«Senza la verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente». Benedetto XVI, 9 giugno 2012
L’annuncio della rinuncia di Sua Santità Papa Benedetto XVI al Trono di Pietro ci ha lasciati sgomenti e fortemente sbigottiti. Abbiamo voluto riflettere prima di scrivere un commento, vincendo delle remore che immediatamente abbiamo sentito fortissime dentro di noi.
La prima remora veniva dal fatto, praticamente ridicolo in sé, che dei comuni fedeli come noi potessero giudicare l’atto di un uomo che ha l’età di un padre e che ha vissuto tutta la sua vita al servizio della Chiesa, nella Chiesa e soprattutto da 30 anni in Vaticano, prima da “numero 2”, poi da numero uno della Chiesa stessa; la seconda era più di ordine umano: giudicare il proprio padre nella fede, il Vicario di Cristo in terra, ripugna istintivamente, così come istintivamente al contrario viene invece naturale difendere il papa, soprattutto questo papa, di tale caratura umana, culturale e spirituale.
In queste ore ovunque tantissime persone buone subito istintivamente difendono e giustificano il gesto del papa: ciò è cosa ottima in sé, in quanto denota amore sincero e immediato per la Chiesa e per Benedetto XVI.
Ovunque giornalisti e intellettuali cattolici, fondatori di movimenti, prelati e teologi difendono ed esaltano anche la decisione delle dimissioni, con argomentazioni varie ma simili nella sostanza: “lascia per vecchiaia”; “lascia per umiltà”; “lascia per far posto a un successore più giovane e più energico”; “lascia perché troppo stanco di tutto il marcio che ha intorno”; ecc.
Per questo è molto ma molto difficile e scomodo scrivere il proprio pensiero su quanto appena avvenuto: si va contro tutti (ma proprio tutti), compresi gli amici, e anche contro se stessi: si diventa una voce fuori dal coro, e il coro non è questa volta “il mondo” (a ciò siamo abituati), ma il mondo in cui tu vivi, nel quale ti riconosci, per il quale combatti e preghi ogni giorno.
Eppure… la vita è una cosa seria, e in questa vita la cosa più seria è la Chiesa Cattolica. Occorre quindi esseri seri, intelligenti, razionali e profondamente onesti e sinceri, quando si parla della Chiesa, e specialmente quando si parla del suo capo. Da figli della Chiesa, che amiamo con tutto il nostro animo, soffriamo con essa e con essa viviamo gli accadimenti di ogni giorno e della sua storia intera.
Ed è necessario a volte parlarne, e con distacco anche, facendo un supremo sforzo, specie quando, in casi come questo, è in gioco il significato stesso della Chiesa e il suo futuro nella storia degli uomini.
Occorre che tutti (i buoni e coloro che amano Benedetto XVI in primis) abbiamo presente bene in mente che l’11 febbraio 2013 è accaduto un fatto di importanza capitale nella storia di tutta la Chiesa Cattolica, che avrà conseguenze storiche molto importanti. Per questo occorre giudicare senz’altro anche con il cuore, anche con l’amore di figli della Chiesa, ma non senza la ragione.
Precisiamo solo che quanto ora scriviamo concerne solo ed esclusivamente l’atto delle dimissioni, e non vuole assolutamente essere in alcun modo un giudizio sul pontificato in sé, sugli 8 anni passati. Per questo, occorre molto più tempo.
E premettiamo che non abbiamo il benché minimo dubbio sulla totale sincerità delle parole del Santo Padre riguardo la causa immediata della sua drammatica scelta, ovvero la consapevolezza che la propria stanchezza – fisica anzitutto – lo renda inadeguato a proseguire il proprio compito e che tale decisione sia stata presa per puro e sincero amore per la Chiesa, che egli ha servito per tutta la vita (e che, come ha già annunciato, continuerà a servire con la preghiera fino alla fine dei suoi giorni).
Ed è altrettanto plausibile che con questo atto il Papa abbia voluto anche far capire quanto sia drammaticamente grave la situazione attuale del clero e quanto la Chiesa sia ingovernabile, ciò che ancor più lo rende inadeguato a un compito che lui giudica superiore alle sue forze.
Detto questo e precisato i confini esatti del nostro ragionamento, avanziamo qualche riflessione e poniamo qualche dubbio.
Benedetto XVI non ha commesso affatto una cosa illecita in sé rinunciando al Trono di Pietro. La rinuncia è prevista dal diritto canonico. Quindi è – per dirla in termini odierni – un suo “diritto”.
Al di là però delle conseguenze che tale rinuncia comporterà spiritualmente e storicamente nella Chiesa e nella Cristianità tutta (e nel mondo intero in qualche modo) e che oggi non sono naturalmente pienamente immaginabili, la domanda prima che viene da porsi è se un qualsiasi pontefice abbia realmente – intendiamo dire di fatto, storicamente, concretamente – il diritto di dimettersi dall’“essere Pietro”:
«Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam». Il Romano Pontefice non è un impiegato statale, e nemmeno un manager d’azienda. È un Capo di Stato, certo, ma questa è la meno importante delle sue prerogative (e in tal senso le dimissioni non creano alcun problema di principio). Il Romano Pontefice, oltre a essere sacerdos in aeternum e Vescovo di Roma, è anzitutto Vicario di Cristo-Dio, successore di San Pietro, Principe degli Apostoli, “pontifex”, ossia ponte fra Dio e l’uomo, e come la Chiesa ha sempre insegnato, “Ubi Petrus, ibi Ecclesiam”: Pietro e la Chiesa non possono essere separati, non vi è Chiesa senza Pietro, al punto che dove è Pietro lì è la Chiesa.
Non esiste nessun altro Capo di Stato al mondo, né tanto meno leader spirituale o politico, manager e cos’altro si voglia, che abbia tali prerogative. Il ruolo del papa è unico nella storia dell’umanità: egli è il Vicario di Dio in terra.
Certo, lo ripetiamo, ciò non impedisce normativamente che un papa si possa dimettere: è possibile. Ma chi mai si è dimesso dall’“essere Pietro” nella storia della Chiesa? È possibile, certo, ma perché farlo? Come mai su 264 papi precedenti solo uno si era volontariamente dimesso? E questo uno, san Celestino V, si dimise perché in realtà era stato forzato controvoglia ad abbandonare il suo eremo in montagna, nel quale aveva vissuto in penitenza e solitudine per 60 anni, per venire a Roma e divenire pontefice; e infatti, appena gli fu proposto di abdicare, egli fuggì via, tornando nel suo piccolo eremo.
Anche il caso di Gregorio XII non fa testo: egli si dimise al Concilio di Costanza, insieme ai due antipapi, per porre fine alla tragedia del Grande Scisma d’Occidente. Gli fu chiesto da tutta la Chiesa, ed egli accettò per un fine superiore. E anche il caso di Benedetto IX nell’XI secolo non fa testo, in quanto vittima e artefice di oscure trame, ricatti, forzature violente, nel gioco delle famiglie romane.
Ma Benedetto XVI non è un eremita che è stato forzato con la violenza e ha accettato controvoglia di assurgere al Trono di Pietro; egli è il più importante teologo del nostro tempo e ha speso tutta la sua vita al servizio attivo della Chiesa, anzitutto in Vaticano; né alcuno ha chiesto pubblicamente a Benedetto XVI di dimettersi; né è vittima di oscure trame di famiglie romane. È evidente che questo caso è differente, unico nel suo genere.
Perché farlo allora? Perché dimettersi dall’“essere Pietro”? Santa Caterina da Siena chiamava il papa “Dolce Cristo in terra”: ci si può dimettere dall’essere un “dolce Cristo”? Perché assumersi l’immane responsabilità di essere il primo pontefice della storia della Chiesa che, senza alcuna ragione esterna, in piena consapevolezza, adducendo come motivazione del gesto la stanchezza personale, viene meno anzitempo (e cioè prima della morte naturale) al proprio ruolo di “essere Pietro”?
Dinanzi a tale sconvolgente decisione, che oggi sul Corriere della Sera Ferruccio de Bertoli ha definito “rivoluzionaria”, la prima nella storia bimillenaria della Chiesa, almeno nei termini suddetti, viene naturale porsi alcune domande fondamentali:
- Cosa accadrà ora del cardinale Joseph Ratzinger? Per la prima volta nella storia (eccetto i due casi sopra indicati), un papa, ormai ex, vedrà il suo successore: quale sarà allora il suo ruolo durante il conclave? E dopo l’elezione? Scriverà ancora? E che valore avranno i suoi scritti? Non farà “concorrenza” al nuovo Pontefice? In un concetto, quale sarà il suo ruolo? In ogni caso, sarà un ruolo da inventare, da vivere per la prima volta.
- Questa decisione non rischia di diminuire la portata – oggi già così gravemente sotto attacco del mondo progressista – del Primatus Petri?
- Tale decisione non rischia di contribuire a far decadere il ruolo supremo di Vicario di Dio in terra al livello di un leader politico o manageriale (già giornalisti e laici vari stanno dicendo questo con gioia immensa in queste ore)? La Chiesa stessa non ne uscirà ancor più ferita di quanto sia oggi?
- Se diverrà normale la prassi delle dimissioni pontificie, non si arriverà prima o poi a stabilire che l’“incarico” di papa sia automaticamente a scadenza naturale, sul tipo di quelli di presidente di Repubblica? E se ciò avviene, non sembrerà la Chiesa divenire sempre più un’associazione del tutto umana, con regole umane, e con cariche amministrative che rispondono alle logiche democratiche e funzionali odierne?
- Che fine farà allora il “pontifex”, il ponte con Dio? E che fine farà allora l’“essere Pietro”? Cosa diverrà un papa?
- E magari ciò non contribuirà a dar man forte alle forze interne sovversive, che vogliono cancellare il Primato di Pietro come lo ha voluto Nostro Signore per creare una nuova “chiesa” elettiva, democratica, popolare, come una sorta di Repubblica?
Ma ci sono riflessioni ancora più amare da fare.
- Quando un papa nomina dei cardinali, ricorda loro che il colore porpora è signum della disposizione a servire la Chiesa fino alla morte, e fino al sangue se necessario.
- Giovanni Paolo II più volte fece intendere di volersi dimettere. Ma poi ha proseguito ad essere Pietro fino alla consumazione di sé, come tutti abbiamo potuto vedere. “Essere Pietro” vuol dire essere stati sì eletti da un conclave fatto di uomini, ma anzitutto essere stati scelti al ruolo di Vicario di Dio in terra da Dio stesso, come ovvio, nella presenza dell’ispirazione dello Spirito Santo: Giovanni Paolo II, e con lui tutti i papi precedenti, proprio in nome di tale elezione divina e umana, non si sono mai permessi di “licenziarsi” dall’“essere Pietro”. Molti sono stati uccisi, mutilati, deportati, perseguitati. Ma mai nessuno si è dimesso dall’“essere Pietro”.
- Una studentessa dell’università, amareggiata, ci ha fatto questa riflessione: “chi glielo dice adesso a tutti i cattolici che in ogni parte del mondo vengono massacrati e perseguitati in nome della loro fede che il papa, che per giunta ha appena proclamato l’anno della fede, si è dimesso?”. Può sembrare un ragionamento forzato, forse perfino “squallido”. Ma è forse falso in sé? Non potrebbe un cristiano in India, Pakistan o Cina, fare questo ragionamento?: “Se il papa si dimette perché stanco, allora perché non posso stancarmi io di rischiare di finire bruciato vivo o vedere mia figlia squartata in nome della fede che quel papa rappresenta?”. La stanchezza è una categoria pericolosa, specie per colui a cui è stato affidato il mandato di “pascere le Sue pecore”.
Molto altro vi sarebbe da dire. Ci limitiamo però alla più palese – e quindi veritiera – delle considerazioni.
Non si può non ammettere che appaia più che legittimo temere che quanto avvenuto possa tradursi in un trionfo per tutte le forze progressiste, antiromane e filolaiciste interne alla Chiesa stessa. Vedremo nei prossimi giorni decine e decine di articoli, forse libri, dove progressisti, modernisti, laicisti, anticattolici e mangiapreti esalteranno tale storica decisione, parlando di “Chiesa che si apre al nuovo”, di “fine del Primato di Pietro”, di “modernizzazione” e “democratizzazione”. Così stava già facendo il solito Cacciari a Porta a Porta ieri sera.
E allora, se così sarà, come giudicare tale decisione?
Se potessimo rivolgerci, filialmente, al Santo Padre, gli diremmo (e proprio perché gli vogliamo bene come Vicario di Cristo in terra): “Santità, perché ci abbandonate? Perché ora? Perché le vostre pecore vi hanno stancato? Ci si può stancare di ‘Essere Pietro’? Certo, ora verrà un altro Pietro e la Chiesa continua. Ma Voi, Santità, eravate Pietro per noi. Voi volevamo. Voi amavamo”.
Il card. Ratzinger sarà il primo ex-Pietro della storia per sua liberissima e totalmente autonoma decisione. Da oggi in poi si potrà dover dire: “dimesso un papa, se ne fa un altro”…
Forse quanto di più rivoluzionario mai accaduto nell’intera storia della Chiesa. In fondo, lo stesso generale sconcerto collettivo che tutti ha coinvolto, a partire da chi sinceramente ama questo papa, è dimostrazione ineludibile della gravità dell’atto.
A noi, pecore smarrite, non resta che pregare, nell’incrollabile speranza e certezza che lo Spirito Santo non abbandona né il gregge né la Chiesa.
Anche questa doveva capitare.
È interessante che sia capitata in un giorno speciale nella storia della Chiesa: l’11 febbraio. Che Nostro Signora di Lourdes ci salvi e ci aiuti tutti. A partire dal nuovo papa, Vicario di Dio in terra, successore di Pietro, Pastore del gregge di Dio. Al quale già auguriamo con tutto il cuore un santo e lungo pontificato, ricco di grazie e di bene; e una morte da Papa.
Massimo Viglione e Corrado Gnerre
(Fonte: ILGIUDIZIOCATTOLICO.com)