Una questione di principio

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1. L’Esortazione post-sinodale Amoris Laetitia non ha lasciato indifferente nessuno. Secondo il parere dello stesso Papa, però, la sola interpretazione possibile del capitolo VIII di questo documento è quella data dai vescovi della regione di Buenos Aires in Argentina, i quali affermano apertamente che a certe coppie di divorziati risposati si può consentire l’accesso ai sacramenti. Il Papa, in una lettera di settembre 2016, ha affermato che «Lo scritto è molto buono ed esplicita perfettamente il senso del capitolo VIII di Amoris laetitia, non c’è altra interpretazione», ed ecco che lo scorso giugno, la Segreteria di Stato del Vaticano ha riconosciuto a questa affermazione lo status di «Magistero autentico».

2. Questo fatto non può non sollevare nuovamente una questione già da tempo affrontata. Avendo appurato che le autorità della gerarchia ecclesiastica restano in possesso del loro potere di Magistero, è lecito chiedersi: che valore attribuire agli atti di insegnamento dispensati dalle autorità ecclesiastiche in carica (il Papa e i vescovi) dopo il Concilio Vaticano II? Occorre considerarli, come in passato, frutto dell’esercizio di un vero Magistero, nonostante tali insegnamenti si allontanino, del tutto o in parte, dalla Tradizione della Chiesa? La posizione della Fraternità San Pio X è di affermare che, a partire dal Vaticano II e dopo, nella santa Chiesa ha imperversato e continua a imperversare «un nuovo tipo di magistero, imbevuto dei princìpi modernisti, che vizia la natura, il contenuto, il ruolo e l’esercizio del Magistero ecclesiastico».

3. Questa posizione ha attirato l’attenzione di un rappresentante accreditato del Sommo Pontefice, il Segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, Mons. Guido Pozzo, ispirando la problematica di fondo di tutto il suo discorso , in linea con quanto sostenuto da Papa Benedetto XVI. Scopo del superamento di questa problematica è l’accreditare agli occhi della Fraternità il valore propriamente magisteriale degli insegnamenti conciliari, prima di farglieli accettare. Perché deve accettarli. Già prima delle discussioni dottrinali del 2009-2011, Benedetto XVI aveva chiaramente annunciato quest’intenzione: «I problemi che devono ora essere trattati sono di natura essenzialmente dottrinale e riguardano soprattutto l’accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero postconciliare dei Papi. […] Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962 – ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità» . Si capisce dunque tutta l’urgenza e l’attualità di tale questione – cruciale – che è una questione di principio. Ci proponiamo qui di riesaminarla, sotto forma sintetica di questione disputata, facendo valere i diversi argomenti pro e contro, così da mettere nuovamente in evidenza la fondatezza della posizione difesa fino a oggi dalla Fraternità.

Gli insegnamenti conciliari sono atti propriamente magisteriali? Argomenti pro e contro

Sembra di sì

1. Primo, la vera natura degli insegnamenti del Concilio Vaticano II e del postconcilio si pone come al vertice, al di sopra di due errori estremi e opposti, e per questo occorre tracciare come due linee bianche invalicabili a sinistra e a destra della via che deve condurre all’intelligenza della verità. La linea bianca a sinistra serve a evitare la posizione massimalista, che fa del Concilio Vaticano II una sorta di super-dogma di natura pastorale in nome del quale si relativizza la dottrina cattolica della Tradizione. Quella a destra serve invece a evitare la posizione minimalista, che sostiene che il Vaticano II è soltanto un concilio pastorale e perciò sprovvisto di ogni valore dottrinale e magisteriale. Rifiutando di adottare le due posizioni, massimalista e minimalista, «occorre leggere e comprendere i documenti del Magistero del Vaticano II e dei Pontefici successivi direttamente a partire da ciò che essi intendono realmente insegnare (la mens dell’autore), senza lasciarsi condizionare dalla realtà virtuale o alterata messa in circolazione da altri interpreti umani non autorizzati» . Si deve quindi ritenere che il Concilio, benché non abbia voluto proporre nuove definizioni dogmatiche, ha nondimeno dispensato un insegnamento magisteriale riguardante la fede e la morale, il quale esige l’assenso interno dell’intelletto e della volontà, al pari di altri insegnamenti a carattere pratico-pastorale, che richiedono un’adesione rispettosa, anche se di natura differente.

2. Secondo, vediamo che di fatto esistono degli atti di insegnamento del Concilio Vaticano II e dei Papi successivi che sono propriamente magisteriali – per esempio l’insegnamento sulla sacramentalità dell’episcopato nel capitolo III della costituzione Lumen gentium o la condanna del sacerdozio femminile nella Lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis di Giovanni Paolo II – perché il contenuto, il tono e la finalità di questi atti manifestano chiaramente che in essi il Papa intende impiegare la sua autorità magisteriale nel senso più tradizionale. 

3. Terzo, il Magistero è – come insegna Pio XII – la regola prossima della verità in materia di fede e di costumi. Ora, come la Chiesa non potrebbe rimanere indefettibile per un lungo periodo senza un Papa veramente regnante, così non potrebbe rimanerlo senza che il Magistero si eserciti in atto. Per questo, negare che gli insegnamenti post-conciliari siano propriamente magisteriali e negare che a capo della Chiesa vi sia un Papa veramente regnante, conduce alle medesime conseguenze: mettere in dubbio le promesse fatte da Nostro Signore e negare l’indefettibilità della Chiesa.

4. Quarto, Mons. Lefebvre, parlando del Concilio Vaticano II, dichiarò: «Esiste un Magistero ordinario pastorale che può benissimo contenere degli errori o esprimere delle semplici opinioni» . Dichiarò anche che bisogna giudicare i documenti del Concilio alla luce della Tradizione, per accettare quelli che sono conformi alla Tradizione . Quindi, ai suoi occhi, il Concilio Vaticano II rappresentava un «Magistero» propriamente detto.

Sembra di no

5. Quinto, in una conferenza a Écône, Mons. Lefebvre dichiarò: «[...] Papa Giovanni XXIII, Papa Paolo VI e Papa Giovanni Paolo II […] sono dei liberali. Hanno una mentalità liberale. […] Allora, come volete che degli spiriti liberali come questi compiano degli atti che essi stessi ritengono definitivi e che obbligano tutti i fedeli ad aderirvi in maniera definitiva? Non possono compiere atti del genere. Per questo nei loro commenti, lettere e comunicazioni ufficiali, fatte sia in concistoro che in riunione pubblica, hanno sempre inserito delle restrizioni. […] Oggi c’è dunque a Roma tutto un insieme che un tempo non esisteva e che non può emanare leggi alla maniera in cui le emanavano i Papi precedenti, perché questi non hanno più lo spirito veramente cattolico su questa questione. Non hanno la concezione cattolica chiara dell’infallibilità, dell’immutabilità del dogma, della permanenza della Tradizione, della permanenza della Rivelazione e neanche, direi, dell’obbedienza dottrinale. […] E allora, vedete come tutta questa concezione che hanno impedisca loro di compiere degli atti esattamente nelle stesse condizioni e con la stessa concezione con cui li compivano una volta i Papi. Mi sembra che questo sia chiaro. È per questo che ci troviamo in mezzo a una confusione inverosimile». Mons. Lefebvre, pertanto, aveva quantomeno seri dubbi sulla natura magisteriale dei nuovi insegnamenti conciliari.

6. Sesto, in occasione del 25° anniversario delle consacrazioni episcopali del 1988, Mons. Fellay ha dichiarato: «Siamo dunque obbligati a constatare che questo Concilio atipico, che ha voluto essere solo pastorale e non dogmatico, ha inaugurato un nuovo tipo di magistero, sconosciuto fino ad allora nella Chiesa, senza radici nella Tradizione; un magistero determi nato a conciliare la dottrina cattolica con le idee liberali; un magistero imbevuto dei principi modernisti del soggettivismo, dell’immanentismo e in perpetua evoluzione, conformemente al falso concetto di tradizione vivente, in quanto altera la natura, il contenuto, il ruolo e l’esercizio del magistero ecclesiastico». Se ne trae la stessa conclusione del settimo argomento.

Principio di risposta

7. Per rispondere, bisogna definire i termini della questione.

8. Definiamo il predicato della domanda e vediamo che cos’è un atto «propriamente magisteriale». L’atto del Magistero ecclesiastico è una testimonianza resa con autorità in nome di Cristo: esso è essenzialmente atto di un’autorità vicaria. Quest’atto è quindi definito e limitato dal suo oggetto, che è la salvaguardia e l’esplicitazione delle verità divinamente rivelate. Al di fuori di quest’oggetto, l’atto dell’autorità ecclesiastica non può corrispondere a un atto di Magistero propriamente detto. In certi casi, la retta ragione illuminata dalla fede è in grado di verificare se l’autorità ecclesiastica venga esercitata al di fuori dei suoi limiti, cioè precisamente quando quest’autorità contraddice l’oggetto proprio del Magistero già proposto come tale. Si tratta di un criterio negativo, indicato da San Paolo nella Lettera ai Galati (1,8): le autorità ecclesiastiche agiscono al di fuori dei loro limiti quando insegnano qualcosa di contrario alle verità già definite dal Magistero infallibile o proposte costantemente dal Magistero ordinario, anche semplicemente autentico. In un simile caso è dunque possibile verificare l’illegittimità e la natura non magisteriale di un atto d’insegnamento, procedendo a posteriori ed esaminando l’oggetto di quest’atto nella relazione che esso ha con gli altri oggetti degli altri atti del Magistero anteriore. Questo però fa sorgere la domanda circa la natura propriamente magisteriale di un tale insegnamento. Infatti, se l’oggetto di tale insegnamento (il suo «quod» per usare un linguaggio scolastico) è la negazione dell’oggetto del Magistero, foss’anche solo in qualche punto, ci si può chiedere se il motivo formale di tale insegnamento (il suo «quo») sia abitualmente (e cioè in tutti i suoi atti) quello del Magistero: tra i due c’è infatti una relazione necessaria di adeguatezza. Certo, può succedere che il Papa insegni, con un atto isolato, insegni qualcosa che non è oggetto del suo Magistero (un’opinione teologica, per esempio), senza che questo sia il segno della natura abitualmente non magisteriale del suo insegnamento. Tuttavia, quando il Papa, anche con un atto isolato, insegna qualcosa che contraddice l’oggetto del Magistero (un errore grave, cioè un’eresia), non è irragionevole chiedersi ciò non sia un segno del fatto che il suo insegnamento abituale non è più di natura magisteriale. Infatti, per gli atti del potere, ma non per il potere stesso, la negazione del «quod» (che è più della sua assenza) è ordinariamente segno dell’assenza del «quo». 

9. Definiamo poi il soggetto della domanda e vediamo che cosa sono «gli insegnamenti conciliari». Gli insegnamenti del Vaticano II, al pari di quelli dei Papi a esso successivi, sono prima di tutto degli insegnamenti che contraddicono, almeno in più punti importanti (la libertà religiosa e l’indifferentismo degli Stati, la nuova ecclesiologia latitudinarista del «subsistit», l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, la collegialità e il sacerdozio comune, la nuova liturgia, il nuovo Codice di Diritto Canonico) i dati oggettivi del Magistero costante già chiaramente proposto con la dovuta autorità. In secondo luogo si tratta di insegnamenti che comportano come conseguenza pratica una protestantizzazione generalizzata dei fedeli cattolici. Tali insegnamenti, in terzo luogo, si vogliono essi stessi come propri di un nuovo «magistero», presentato da Giovanni XXIII e da Paolo VI come magistero pastorale. Questo si proponeva – ha precisato da Benedetto XVI – di ridefinire la relazione della fede della Chiesa nei confronti di certi elementi essenziali del pensiero moderno.

10. Possiamo allora concludere, primo, che su tutti i punti particolari e isolati che sono contrari alle verità già definite dal Magistero infallibile o proposte costantemente dal Magistero ordinario, gli insegnamenti conciliari non hanno sicuramente natura magisteriale; secondo, che sugli altri punti rimane il dubbio, in quanto gli insegnamenti conciliari derivano globalmente da un nuovo «magistero» di tipo pastorale, la cui intenzione, «viziando la natura, il contenuto, il ruolo e l’esercizio del Magistero ecclesiastico», è solo in maniera dubbia quella del Magistero propriamente detto. Ne deriva che, se li consideriamo formalmente come espressione di questo nuovo «magistero» (e non solo in quanto possono essere materialmente conformi alla Tradizione ed eventualmente beneficiare dell’autorità del Magistero anteriore), questi insegnamenti conciliari sono di natura magisteriale soltanto in maniera dubbia. In ragione di questo dubbio, ci sembra prudente, come regola generale, evitare di presentare nella nostra predicazione tali dichiarazioni del nuovo «magistero» come argomenti rivestiti di autorità magisteriale propriamente detta, per non ispirare nei confronti degli insegnamenti conciliari e post-conciliari una fiducia che alla lunga si rivelerebbe nociva per la mente dei nostri fedeli. Stabilito questo, su tutti i punti isolati in cui tali insegnamenti sono materialmente e apparentemente conformi alla Tradizione (come per esempio la condanna del sacerdozio femminile in Ordinatio sacerdotalis), la stessa prudenza non ci impedisce di tenerne conto e di trarne tutte le conseguenze ragionevolmente possibili, utilizzandoli in un modo o in un altro, in base al grado di autorità magisteriale, come argomenti particolari ad hominem o come materia di insegnamento e di riflessione teologica.

11. Questa doppia conclusione si impone per il fatto che l’albero si giudica dai suoi frutti, conformemente al metodo raccomandato e seguito da Mons. Lefebvre: «Senza rigettare in blocco questo Concilio, penso che sia il più grande disastro di questo secolo e di tutti i secoli passati sin dalla fondazione della Chiesa. In questo, io non faccio che giudicarlo dai suoi frutti, utilizzando il criterio che ci ha dato Nostro Signore (Mt. VII, 16)». Questo giudizio è in effetti la conclusione di un ragionamento a posteriori, nel quale a partire dall’oggetto dell’insegnamento si risale alla dubbia natura magisteriale di tale insegnamento, come dall’effetto alla sua causa formale. Il carattere dubbio di questo insegnamento si accentua allorché, in aggiunta, chi detiene l’autorità afferma anche un cambiamento al livello della sua intenzione, e appare ancora più fondato se si tiene conto della mentalità liberale che infetta il suo pensiero.

12. Questa doppia conclusione è da considerare vera non sul piano speculativo, ma su quello pratico. Non è infatti una conclusione dogmatica stabilita dalla fede o dalla teologia, ma è solo una conclusione stabilita dalla prudenza soprannaturale e dal dono del consiglio. Essa è dunque vera fino a un nuovo ordine di cose e fatto salvo il futuro giudizio del Magistero della Chiesa, che sicuramente Dio susciterà per chiarire tutti i dubbi nati dalla presente crisi.

Risposta agli argomenti

13. Al primo rispondiamo che tale argomento, nel contestare la posizione detta «minimalista», si fonda logicamente su un doppio postulato. Il primo postulato è quello della continuità sistematica di tutti gli insegnamenti conciliari con la Tradizione, in nome dell’inerranza del Concilio; si tratta precisamente di un postulato, cioè di una posizione non verificata e non verificabile, dal momento che i fatti la contraddicono. Il secondo postulato è quello della mens secondo la quale gli autori degli insegnamenti conciliari avrebbero l’intenzione di esercitare un atto di Magistero, benché non infallibile. Anche qui si tratta di un postulato, dato che quest’intenzione non è provata. Abbiamo ragioni più serie per presumere in tutti i successori di Giovanni XXIII e di Paolo VI, l’intenzione radicale e ordinaria di sposare i presupposti liberali e personalisti del pensiero moderno. Nel libro pubblicato nel 1982, Les Principes de la théologie catholique [I princìpi della teologia cattolica], il cardinale Joseph Ratzinger afferma che l’intenzione fondamentale del Concilio Vaticano II è contenuta nella costituzione pastorale Gaudium et spes. Il Prefetto della Fede vi afferma: «Questo testo svolge il ruolo di un controSyllabus nella misura in cui rappresenta un tentativo di riconciliazione ufficiale della Chiesa col mondo come esso era diventato dopo il 1789». Nel 1984, lo stesso cardinale Ratzinger ha dichiarato anche che il Concilio è stato convocato per fare entrare nella Chiesa delle dottrine nate fuori da essa, dottrine che vengono dal mondo. Nel discorso del 22 dicembre 2005, afferma inoltre che il Concilio Vaticano II si è proposto di definire in maniera nuova «le relazioni tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno». Il Vaticano II, pertanto, si è dato come compito quello di armonizzare la predicazione della Chiesa con i princìpi del pensiero moderno e liberale nati nel 1789. È la stessa constatazione fatta da Mons. Lefebvre alla fine del Concilio: «Abbiamo assistito al matrimonio della Chiesa cattolica con le idee liberali. Sarebbe negare l’evidenza, fingersi ciechi, non affermare coraggiosamente che il Concilio ha permesso a coloro che professano gli errori e seguono le tendenze condannate dai Papi citati prima, di credere legittimamente che le loro dottrine siano state sancite e approvate». Più tardi, a Écône, dirà: «Quindi vedete come questa concezione che hanno gli impedisce di porre degli atti esattamente nelle stesse condizioni e con la stessa concezione con cui lo facevano i Papi in passato» Quest’intenzione fondamentale non è stata rimessa in discussione, anzi è stata sempre mantenuta implicitamente nei riferimenti che, in maniera abituale e spesso esclusiva, gli uomini di Chiesa fanno al Concilio Vaticano II. Essa rende dubbia la natura magisteriale dell’abituale predicazione di queste autorità.

14. Al secondo rispondiamo che, anche ammettendo per pura ipotesi (dato et non concesso) che gli insegnamenti conciliari siano conformi alla Tradizione in alcuni punti, questi punti si trovano inseriti in una sintesi globale che è contraria alla Tradizione cattolica di sempre. Possiamo attenerci al principio d’analisi trasmessoci da Mons. Lefebvre: «Il Concilio è stato sviato dal suo fine da un gruppo di congiurati e che è impossibile a noi partecipare a questa congiura, nonostante ci siano molti testi soddisfacenti di questo Concilio. Perché i buoni testi sono serviti per far accettare i testi equivoci, subdoli, corrotti». Ciò che Mons. Lefebvre dice a proposito del Concilio preso globalmente, può dirsi anche, in maniera analogica, di tutti gli insegnamenti post-conciliari globalmente presi: non possiamo riconoscere questo nuovo «magistero», quand’anche in esso ci fossero molti testi materialmente soddisfacenti, perché i testi materialmente buoni si inscrivono formalmente in una logica cattiva e servono per farne accettare altri equivoci, subdoli, corrotti. D’altra parte, anche per i punti citati a titolo di esempio non è difficile dimostrare che la loro conformità agli insegnamenti della Tradizione è più apparente che reale. La sacramentalità dell’episcopato come insegnata da Lumen gentium e i presupposti epistemologici di Ordinatio sacerdotalis si collocano in un’ottica che solo in maniera dubbia è quella della Tradizione.

15. Al terzo concediamo che l’indefettibilità della Chiesa rende necessaria l’esistenza e l’esercizio perpetuo di un Magistero vivente, ma neghiamo che la dubbia natura magisteriale degli insegnamenti della gerarchia a partire dal Vaticano II comporti l’assoluta assenza di qualsiasi esercizio di qualsivoglia Magistero in tutta la Chiesa. Questo per due ragioni: prima di tutto, e fondamentalmente, perché il Magistero vivente, il cui esercizio è necessario per l’indefettibilità della Chiesa, non si riduce al Magistero presente, dato che integra tutti gli atti del Magistero passato; inoltre perché il Magistero presente si esercita come tale nel quadro di un’azione comune ordinata e non si riduce alla sola attività del Papa né alla sola attività comune di tutti i vescovi. Affinché l’unità e la perpetuità dell’esercizio del Magistero vengano mantenute è sufficiente che almeno una parte dei pastori, o perfino uno solo, resti fedele alla trasmissione della fede27. Il dubbio che avanziamo, poi, riguarda tutto l’insegnamento posteriore al Vaticano II in senso propriamente logico e non cronologico: è dubbio ogni insegnamento formalmente conciliare, cioè che procede dalla formale intenzione indicata nel principio di risposta e che viene adottato comunemente dalla gerarchia – volente o nolente – nella sua predicazione ufficiale. L’obiettante pone qui un dilemma riducibile ai seguenti termini: o il «magistero» conciliare presente è il Magistero della Chiesa o non lo è, e visto che il Magistero della Chiesa non può non essere, ne consegue che il «magistero» conciliare presente è il Magistero della Chiesa. Affermare questo significa dimenticare che, nella Chiesa, la regola della verità in materia di fede e di costumi è sufficientemente stabilita in una maniera propria alla condizione umana, dal momento che il Magistero si esercita attraverso alcuni atti d’insegnamento di alcuni pastori passati o presenti, ma non necessariamente attraverso tutti gli atti di insegnamento di tutti i pastori. Ogni fedele può ricorrere a questi pochi atti e appoggiarvisi, con la certezza richiesta di trovare in essi la garanzia di cui ha bisogno per professare la sua fede nell’unità cattolica della Chiesa, e questo quand’anche la Provvidenza permettesse per qualunque durata una certa carenza in tutti gli altri atti. Come sottolinea il già citato Franzelin, l’epoca dell’arianesimo manifesta seriamente la possibilità di una simile situazione.

16. Al quarto rispondiamo che la citazione attribuita a Mons. Lefebvre è tratta fuori dal suo contesto. Si tratta di una nota che precisa il vero significato di certi punti richiamati nello scambio epistolare tra Mons. Lefebvre e il cardinale Ratzinger: «Supponendo che i testi del Vaticano II siano degli atti magisteriali, tre fatti rimangono innegabili. Innanzi tutto, a differenza di tutti i concili ecumenici anteriori, il Vaticano II ha voluto essere un “Concilio pastorale” e non ha definito alcun punto di dottrina nel senso di definizione irreformabile. Di conseguenza, i documenti di questo Concilio derivano tutt’al più dal Magistero ordinario della Chiesa, in cui non è escluso che si incontrino degli errori». Questo «supponendo» (dato et non concesso) dà alla citazione tutto il suo vero senso. Chiaramente, se si tiene conto di questo, dalla citazione non si può trarre l’argomento che l’obiettante vorrebbe trovarci. D’altronde, la fine della nota precisa: «aggiornare la Chiesa, cioè metterla in accordo con gli errori moderni per farla uscire per così dire dal suo ghetto, voltando le spalle alla Tradizione, veicolo della fede, equivale a una mostruosa eresia. È questo che il Vaticano II ha fatto: il matrimonio della Chiesa con l’ideologia del ‘89». Il vero pensiero di Mons. Lefebvre è più complesso e pieno di sfumature di quanto potrebbe sembrare estrapolandolo da una nota isolata, citata controsenso. Per rendersene conto è sufficiente scorrere le diverse conferenze in cui nel corso degli anni il fondatore della Fraternità siesprime sulla questione. Ci si può rendere conto che Mons. Lefebvre parla raramente del Vaticano II come di un Magistero. Quando lo fa, le precisazioni che apporta dimostrano che il termine Magistero non può essere applicato all’ultimo concilio nel suo significato proprio e abituale. Egli infatti lo chiama «un magistero che distrugge questo Magistero [di sempre], che distrugge questa Tradizione»; «un magistero nuovo o una concezione nuova che è peraltro una concezione modernista»; «un magistero sempre più mal definito»; «un magistero infedele, un magistero che non è fedele alla Tradizione»; «un magistero che non è fedele al Magistero di sempre»; «un magistero nuovo». Nella corrispondenza ufficiale indirizzata al Prefetto della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, Mons. Lefebvre ha espresso il seguente giudizio: «un magistero nuovo senza radici nel passato, e a maggior ragione contrario al Magistero di sempre, può essere solo scismatico, se non eretico». Sono questi gli esempi significativi della riflessione condotta da Mons. Lefebvre di fronte all’ampiezza del fenomeno inedito introdotto nella Chiesa a partire dal Vaticano II. Concediamo la quinta e la sesta obiezione perché si tratti di una verità pratica e di una conclusione prudenziale, ma non di una verità speculativa e di una conclusione dogmatica o teologica – salvo futuro judicio Ecclesiae.


Don Jean-Michel Gleize, FSSPX (Fonte: rivista La Tradizione cattolica n.3/2019)


Documento stampato il 21/11/2024