivano in pochi giorni… Le porte della cella erano di quercia, e grazie al silenzio e all’acustica, la voce di Kolbe in preghiera si estendeva anche alle altre celle, dove i prigionieri potevano udirla bene… Da allora in poi, ogni giorno, dalla cella dove si trovavano queste povere anime e alle quali si univano le altre voci, si poteva udire la recita delle preghiere, il Rosario, gli inni. Padre Massimiliano li guidava e gli altri rispondevano in coro. Poiché queste preghiere e gli inni risuonavano in ogni parte del bunker, avevo l’impressione di essere in una chiesa. (…)
Il 14 agosto, erano già passate due settimane. I prigionieri morivano uno dopo l’altro e ne rimanevano solo quattro, tra i quali padre Massimiliano, ancora in stato di conoscenza… Fu inviato il criminale tedesco Bock per fare un’iniezione di acido fenico ai prigionieri… Quando arrivò là, lo dovetti accompagnare alla cella. Vidi padre Massimiliano, in preghiera, porgere lui stesso il braccio al suo assassino. Non potevo sopportarlo. Con la scusa che avevo del lavoro da fare, me ne andai. Ma non appena gli uomini delle SS e il boia se ne furono andati, tornai. Gli altri corpi, nudi e sporchi, erano stesi sul pavimento, con i volti che mostravano i segni della sofferenza. Padre Massimiliano era seduto, eretto, appoggiato al muro. Il suo corpo non era sporco come gli altri, ma pulito e luminoso. La testa era piegata leggermente da una parte. Il suo volto era puro e sereno, raggiante. Chiunque avrebbe notato e pensato che questi fosse un santo”
La santità di padre Kolbe non consiste tanto nel sacrificio della propria vita, ma nell’imitazione della Madre di Dio. Solo quando si è disposti a dare tutto per lei, e quindi per suo Figlio, il sacrificio di sé diventa l’estremo atto d’amore che santifica. Senza questa sacra radice, qualsiasi sacrificio sarebbe vano, un tentativo inutile di glorificare la propria vita. Con il suo gesto, San Massimiliano ha portato a compimento una vita offerta tutta per la gloria di Dio. Per questo il suo dolore fisico e morale è divenuto balsamo per tante anime.
E per questo la sua santità è sempre attuale, a cominciare dal coraggio e dalla coerenza con cui ha testimoniato la sua fede. La perseveranza di questo frate nel mostrare il suo sacerdozio ha dato l’unica possibile lettura cristiana del suo sacrificio e perciò ha condotto tante anima sulla via della Verità.
Questo atto di amore e coraggio infinito, che si chiama Carità, è quanto mai necessario nel mondo d’oggi. I giovani degli Anni Duemila, lontani dal conoscere gli stermini della guerra, sono comunque esposti a un nuovo tipo di violenza, che serpeggia tra i media, l’istruzione, i divertimenti e vorrebbe diluire la loro Fede fino a perderla. Seguendo le tracce di padre Kolbe, possono trovare una via e il sostegno per affrontare il male senza acquiescenza e sottomissione.
San Massimiliano non ha liberato la Polonia dal Nazismo, non ha salvato tutti i deportati del campo di concentramento, ha semplicemente offerto la propria vita in cambio di quella di un solo uomo. Un gesto quasi inutile, visto con occhio umano. Ma, se solleviamo un po’ lo sguardo, ci accorgiamo che, come scrive Tolkien “Sono le piccole azioni della gente comune (…) che tengono a bada l’oscurità”.
Padre Kolbe ha mostrato a tutti e per sempre che, anche ad Auschwitz, Dio continuava a parlare. Ha costretto tutti a sentirne la voce. La stessa che odono quelle suore disposte a morire per le anime di una terra che forse non conoscono neanche tanto bene, ma che amano per amore di Dio.
Chiara Gnocchi (RISCOSSACRISTIANA.it)