Mancare di infinità è limitatezza, ristrettezza disperata. Qui si parla, naturalmente, di ristrettezza e limitatezza soltanto nel senso etico. Nel mondo si parla, in fondo, soltanto di limitatezza intellettuale o estetica o di cose senza importanza, di cui nel mondo si parla sempre più di tutto; perché mondanità vuol dire proprio attribuire alle cose senza importanza un valore infinito. […]
La ristrettezza disperata è mancanza di originalità, essersi, in un senso spirituale, evirato. Infatti, ogni uomo ha l’indole primitiva di essere un io, è determinati a diventare se stesso; certamente ogni io come tale è come una pietra angolosa, ma da ciò si può trarre soltanto la conseguenza che bisogna sfaccettarlo, non lisciarlo; non ne consegue che l’io debba, per paura degli uomini, rinunciare completamente a essere se stesso e neppure, soltanto per paura degli uomini, non osare di essere se stesso nella sua esistenza essenziale (è proprio quella che non deve essere lisciata), nella quale uno è se stesso per se stesso.
Mente una specie di disperazione si smarrisce nell’infinito e perde se stessa, un’altra si lascia quasi carpire il suo io dagli altri.
Vedendo intorno a sé la folla degli uomini, affaccendandosi con ogni sorta di affari mondani, imparando come vanno le cose del mondo, un tale uomo dimentica se stesso, dimentica cosa egli è in un senso divino, non osa più credere in se stesso, trova che sia troppo rischioso essere se stesso, è molto più facile e più sicuro essere come gli altri, diventare una scimmiottata, un numero fra gli altri nella folla.
Di questa forma di disperazione nel mondo non ci si accorge quasi per niente. Un tale uomo, proprio per avere perduto così se stesso, ha acquistato la capacità perfetta di andare avanti in tutti gli affari, anzi di far fortuna nel mondo. Egli non trova alcun ostacolo, alcuna difficoltà che derivi dal suo io e dalla sua tendenza verso l’infinito; egli è lisciato come un ciottolo.
Tutti sono così lontani dal ritenerlo disperato che egli è proprio un uomo come dev’essere. Il mondo, com’è naturale, non comprende per niente che cosa sia in verità il terribile. La disperazione che non solo non vuole disturbi nella vita, ma rende alla gente la vita comoda e piacevole, naturalmente non si ritiene in nessun modo disperazione. [...]
Così, agli occhi del mondo, è pericoloso arrischiarsi; e perché? Perché così si può perdere. Ma non arrischiarsi, questo è prudente. Eppure proprio non arrischiandosi uno può perdere con facilità tanto terribile ciò che, per quanto avesse perduto con l’arrischiarsi, difficilmente avrebbe perso; e in ogni caso mai in questo modo, mai così facilmente, proprio come se nulla fosse: se stesso. Perché se ho sbagliato nell’arrischiarmi, ebbene, la vita mi aiuta con la pena. Ma se non mi sono arrischiato affatto, chi mi aiuterà? E se o per soprammercato, non arrischiandomi affatto nel senso più alto (e arrischiandosi nel senso più alto è proprio accorgersi di se stesso) conquisto vigliaccamente tutti i vantaggi terreni e perdo me stesso?
E questo è proprio il caso della disperazione del finito. Un uomo, se è disperato in questo modo, può per questo benissimo, in fondo, anzi tanto meglio, passare la sua vita nella temporalità., essere secondo l’apparenza un uomo, essere elogiato dagli altri, onorato e stimato, occuparsi di tutti gli scopi temporali. Ciò che si chiama il mondo consiste tutto di tali uomini, i quali per così dire vendono la loro anima al mondo.
Essi adoperano le loro facoltà, raccolgono denari, esercitano attività mondane, fanno calcoli prudenti e via dicendo, sono forse nominati nella storia, ma se stessi non sono, non hanno, in senso spirituale, nessun io per amor del quale possano arrischiare tutto, nessun io davanti a Dio, per quanto essi per il resto siano egoisti.
Soren Kierkegaard
(Fonte: dal libro SAPER SCEGLIERE - Mondadori)