Se chiedessimo a tanti giovani, nostri coetanei, che cosa intendano per amore, ne risulterebbe una risposta sconcertante. Sto sbagliando? Suvvia, guardiamo il modus vivendi della maggior parte dei giovani d’oggi: divertimento, sesso sfrenato, convivenza(percepita spesso come il mezzo per provare il brivido della libertà: faccio ciò che mi pare…è così bello!).
Si tratta di tre punti fermi, da perseguire costi quel che costi, anche se è curioso notare che i risultati non paiono conformi alle aspettative: vivere la vita con l’idea di divertirsi sempre, significa non divertirsi affatto (alzi la mano chi, ritenendo di aver trovato la libertà concepita come la possibilità di fare tutto e il contrario di tutto, è realisticamente felice), e per quanto riguarda coloro che concepiscono il sesso come la più alta forma di amore, basta notare in quale vortice di turbamenti passionali sono avvolti e coinvolti: mai sazi, pare che vivano come drogati di sessualità dovendo soddisfare appetiti carnali che altrimenti li divorerebbero l’esistenza… E che dire dello “stare bene insieme”: quante convivenze iniziate con la certezza di aver trovato “tutto” e che si sono poi rivelate vere e proprio relazioni fallimentari e dolorose…
Perché tutto questo? Cosa è successo?
Immersi in una società del “tutto e subito” e costretti a respirare una mentalità malefica che conduce la vita nella direzione opposta a quella a cui è destinata, ci si è lasciati convincere che amore, felicità e piacere siano la stessa cosa.
Non si è più in grado di guardare in profondità, si è persa la capacità di prospettiva e tutto quello che ci appare davanti, tutto ciò che si materializza nella testa e nel cuore, pare venga posizionato sulla stessa linea, così che tutto appare uguale, dello stesso valore.
In altri termini potremmo dire che siamo caduti preda di una visione dell’esistenza orizzontale, avendo lasciato e forse persino accettato (senza nemmeno opporre resistenza) che quella verticale ci venisse rubata, sottratta o strappata da una folata di vento dal forte puzzo di zolfo.
Emancipati come siamo (così amiamo definirci, vero?) abbiamo commesso una serie imbarazzante di gravi errori: innanzitutto quello di ricercare il piacere come scopo della vita.
"Il piacere - citava il venerato Fulton Sheen - è invece un sottoprodotto dell’adempimento del dovere; è la damigella d’onore, non la sposa. È qualcosa che aspetta l’uomo e gli si offre quando egli fa ciò che dovrebbe fare".
Certo rimane difficile, per non dire impossibile, comprendere questo concetto se si concepisce la vita solo come insieme di diritti e pretese…
E che dire della felicità? ossessionati dalla sua ricerca, dovremmo onestamente chiederci: quale felicità rincorriamo continuamente, cosa intendiamo per felicità?
Se c’è piacere significa che pure c’è felicità e se c’è felicità ciò comporta che ci sia piacere…ma in realtà felicità e piacere non sono sinonimi per il semplice fatto che l’una precede l’altra. Tutte le più grandi gioie della vita vengono comprate a prezzo di un qualche sacrificio. Nessuno potrà mai imparare un lavoro, gustare un’opera d’arte, senza una certa dose di studio e di sforzo; così senza una certa dose di abnegazione non si potrà mai gustare la felicità vera.
E parimenti, anzi ciò vale ancor di più, per l’amore. Senza una severa disciplina non si può pretendere di passare dall’ignoranza dell’amore alle vette somme dell’amore perché dal niente non viene niente, senza impegno e volontà non è possibile costruire né ottenere nulla.
“Non che l’amore, per sua natura, implichi la sofferenza – continuava Fulton Sheen - perché non c’è sofferenza nell’Amore Divino; ma sempre che l’ amore sia imperfetto, o il corpo sia associato all’animo, la sofferenza deve esserci, perché tale è il prezzo con cui l’amore si purifica. La Beata Vergine passò da un livello di amore, che era quello per il suo Divin Figlio, al ben più alto livello di un amore per tutti coloro che Egli avrebbe redenti, e ciò fece quando, alle Nozze di Cana, acconsentì alla Passione e Morte di Lui. Qualsiasi amore anela a una croce per il semplice fatto che l’amore è dimentico di sé a favore degli altri. Ma pur nel sacrificio può dire- la sofferenza è in me , ma io non sono in essa-. Guardare alla gioia come a un risultato della sofferenza ci rende in un certo modo indipendenti dalla sofferenza stessa”.
Se noi trasliamo queste parole nella vita sentimentale ci rendiamo immediatamente conto che un fidanzamento e un matrimonio vissuti al solo fine del piacere sono privi di questo essenziale elemento dell’amore. Altro che felicità!
È quello che Karol Wojtyla nell'opera teatrale la bottega dell’orefice indicava come vivere sulla superfice dell’amore (lasciandosi sopraffare solo dal sentimento, che è mutevole) anziché sperimentarne la profondità: sì, ci sarà anche il sesso, ma non l’amore, un contatto epidermico ma non comunione di spirito.
Si vive egoisticamente perché ripugna l’idea di sacrificio che metterebbe in second’ordine il proprio io per far posto a quello della persona amata. Ma così facendo, vivendo in modo disordinato e superficiale, non permettiamo al miracolo di realizzarsi: l’amore autentico (che sta in primo piano) che ci fa accedere alla felicità (secondo piano) la quale ci può aprire le porte anche del piacere (terzo piano). Non lo permettiamo, perché abbiamo perso la capacità di guardare in profondità…perché abbiamo problemi di prospettiva…
Stefano Arnoldi