Per un non cattolico, «Famiglia cristiana» è, semplicemente, il settimanale dei cattolici; vale a dire, che, se è un seguace della cultura laicista dominante, egli lo considera con un misto di indifferenza e di disprezzo, come un rimasuglio di mentalità clericale che finirà per scomparire.
Un non cattolico non coglie le sfumature, non percepisce le differenze che vi sono all’interno del mondo cattolico; o, se le percepisce, ciò avviene all’interno dei suoi parametri culturali, dei suoi riflessi condizionati, dei suoi pregiudizi laici e progressisti.
Per esempio, sa che ci sono i cattolici “buoni” e quelli “cattivi”: di sinistra i primi, di destra i secondi.
Che le categorie della destra e della sinistra non siano applicabili al di fuori della sfera politica, e che meno ancora possano essere adoperate come discriminanti per catalogare in buoni e cattivi i seguaci di una fede religiosa, non gli passa neanche per l’anticamera del cervello. Dunque, per lui sono “buoni” quei cattolici, quei preti, quei vescovi che frequentano, per esempio, i salotti televisivi di Rai Tre, ospiti fissi di conduttori faziosi e intellettualmente disonesti, i quali vogliono sentirsi dire solo quel che piace al loro pubblico abituale e non possiedono nemmeno la forma mentis necessaria a porsi in un atteggiamento di autentico ascolto verso una cultura diversa dalla loro.
Gli altri, i “cattivi”, o non vengono invitati, e dunque non godono di alcuna visibilità nell’ambito della cultura laica, oppure vengono esibiti, di tanto in tanto, come delle teste di turco sulle quali scaricare, senza nemmeno ascoltarli e senza minimamente prendere in considerazione i loro argomenti, tutto l’astio e il livore che il laicismo militante nutre nei confronti del fatto religioso in generale, e del cattolicesimo in maniera particolare.
Le opinioni e i punti di vista sostenuti, ormai da parecchi anni, dal settimanale «Famiglia cristiana», corrispondono in pieno al cliché laicista del cattolico “buono”, in quanto perfettamente compatibile, appunto, con quel cliché medesimo: aperto e dialogante con tutti gli “ismi” della cultura di sinistra, dal progressismo al multiculturalismo, dal femminismo al buonismo a senso unico; non però altrettanto tollerante, né altrettanto caritatevole, con un’unica categoria di persone: i suoi confratelli che non condividono tali posizioni e che intendono il fatto religioso in maniera più fedele alla tradizione. Solo verso costoro, “rei” di avere mal digerito il Concilio Vaticano II – che, a suo dire, ha riscosso beneficamente la Chiesa, dopo secoli d’immobilismo e di bieco conservatorismo – non è disponibili al dialogo, ma ostenta un malcelato disprezzo.
Il cattolico “buono”, insomma, quello che piace a Corrado Augias e magari a Paolo Flores d’Arcais, stravede per il relativismo religioso camuffato da ecumenismo; è pronto ad abbracciare anche i fondamentalisti musulmani, in nome dell’”amore” senza confini, ma a volgere la testa dall’altra parte per non vedere le persecuzioni di cui sono vittime i copti e altre minoranze cristiane in molte parti del mondo; non la finisce più di chiedere scusa ai giudei e di sentirsi indegno a causa delle nefandezze compiute ai loro danni dai cristiani, magari otto o dieci secoli fa; ma non ha alcuna comprensione, alcun rispetto, alcuna carità, verso quei cristiani che egli definisce, sprezzantemente, “conservatori”, i quali, a suo giudizio, frappongono mille ostacoli al cammino trionfale del post-concilio e cercano in ogni modo di frenare il processo di modernizzazione e liberalizzazione della Chiesa.
Basta vedere – un esempio fra mille – il putiferio che quel “buon” cattolico ha sollevato allorché Benedetto XVI volle riammettere in seno alla Chiesa alcuni vescovi lefebvriani: ma come, “perdonare” a dei simili mostri! Per quelli no, nessuna pietà, nessuna umana considerazione; per tutti gli altri, sì: anche per quelli che insultano il cristianesimo, che vorrebbero ridicolizzarlo, che vorrebbero distruggerlo, che vorrebbero farne sparire ogni traccia.
Stiamo esagerando? Vediamo; e prendiamo un numero qualsiasi di «Famiglia cristiana», un numero ormai vecchio, che ci è capitato fra le mani del tutto a caso (quello del 13 gennaio 2013).
Si comincia con la posta del direttore, don Antonio Sciortino (nella foto, in giacca e cravata - ndr); la prima lettera, firmata da una suora, offre anche lo spunto per il titolo: «Iniziativa grave e triste che offende la dignità delle donne».
È una severa rampogna, o piuttosto una dura requisitoria, categorica e inappellabile, nei confronti di quel prete di Lerici che, davanti al fenomeno del cosiddetto “femminicidio”, aveva invitato le donne a fare una sana autocritica e a provocare sessualmente un po’ meno i maschi. Sfruttando la rozzezza della comunicazione di quel prete, e tralasciando la sostanza dell’idea da lui espressa, tutt’altro che irragionevole o campata per aria, l’autrice della lettera fa polpette del malcapitato prete “reazionario” e brucia l’incenso di rito sull’altare del femminismo trionfante, evidentemente scambiando la difesa della dignità della donna per la difesa d’ufficio, atto dovuto e irrinunciabile, di qualsiasi suo comportamento, fosse anche il più discutibile e sbagliato.
Un buon esempio di monoculismo intellettuale: il vedere le cose con un occhio solo, il giudicarle da un unico punto di vista, senza sfumature e senza mai un’ombra di autocritica: l’autoreferenzialità più sfrenata e narcisista, il cantare da se stessi le proprie lodi. E anche un buon esempio di mancanza di carità, di dialogo, di ascolto: complimenti a quella suora.
Seguono altre lettere, anche di segno diverso, ma relegate da quel titolone in una posizione di marginalità, tanto per far capire da che parte sta il buon direttore: dà spazio a tutti, ma non nasconde certo le sue preferenze. Alcune sono francamente incomprensibili, come quella in cui una lettrice afferma che «dovremmo chiedere scusa» alla defunta Rita Levi Montalcini, ma non si capisce bene per che cosa: sembra, di non aver sottolineato abbastanza la sua bellezza interiore, mostrandone invece le rughe e il corpo non più giovane. Come se una tale capacità di “vedere oltre” spettasse ai fotografi o ai giornalisti e non fosse cosa intima di ciascuno. Si parla anche dei «grandi messaggi» della scienziata, senza specificare quali sarebbero: dandoli semplicemente per scontati, come la cultura dominante vuole.
Viene poi la rubrica delle opinioni, a cura di Antonio Sanfrancesco, che spezza una lancia a favore dell’abolizione del “signorina”, sulla scia di quanto deciso in Francia per impulso del governo Hollande, in quanto si tratterebbe di un termine sessista e discriminatorio, un ostacolo da rimuovere sulla via per realizzare le pari opportunità. Il tutto con l’avallo e l’autorevole parere “tecnico” della solita psichiatra e psicoterapeuta femminista di turno, e con la conferma di una giornalista e scrittrice che non manca di agganciare la questione con quella della violenza sulle donne. Si vede che chiamare “signorina” una donna giovane contribuisce a creare le condizioni sociologiche favorevoli per lo stupro e, forse, l’uccisione di altre donne innocenti. I maschi non lo sanno e non se ne rendono conto, ma dovrebbero sentirsi in colpa: il loro modo di parlare non esprime cavalleria, ma sessismo travestito, e apre la strada nientemeno che al femminicidio.
Subito dopo c’è la pagina dei «Sentimenti» (di Rosario Carello), occupata per due terzi dalla foto di un gommone d’immigrati clandestini, in mezzo ai quali un giovane marocchino esulta, allargando le braccia e aprendo il volto a un sorriso d’infinta soddisfazione: la precaria imbarcazione è stata soccorsa al largo di Gibilterra, ormai è fatta, tra poco ci sarà lo sbarco sul suolo europeo. Il curatore della rubrica fa una sviolinata in piena regola, scomodando alte immagini poetiche, per celebrare il fatto che, agli occhi di Dio, non esistono clandestini. Un concetto che anticipa quello del ministro per l’Integrazione, Kyenge, allora non divenuto ancora tale: che la terra è di tutti e, dunque, non ci sono più clandestini, ma solo migranti che hanno ogni diritto di sbarcare dove vogliono, in quanti vogliono e come vogliono. Alle nazioni in cui approdano resta, a loro volta, un solo dovere: quello di accoglierli illimitatamente e di soccorrerli, in caso di difficoltà, a costo della vita (cosa che avviene ogni giorno, silenziosamente e lontano dai clamori mediatici), perché, se non ci riescono, e una carretta del mare affonda con il suo carico di disperati, le nazioni d’Europa, e l’Italia in prima fila, devono sentirsi in colpa, in quanto nazioni egoiste o poco generose.
Questo concetto è ribadito da un articolo, poche pagine più avanti, del direttore della Fondazione Migrantes, Giacomo Perego, il quale sostiene (parole testuali del titolo) che «La “risorsa” migrante è un valore aggiunto»; articolo che incomincia, doverosamente, con un riferimento al Concilio Vaticano II, nel quale (ancora testualmente) «la chiesa si è riscoperta in cammino». Come dire: siamo tutti in cammino, siamo tutti migranti: dunque, aboliamo le frontiere e lasciamo spostare a loro piacere decine di milioni di persone, senza neanche domandare il parere dei popoli che dovrebbero accoglierle. Se ne deduce inoltre che la Chiesa cattolica, prima del Vaticano II, non era in cammino, o almeno non sapeva di esserlo: ma adesso, per fortuna, tutto è cambiato e tutto va bene, la Chiesa si è messa in marcia verso le magnifiche sorti e progressive.
Seguono alcuni articoli di varia attualità, nel complesso abbastanza interessanti e, comunque, meno faziosi e meno “impostati” delle rubriche che aprono la rivista e le danno il “la” in senso ideologico. Si parla del governo Monti, sembra un secolo fa; e, del resto, tutte le opinioni sono legittime.
Circa a metà giornale, una grande réclame (a due pagine intere) di una collana di libri curata da Enzo Bianchi, presentato, oltre che da una maxi fotografia, dalla solita qualifica: “priore di Bose”. Può darsi che molti cattolici, per non parlare dei non cattolici, non sappiano di che cosa si tratta: allora sarebbe buona cosa specificare, per loro informazione, che Enzo Bianchi, anche se si veste più o meno come un prete cattolico, non è affatto un sacerdote, ma un laico; e che la comunità monastica di Bose è formata da monaci di entrambi i sessi e di diverse confessioni, cattolici, protestanti, ortodossi, in nome di un “ecumenismo” che appiattisce ogni identità e, dunque, ogni distinzione, che è premessa indispensabile all’autentico dialogo interreligioso. Più avanti nel giornale, la rubrica fissa tenuta dallo stesso Enzo Bianchi, dedicata al catechismo (strano, lui che non è prete); in cui ci spiega, questa volta, in che cosa consiste la preghiera di lode.
Scrittore prolifico e pubblicato da numerose case editrici, tra cui la Einaudi, Enzo Bianchi è persona autorevolissima nella galassia dei “buoni” cattolici, ossia quelli di sinistra. Le sue idee sono un misto di razionalismo alla Bultmann, ad esempio per quanto riguarda la necessità di “demitizzare” le Scritture e riportarle dalla dimensione “poetica” a quella realistica, adatta agli uomini dei nostri tempi (cominciando con lo sfrondare i racconti sui miracoli) e di buonismo a senso unico, sostenendo, fra le altre cose, che «un Dio che castiga merita di essere negato».
Tradotto: ciascuno è padrone di fabbricarsi il Dio che più gli aggrada, ovviamente sempre disposto a perdonare; il che è un grosso travisamento di quanto afferma il Vangelo, nel quale il perdono infinito di Dio è sempre subordinato alla disponibilità al pentimento da parte dell’uomo (come si vede anche nella celebre parabola del figlio prodigo). Come si potrebbe, infatti, perdonare qualcuno che non vuole essere perdonato; che rifiuta non solo di chiedere, ma anche di ricevere il perdono; che rifiuta, anzi, la persona stessa di colui che lo potrebbe (e lo vorrebbe) perdonare? Un Dio che perdona anche chi rifiuta il suo perdono, è un Dio che compie violenza, nel senso che non rispetta la libertà dell’uomo: ma allora, che senso avrebbe la creazione e che senso avrebbe il dono più prezioso in essa contenuto, appunto la facoltà dell’uomo di scegliere liberamente? Ma queste sono considerazioni e contraddizioni, evidentemente, troppo sottili per i teologi alla Bianchi, ai quali importa solo suonare la grancassa della demagogia più sfrenata.
Nella pagina accanto, la rubrica di monsignor Gianfranco Ravasi, dedicata a «Le pietre d’inciampo del Vangelo». Ognuno ha le sue pietre d’inciampo: per Ravasi, è il famoso frammento del papiro di Qumran denominato “7Q5”, che egli, con una memorabile “gaffe”, definì scritto in lettere ebraiche, anziché greche (si veda il libro di Antonio Socci «La guerra contro Gesù»). Un papiro la cui datazione ha grosse implicazioni per la conferma del valore storico dei Vangeli: padre O’Callaghan lo data non oltre il 50 d.C., il che, se fosse vero, e se realmente si trattasse di un frammento del Vangelo di Marco, implicherebbe che venne scritto non più di vent’anni dopo la morte di Gesù. Ravasi è uno strenuo avversario di tale interpretazione e non si perita di definire «frenetiche e scomposte» certe ricerche sulla figura storica di Gesù. Anche lui, come Bultmann, ama leggere il Vangelo in forma “demitizzante”: si direbbe che il Gesù della storia gli faccia quasi paura.
Sono questi gli “esperti” che, dalle colonne del più diffuso giornale cattolico, tengono aggiornati i fedeli sulle questioni della loro fede.
A questo punto, ciascuno giudichi con la propria testa…
Francesco Lamendola (ariannaeditrice.it)
“Mamma, mamma, che cos’è una lesbica?”. La mamma di Pierino ha un attimo di smarrimento, vacilla, cerca di organizzare la risposta, ma per prima cosa chiede al suo bambino: “Dove hai sentito quella parola? Al telegiornale, a scuola o forse al campo sportivo?”. “No mamma: l’ho letta su Famiglia Cristiana”. Al che la povera genitrice corre in soggiorno a sfogliare la gloriosa rivista cattolica dal nome rassicurante. E qui la povera donna scopre, con sgomento, che Pierino dice la verità.
Perché nel numero 2 di Famiglia Cristiana di quest’anno, 13 gennaio, sulla terza di copertina campeggia una pagina di pubblicità ideata dal Dipartimento delle Pari opportunità e dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Una pubblicità nella quale si vedono le foto di tre sconosciuti, accompagnate dalla seguente didascalia: “alto”, sotto il primo personaggio; “lesbica” sotto la seconda; “rosso” sotto al terzo, che ha effettivamente i capelli rossi. Segue slogan perentorio: “E non c’è niente da dire”. Segue spiegazione per i più duri di comprendonio: “Sì alle differenze. No all’omofobia”.
A questo punto io capisco benissimo che i lettori si stropicceranno gli occhi, e si metteranno a rileggere questo articolo dall’inizio, pensando di avere avuto un’allucinazione. Ma purtroppo è tutto vero: se portate in casa vostra Famiglia Cristiana, preparatevi a dover spiegare al pupo che cos’è una lesbica o un gay, preparatevi a tenere seminari serali per chiarire il concetto di omofobia, preparatevi a insegnare con pugno di ferro a tutta la prole, e ovviamente anche al genitore numero due (l’uso di parole come moglie o marito potrebbero essere considerate sintomo di omofobia), che intorno a questo tipo di diversità “non c’è niente da dire”.
Ormai anche i più duri di comprendonio l’hanno capito: è partita la più colossale campagna mediatica, ideologica, politica e legislativa di tutti i tempi per trasformare a livello planetario ciò che è anormale in normale, ciò che non è naturale in naturale, ciò che non è fisiologico in fisiologico. Più o meno tutti sanno che la dottrina della Chiesa si oppone a questo disegno di pervertimento dell’ordine naturale. Più o meno tutti sanno che a un vescovo, quello di Trieste, è stato impedito di uscire di casa da un gruppetto di facinorosi semplicemente perché monsignor Crepaldi dice la verità intorno alla sessualità umana. Più o meno tutti sanno che queste sono le prime avvisaglie delle persecuzioni che i cattolici subiranno se non accettano supinamente di omologarsi al “pensiero gaio”.
Dunque fa un certo effetto scoprire che un giornale formalmente cattolico come Famiglia Cristiana, per altro dietro compenso economico, metta in pagina una pubblicità che riassume proprio la “visione del mondo” dell’ideologia omosessualista. Un’ideologia che per altro ha ben poco a che fare con le persone in carne e ossa che vivono questa condizione. Un’ideologia che persegue un obiettivo di tipo culturale e giuridico: eliminare le categorie uomo-donna e rimpiazzarle con un soggetto senza identità definita che trae la sua sessualità non dalla sua natura e dalla sua corporeità “data”, ma dalla sua volontà arbitraria.
Qui non c’entra nulla il rispetto dovuto a ogni essere umano. Qui c’è in gioco la ragione: perché bisogna insultare la ragione per far credere che essere lesbica sia la stessa cosa che avere i capelli rossi o essere alto. Prima ancora che addentrarsi sul terreno accidentato del giudizio morale, qui si tratta di un banalissimo riconoscimento di un fatto antropologico: chiunque sa che i comportamenti o anche solo le tendenze che afferiscono alla sfera sessuale hanno un impatto sulla persona ben diverso dal colore dei capelli.
Ma se poi dal piano naturale ci spostiamo a quello soprannaturale, e ci lasciamo illuminare dalla Rivelazione e dalla dottrina cattolica, beh, allora l’infortunio di Famiglia Cristiana assume proporzioni imbarazzanti.
Che cosa penserebbe don Giacomo Alberione, fondatore della Società di San Paolo, imbattendosi in quella pubblicità dentro a una rivista del suo ordine religioso? Stiamo parlando di quel Beato Alberione che nel 1941, a proposito della “formazione dei nostri aspiranti alla vita religioso-sacerdotale” scriveva che “nei casi anormali di complicità con giovani, ragazzo o compagni, sarebbe follia tentare ancora una prova... anche perché i peccati contro natura, gridano vendetta presso Dio e privano di molte grazie”. Davvero singolare: la rivista dei paolini che pubblica una pubblicità che comporterebbe la condanna come “omofobo” del loro stesso fondatore. Il quale – da vero cattolico – insegnava che si deve “combattere l'errore o il peccato, non l'errante o il peccatore”. Ma che non avrebbe mai trasformato un disordine morale in una normalità per decreto statale, tanto per compiacere il peccatore. Né avrebbe usato le riviste del suo ordine – quelle che una volta si chiamavano “buona stampa” - come “taxi a pagamento” per idee contrarie alla dottrina cattolica e alla verità sull’uomo.
Senza dimenticare che don Alberione volle per la sua famiglia il nome dell’apostolo delle genti,quel Paolo di Tarso che nella prima lettera ai Corinti scrive questo terribile ammonimento: “Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adùlteri, né depravati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio.” Prima che nascesse il “politicamente corretto”, si parlava così.
Insomma, quella pubblicità su Famiglia Cristiana è una brutta pagina di omologazione al pensiero unico dominante, è il simbolo dell’accettazione acritica di un messaggio che è sbagliato nei contenuti e nello stile, e – diciamocelo fuori dai denti – anche una brutta prova di cinismo verso il vasto pubblico dei propri lettori. Verso tutte quelle mamme di Pierino che una famiglia cristiana continuano a pensarla con marito, moglie e figli. E che hanno vissuto benissimo per decenni senza discettare di lesbiche, gay e omofobia.
Mario Palmaro (labussoquotidiana.it)
«La nostra umilissima preghiera è di venire corretti, guidati, approvati; la nostra gioia è quella di vivere attaccati a voi, Santo Padre, di obbedirvi in tutto, di essere interamente vostri, fino all'ultimo respiro». (Don Giacomo Alberione a Pio XI)
Agli inizi degli anni Trenta, mentre si stava consumando il duro braccio di ferro tra Mussolini e Pio XI sull'Azione Cattolica, don Giacomo Alberione decise di fondare La Famiglia Cristiana (1931), con lo scopo di «contribuire alla buona formazione della famiglia, e di conseguenza alla restaurazione morale e religiosa della società».
La rivista, inizialmente, è indirizzata solamente alle donne e alle fanciulle ed è composta da articoli di formazione liturgica ed evangelica (tutti, ovviamente, ancorati al Magistero) e da un insieme di insegnamenti pratici, come «ragguagli utili di medicina, cucina e abbigliamento; una rubrica di cucito con esempio pratico, una di diritto (“come fare testamento”) e poi consigli igienici, notiziario agricolo, giochi e storielle». Questa è La famiglia cristiana, così come l'ha pensata il fondatore.
Veniamo, ora, alla rivista come si presenta ai giorni nostri. Prendiamo, come esempio, l'ultimo numero, quello con il faccione di Kiko Argüello in copertina. Non possiamo negare che il Cammino Neocatecumenale riscuota sempre più successo all'interno delle parrocchie, ma dobbiamo anche ammettere che quello di Kiko è un movimento che, dal punto di vista liturgico e dottrinale, si allontana parecchio dal Cattolicesimo.
La liturgia neocatecumenale rappresenta il tipico esempio di “liturgia fai da te” postconciliare, errore daò quale il card. Ratzinger aveva messo in guardia i cattolici: «la vera liturgia presuppone che Dio risponda e mostri come noi possiamo adorarLo. Essa implica una qualche forma di istituzione. Essa non può trarre origine dalla nostra fantasia, dalla nostra creatività, altrimenti rimarrebbe un grido nel buio o una semplice autoconferma».
Soffermiamoci ancora un po' sulla liturgia neocatecumenale e, in particolare, sul modo di di ricevere la Comunione (seduti, sempre sotto le due specie e ricevendo l'Ostia sulla mano). Oltre ad indicare una totale assenza di rispetto nei confronti del Re dei re e di fede nella Presenza Reale, il ricevere la Comunione in questo modo si contrappone all'insegnamento del Santo Padre Benedetto XVI, il quale – riprendendo l'insegnamento di Sant'Agostino e di san Tommaso – ha esortato i cattolici a ricevere la Comunione in ginocchio e sulla lingua (http://www.vatican.va/news_services/liturgy/details/ns_lit_doc_20091117_comunione_it.html).
Terminati gli appunti sulla copertina kikiana, finalmente apriamo la rivista e ci imbattiamo in un volto – quello del card. Ravasi – ben più paffuto rispetto a quello di Kiko. Sulla figura di questo “Cardinale dei gentili” rimandiamo all'articolo di Roberto de Mattei: Ma in che cosa crede il cardinal Ravasi?.
Voltiamo pagina ed ecco che appare il faccione gaudente di don Antonio Mazzi, segnalatosi, non troppo tempo fa, per aver proposto di chiudere i seminari, «organizzati secondo una formula da “allevamento da pollaio”». Don Mazzi è un sostenitore, of course!, di un nuovo Concilio per risolvere «il problema dei preti, quello dei matrimoni, dei sacramenti, del dialogo con le altre religioni».
«Volta la carta», come direbbe De André, ed ecco spuntare nuovamente il faccione di Kiko Argüello, che presenta la sua autobiografia: il kerigma nelle baracche con i poveri. Terminata faticosamente la lettura dell'articolo kikiano, passando per alcune pagine dedicate al «cantiere dell' 'ndragheta», arriviamo alla sezione dedicata a Fabio Fazio e Luciana Littizzetto, la coppia che – settimanalmente – su Rai 3 è solita bacchettare la Chiesa su qualsiasi tema. Fine del resoconto e dell'ultimo numero di Famiglia cristiana.
Possiamo quindi rispondere alla domanda iniziale: che cosa è rimasto di Famiglia Cristiana? Nulla. Tutto ciò che era stato portato avanti da don Alberione è stato tradito: la buona dottrina e la romanità sono state soppiantate dalle teorie dei teologi à la page; lo spirito missionario risulta non pervenuto. E chi ci ha rimesso non è solamente il buon nome dell'editoria cattolica, ma tante anime innocenti – magari delle vecchiette cresciute a pane e catechismo di san Pio X – che vedono ancora in Famiglia cristiana una rivista cattolica.
Matteo Carnieletto