Il Rodano incrocia il Tevere: storia dei rapporti tra la Fraternità San Pio X e la Santa Sede
«Non si può negare che il fatto incontestabile dell’influenza romana sulla nostra spiritualità, sulla nostra liturgia e anche sulla nostra teologia sia un fatto provvidenziale: Dio, che guida ogni cosa, nella Sua Saggezza infinita ha preparato Roma a diventare la sede di Pietro e il centro di irradiamento del Vangelo […]. La “romanità” non è una parola vana. La lingua latina ne è un esempio importante. Essa ha portato l’espressione della fede e del culto cattolico fino ai confini del mondo. E i popoli convertiti erano fieri di cantare la loro fede in questa lingua, simbolo reale dell’unità della fede cattolica… Amiamo esaminare come le vie della Provvidenza e della Sapienza divina passano per Roma e ne concluderemo che non si può essere cattolici senza essere romani» (Mons. Marcel Lefebvre, Itinerario spirituale)
Introduzione
Spesso, al solo pronunciare la parola “Lefebvre”, o, per chi è più addentro alla questione, “Fraternità San Pio X”, immediatamente viene in mente la ribellione, lo scisma, gli attacchi al Papa, la disobbedienza, l’anarchia dottrinale. Un grande errore, naturalmente, poiché la Fraternità San Pio X non si definisce per la sua opposizione a Roma né per le sue battaglie dottrinali. Ciò che la storia ha poi mostrato e che tratteremo in quest’articolo è una conseguenza di fatto, ma la congregazione fondata dall’intrepido arcivescovo ha una sua ragion d’essere ben al di là delle contingenze della crisi profonda che travaglia la Chiesa da cinquant’anni; è bene ricordarlo, per aver ben presente che i membri della FSSPX si santificano soprattutto nell’esercizio del loro sacerdozio, nella preghiera, nella vita comune, nelle fatiche apostoliche (Si veda, per questo, il nostro articolo sul precedente numero dalla rivista, il n° 1 (112) 2020).
Astrazion fatta dalla crisi (e quando un giorno, a Dio piacendo, quest’ultima finirà), la FSSPX è quella che è a causa della sua fondazione e dei suoi Statuti: un’opera della Chiesa per la formazione e la santificazione dei sacerdoti. Detto ciò, e per abbordare da subito la questione storica, non si può capire del tutto la battaglia dottrinale che attualmente essa compie nei confronti degli errori del Concilio Vaticano II se non si ha una visione chiara di come la stessa congregazione è stata vista all’interno della Chiesa, cosa ha dovuto subire, cosa ha provato ad intraprendere, in che direzione volta per volta si è mossa. Argomento non facile, e, diciamolo subito, la trattazione che segue non è assolutamente esaustiva: non si esamineranno certo tutte le lettere, tutti i singoli incontri con le autorità romane, ma se ne tracceranno le linee principali per cercare un “filo rosso” del pensiero e della prassi dell’Arcivescovo che ha combattuto nella tempesta conciliare, e dei successivi superiori che ne hanno seguito le orme.
Lo status quo
«Giovedì 22 novembre, don Davide Pagliarani, Superiore Generale della Fraternità San Pio X, si è recato a Roma, dietro invito del Cardinal Luis Ladaria Ferrer, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. […] Durante l’incontro con le autorità romane, è stato ricordato che il problema di fondo è di natura squisitamente dottrinale, e né la Fraternità né Roma lo possono eludere. È proprio a causa di questa irriducibile divergenza dottrinale che tutti i tentativi di elaborare una bozza di dichiarazione dottrinale accettabile dalle due parti sono falliti negli ultimi sette anni. Per questo la questione dottrinale resta assolutamente primordiale. La Santa Sede stessa non dice nulla di diverso quando afferma solennemente che lo stabilimento di uno statuto giuridico per la Fraternità non si potrà fare se non dopo la firma di un documento di carattere dottrinale. Dunque tutto spinge la Fraternità a riprendere la discussione teologica, ben sapendo che Dio non le domanda necessariamente di convincere i suoi interlocutori, ma di offrire alla Chiesa la testimonianza incondizionata della Fede. […]» Così il comunicato della Casa generalizia della Fraternità il 23 novembre 2018. Detto in parole semplici, sembra chiudersi così la ricerca di una soluzione canonica tout court allo statuto giuridico della FSSPX senza che si risolva prima la questione dottrinale, cosa che si adombra nella menzione della ripresa dei colloqui teologici. A tutt’oggi, anno del Signore 2020, la nostra congregazione risulta, agli occhi dei suoi componenti, come già di quelli del suo Fondatore, pienamente membro della Chiesa cattolica romana; agli occhi delle autorità romane (al netto, s’intende, delle innumerevoli differenze di vedute tra i singoli suoi interlocutori) risulta, benché ormai priva di ogni effettiva sanzione canonica (Vedasi il decreto di remissione delle scomuniche del 21 gennaio 2009 ad opera di papa Benedetto XVI), ancora “non in piena comunione”, checché ciò significhi poi in concreto. Ciò che quindi interessa approfondire è: come si è arrivati a tale situazione? Senza alcuna pretesa di assoluto rigore cronologico, pensiamo di poter individuare quattro grandi momenti in cui suddividere la nostra narrazione, seguendo passo dopo passo lo sviluppo delle ardue e delicatissime relazioni tra noi e Roma.
Il primo momento: la fondazione e il Decretum laudis (1970-1974)
Non c’è dubbio che l’inizio dell’opera della FSSPX fu nel solco della più limpida e trasparente legalità giuridica: non che questo fosse un elemento di bontà assoluta e come tale ricercato da Marcel Lefebvre: i fatti dimostreranno che più che mai sarà la difesa della Fede cattolica il faro che gli permetterà di attraversare sereno le più terribili tempeste in fatto di accuse e persecuzioni; tuttavia, prima ancora di sapere cosa la Provvidenza gli avrebbe riservato, il coraggioso prelato non volle intraprendere alcuna opera ecclesiastica senza averne prima ottenuto il relativo permesso, come un vero figlio della Chiesa sa bene (Non dimentichiamo infatti che per anni, anzi decenni l’anziano Fondatore aveva servito la Santa Sede con diversi ed importanti incarichi anche diplomatici nei paesi di missione e alla guida della congregazione dei Padri dello Spirito Santo, ruoli che gli permisero di acquisire una grande esperienza in fatto di fondazioni di opere ecclesiastiche); ecco dunque che il 1° novembre 1970 ottenne l’erezione canonica della congregazione con la relativa approvazione degli Statuti da parte del vescovo di Losanna, Ginevra e Friburgo, S.E. Mons. François Charrière. Va aggiunto che, poco tempo prima, un suo vecchio amico e confratello nell’episcopato Mons. Nestor Adam, vescovo di Sion nel Vallese (nella cui diocesi si trova Ecône) aveva già autorizzato lo svolgimento di un “anno di spiritualità” propedeutico agli studi ecclesiastici, appunto nel seminario di Ecône. È evidente che l’appoggio anche di una piccola parte dell’episcopato non poteva che incoraggiare il prelato e i suoi ancora pochi seminaristi, evitando così l’illusione di un apostolato personale.
Ma ciò non basta, poiché la Santa Sede si interessò da subito dell’opera, dato che il 18 febbraio 1971 il card. Wright, prefetto della Sacra Congregazione del Clero, inviò una lettera di incoraggiamento e di lode alla neonata congregazione. Tutto, insomma, sembrava far presagire il meglio, a fronte (ecco all’orizzonte le nuvole portatrici di tempesta in un cielo ancora limpido) di un mormorio diffuso soprattutto nell’episcopato francese contro il “seminario selvaggio”, come allora lo si definì (Vedi le vicende raccontate in: B. Tissier de Mallerais, Monsignor Marcel Lefebvre: Una Vita, Edizioni Piane, Casale Monferrato 2018, pag. 501).
Il secondo momento: inizio della persecuzione e prime sanzioni (1974-1988)
Il mormorio dell’episcopato francese non rimase inascoltato a Roma, e la preoccupazione nei confronti di un seminario che ancora rifiutava di celebrare i riti del Novus Ordo Missae non poté che suscitare infine una reazione ufficiale da parte delle autorità romane: nel novembre del 1974 fu annunciata la visita canonica ad Ecône di due ecclesiastici, Mons. Descamps e Mons. Onclin, che, al termine di tre giorni di permanenza e di ambigui discorsi ai seminaristi e ai professori, lasciarono stupefatti i membri della congregazione per le modalità della visita, l’atteggiamento dei visitatori e gli scopi ben poco amichevoli della loro venuta (Ibidem, op. cit., pag. 507). Da questo calderone scaturì l’imperitura, celebre e sempre attuale Dichiarazione del 21 novembre 1974, una sorta di manifesto della battaglia dottrinale della Fraternità San Pio X, che nella sua parte centrale recita: «Noi aderiamo con tutto il cuore e con tutta l’anima alla Roma cattolica custode della fede cattolica e delle tradizioni necessarie al mantenimento della stessa fede, alla Roma eterna, maestra di saggezza e di verità. Noi rifiutiamo, invece, e abbiamo sempre rifiutato di seguire la Roma di tendenza neo-modernista e neo-protestante che si è manifestata chiaramente nel Concilio Vaticano II e dopo il Concilio, in tutte le riforme che ne sono scaturite». Tali infuocate parole non gettarono certo acqua sul fuoco, per dirla in modo eufemistico; la tempesta era solo iniziata, e le armi si affilavano. Interessante però notare che Mons. Lefebvre non aveva alcuna intenzione di rompere le relazioni con la Santa Sede, e a torto si cercherebbe nella vita del prelato un’intenzione simile. In questa fase, comunque, l’Arcivescovo provò, andando a Roma nel febbraio e marzo ’75, ad incontrare i tre cardinali capi delle Congregazioni dei Seminari, del Clero e dei religiosi, che costituivano anche una sorta di “commissione d’accusa” nei suoi confronti; il prelato voleva difendere la posizione della Fraternità contro le accuse scaturite dalla visita del novembre precedente, accuse che non erano state ufficialmente notificate e di cui comunque non c’era traccia. Ma ormai una sorta di congiura era in atto, e il 6 maggio 1975 Mons. Mamie, succeduto nel frattempo a Mons. Charrière nella sede episcopale di Friburgo, notifica a Mons. Lefebvre l’atto di soppressione della Fraternità San Pio X, che era sì stata eretta nella diocesi, ma che – secondo l’avviso di Lefebvre stesso, basato su solide ragioni canoniche – non poteva essere soppressa che dalla Santa Sede stessa. Ecco perché il prelato fa ricorso al tribunale della Segnatura apostolica, ma senza successo; gli viene detto che la soppressione è il risultato dell’inchiesta condotta dai cardinali che avevano ascoltato lo stesso Monsignore mesi prima. E dov’erano gli atti di questo “processo”? Dove le registrazioni dei colloqui? Monsignore li chiese, ma invano; non li ottenne mai. Anche per questo, egli considerò sempre nulla oltre che ingiusta la soppressione della Fraternità; e così, coraggiosamente e nonostante gli inviti di Paolo VI stesso a chiudere il seminario, egli continuò. E i suoi seminaristi lo seguirono.
Un altro duro colpo arriverà poi l’anno dopo, il celebre 1976: dopo ripetuti incontri e colloqui che sarebbe troppo lungo citare, ancora una volta nel corso dell’anno viene intimato all’Arcivescovo di interrompere l’opera di Ecône e di accettare il Concilio, che, come ebbe a dirgli il papa Paolo VI, «sotto certi aspetti è più importante di quello di Nicea». Un’ultima minaccia gli viene il 25 giugno, con una lettera di Mons. Benelli, Sostituto alla Segreteria di Stato, il quale gli intima de mandato speciali Summi Pontifici di non procedere alle ordinazioni previste per il 29, per non incorrere nelle censure previste dai canoni. Anzi, Benelli gli propone di trovare una successiva soluzione per i suoi seminaristi, a patto beninteso che essi siano «seriamente preparati ad un ministero presbiterale nell’autentica fedeltà alla Chiesa conciliare» (Op cit., pag. 514). Per la prima volta appare questa bizzarra espressione che da un lato Monsignore rifiuta in quanto ecclesiologicamente erronea («Confesso che non conosco la Chiesa conciliare, conosco solo la Chiesa cattolica» ebbe a dire in un’intervista ad un’emittente francese il 5 agosto 1976 - Video in francese reperibile su internet, https://www.youtube.com/watch?v=s36aHR E-NfM); dall’altro però sarà da lui poi utilizzata, in parte come argomento ad hominem, in parte per designare non certo una chiesa in senso stretto, ma uno spirito erroneo penetrato fin nella Chiesa e che, essendone la gerarchia stessa infettata, sembra con essa confondersi, all’esempio di una malattia in un corpo, che non rappresenta certo a sé stessa un corpo a sé, ma solo una degenerazione clinica (Si veda l’ottimo articolo di don Jean-Michel Gleize sull’argomento, pubblicato in francese sul Courrier de Rome, n° 363 di febbraio 2013, e in italiano sul nostro (vecchio) sito internet, https:// www.sanpiox.it/archivio/articoli/fede/936-sipuo-parlare-di-una-chiesa-conciliare). Comunque, per tutta risposta alle intimazioni del Pontefice, il Fondatore della FSSPX procedette, il 29 giugno successivo, alle consuete ordinazioni sacerdotali, conscio ormai dell’imminente arrivo delle sanzioni canoniche; infatti, il 22 luglio il Segretario della Congregazione dei Vescovi gli notifica la sospensione a divinis, pena che avrebbe dovuto provarlo dell’esercizio di ogni atto sacramentale. Quale fu la risposta a ciò? Potremmo definirla una duplice risposta: sul piano della pubblica professione di fede, il 29 agosto dello stesso anno il prelato celebrò una S. Messa nella città di Lille in Francia dinanzi a settemila fedeli, scatenando l’ira e lo sconcerto a Roma; fu da tutti denominata, quella, l’estate calda. In quell’occasione, memorabili benché durissime furono le parole del Prelato: «Il matrimonio fra la Chiesa e la Rivoluzione […] è un matrimonio adultero. E da questa unione adultera non possono venire fuori che dei bastardi. Il nuovo rito della messa è un rito bastardo, i sacramenti sono sacramenti bastardi, i sacerdoti che escono dai seminari sono sacerdoti bastardi […]» (Tissier de Mallerais, op. cit., pag. 518). Ma, ancora una volta, non c’era volontà di rottura con la S. Sede, poiché si riuscì a combinare un incontro tra Lefebvre e Paolo VI l’11 settembre dello stesso 1976; l’idea di Monsignore, che espresse al Pontefice, era quella di chiedere che si lasciasse fare “l’esperienza della Tradizione”: un modo di dire, certo, poiché la Tradizione che era durata quasi duemila anni non aveva nulla da esperire, e tuttavia questo argomento ad hominem fu lanciato per fare breccia nella mentalità liberale del papa regnante, ma, anche stavolta, senza risultato.
Bisognerà aspettare qualche anno per vedere Monsignore, ancora una volta, alle prese con un incontro romano: il 18 novembre 1978, infatti, fu ricevuto in udienza dal neoeletto Giovanni Paolo II, nel quale forse inizialmente, ma solo inizialmente, fu riposta qualche debole speranza di comprensione (dato forse il forte anticomunismo di questo papa), ma il terreno scivolò sull’argomento del Concilio “compreso alla luce della Tradizione”, secondo l’invito dello stesso Giovanni Paolo II; questa frase, che Monsignore voleva poter dirigere in un senso dottrinalmente corretto (come egli stesso ebbe a dire: rigettare ciò che è erroneo, conservare ciò che è giusto, interpretare in senso tradizionale i passaggi ambigui) si rivelò col passare del tempo un procedimento pericoloso, dato che era via via più chiaro che l’ambiguità di alcuni passaggi del Concilio (al di là di quelli invece manifestamente erronei e - almeno – prossimi all’eresia) era voluta e non accidentale: dunque perse sempre più di senso l’intento di “forzare” i concetti ambigui del Concilio nel buon senso, poiché anzi risultava ovvio che questi erano lì apposta; del resto, Monsignore non operò mai nel concreto una tale forzatura. Ma la situazione canonica della Fraternità (dato di certo anche il suo “preoccupante” sviluppo nel mondo) continuava a tenere sulle spine gli organi della Santa Sede, e Monsignore dovette sottoporsi ad un nuovo processo questa volta davanti al Sant’Uffizio nel gennaio 1979 (Op. cit. pag. 537), processo durante lo svolgimento del quale Monsignore chiese a Roma uno statuto giuridico ufficiale, un riconoscimento canonico, per poter continuare senza persecuzioni la sua opera, ed inoltre anche un cardinale visitatore; il tutto, va da sé, gli venne negato.
Intanto, gli anni passavano e l’Arcivescovo si vedeva invecchiare, e una preoccupazione urgente arrivò a togliergli persino il sonno: come sarebbe continuata, alla sua morte, l’opera della Fraternità? Egli non vedeva che una soluzione: assicurarsi una successione nell’episcopato per poter continuare ad ordinare sacerdoti secondo la tradizione della Chiesa, scopo principale della Fraternità San Pio X. Ecco che i successivi negoziati con la Santa Sede e i tanti incontri che si succedettero avevano questo scopo. Si arrivò così alla fatidica primavera del 1988, durante la quale venne finalmente messa a punto una bozza di riconoscimento canonico da parte della Santa Sede, rappresentata in questa fase dal Card. Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Il protocollo d’intesa prevedeva la piena riconciliazione della Fraternità con la S. Sede, ed inoltre la concessione di un vescovo per la Fraternità, ma ad una data non ancora definita. Tuttavia i giochi sembravano fatti, e da ogni parte si attendeva con ansia il sospirato riconoscimento giuridico della Fraternità: il 5 maggio ’88 al priorato di Albano ebbe luogo la firma del protocollo d’intesa con la Santa Sede, e la questione sembrò definitivamente risolta. Quella notte Monsignore dormì molto poco, e la mattina seguente arrivò tardi a colazione.
Terzo momento: la rottura e le scomuniche (1988 -2000)
La notte, si sa, porta consiglio, e il fatto che la consacrazione di un vescovo non fosse prevista ad una data precisa (un vescovo scelto da chi?) turbava non poco Monsignore, il quale, dopo aver prudentemente riflettuto, ritornò sui suoi passi, e scrisse al card. Ratzinger intimandogli un ultimatum per la comunicazione della data delle consacrazioni episcopali; il cardinale rispose che ci sarebbe voluto ancora del tempo, ma ciò portò inevitabilmente alla rottura delle trattative: l’ “accordo” era saltato. Prova dell’oculatezza di questa seconda mossa fu infatti il fatto che, in successivi colloqui con lo stesso cardinale, l’ipotesi di una data per la consacrazione di un vescovo veniva sempre più spinta in avanti, e Monsignore non era certo che per il Natale di quell’anno, se avesse reiterato la firma su un protocollo, avrebbe ottenuto uno o più vescovi. Alla fine, la decisione conclusiva di Monsignore fu annunciata: “Provvederò io stesso alle consacrazioni episcopali”. E la data fu annunciata: 30 giugno 1988. Questa notizia, evidentemente, non piacque affatto a Roma, che, lungi dall’essersi “liberata” così del problema, temeva fortemente che l’opposizione interna del mondo tradizionalista, con dei nuovi vescovi che assicurassero la successione a Lefebvre, sarebbe continuata anche dopo la morte del prelato, e questa era di certo una nota stonata, dato che, come ebbe ad affermare lo stesso Mons. Lefebvre nel settembre ’88, intenzione di Ratzinger e della S. Sede non era certo quella di favorire la Tradizione accordando dei privilegi, ma bensì di tendere una vera trappola “ingabbiandoli” nel loro universo modernista (Conferenza di Mons. Lefebvre riportata nella rivista del Distretto di Francia Fideliter, n° 66 (Settembre – ottobre 1988), p. 12-14).
Checché ne fosse, comunque, alla vigilia delle consacrazioni Monsignore ricevette una visita di un inviato dalla Nunziatura di Berna che volle, in extremis, farlo recedere dal proposito. Nulla da fare, il dado era tratto e l’Arcivescovo non cedette. L’indomani mattina, migliaia di fedeli e centinaia di sacerdoti, riuniti nella prateria di Ecône dinanzi al celebre tendone, assistettero alla operazione sopravvivenza della Fraternità; sopravvivenza che fu anche, diciamolo serenamente, quella della Messa di sempre, della Tradizione, e, aggiungiamo senza scrupoli, il futuro ci darà ragione, della Santa Chiesa. Che, da quel mattino del 30 giugno ’88, aveva ormai quattro nuovi vescovi, le Loro Eccellenze Fellay, Tissier de Mallerais, de Galarreta, Williamson. L’indomani mattina, come previsto, l’ufficio stampa della Santa Sede dichiarò che Mons. Lefebvre e i suoi quattro nuovi vescovi erano incorsi ipso facto nella scomunica latae sententiae prevista dal codice di diritto canonico; il quale prevede anche che non si incorre in nessuna sanzione allorché si agisce, in questo come in tutti i casi previsti dai canoni, per ragioni di grave necessità anche solo presunta; questo infatti è il motivo canonico per cui la Fraternità ha sempre rigettato queste scomuniche come invalide, allorché il motivo teologico, più importante ancora, risiede nello stesso stato di necessità di salvaguardare il sacerdozio cattolico minacciato dal modernismo. Ma le manovre di Roma non si fermarono qui, e un’altra barriera venne innalzata allo scopo (mai raggiunto) di soffocare la presunta rivolta ed isolare Mons. Lefebvre: il 2 luglio, il giorno ancora successivo, il papa Giovanni Paolo II istituì la commissione Ecclesia Dei con un Motu proprio, per riunire sacerdoti e fedeli che volessero mantenere le tradizioni liturgiche antiche pur rimanendo “in comunione” con la S. Sede: fu, in pratica, la nascita della Fraternità San Pietro. Poi una cappa di silenzio scese sulla spinosa questione, e i rapporti tra la Fraternità e la S. Sede, com’era logico, s’interruppero del tutto. Il vescovo definito da Roma “scismatico” morì il 25 marzo 1991, mentre la congregazione da lui fondata continuava a svilupparsi nel mondo intero; per diversi anni, con la Fraternità guidata da padre Franz Schmitberger e poi da Mons. Fellay, non ci furono praticamente più rapporti ufficiali tra le due parti, fino ad arrivare all’anno giubilare del 2000.
La ripresa dei colloqui e le proposte canoniche (2000 – 2018)
In occasione del Giubileo, dopo ben due anni di negoziati, la Fraternità riuscì ad ottenere di poter pregare con i fedeli accorsi da tutte le parti del mondo nella Basilica di San Pietro; fu questa una bella occasione di dimostrare al mondo l’attaccamento della congregazione e del mondo tradizionalista alla sede di Pietro, sulle tracce della “romanità” tanto voluta dal Fondatore. Mons. Fellay, Superiore Generale dal 1994, guidò il pellegrinaggio nel cuore della cristianità. Ciò fu l’occasione per ricominciare gli scambi diplomatici con Roma, rappresentata questa volta dal Card. Castrillon Hoyos, responsabile dell’Ecclesia Dei; riassumendo i circa quattro anni di relazioni, nulla di fatto si mosse, e il riconoscimento giuridico della Fraternità “all’interno della Chiesa” veniva sempre subordinato all’accettazione del Concilio Vaticano II, vero nodo della questione da sempre. Nel 2005, quel Joseph Ratzinger che aveva contribuito in prima persona alla scomunica di Lefebvre, salì al soglio ponti ficio, e accettò di incontrare Mons. Fellay nell’agosto di quell’anno probabilmente auspicando, come ebbe a dire qualche anno prima in un suo libro, che «[…]si chiuda la ferita aperta con il movimento dei lefebvriani». Qualcosa, certo, il papa tedesco lo auspicava davvero, se il 7 luglio promulgò il celebre Motu proprio Summorum Pontificum con il quale liberalizzava in parte la Messa antica (Sfatiamo qui il mito della bontà intrinseca del Summorum Pontificum come atto di piena adesione del Papa alla Tradizione. La soddisfazione iniziale nel vedere finalmente riconosciuta la libertà alla Messa antica viene meno non appena si legge la Lettera del Papa ai vescovi del mondo datata lo stesso 7 luglio: vi si afferma che, in fondo, aderire al rito antico della Messa è la stessa cosa che aderire al nuovo perché entrambi sono due espressioni della stessa lex credendi; inoltre, condizione indispensabile per poterla celebrare è, paradossalmente, quella di riconoscere la bontà del Novus Ordo («Ovviamente per vivere la piena comunione anche i sacerdoti delle Comunità aderenti all’uso antico non possono, in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi» si legge nel testo della lettera). In pratica, gli unici a non poter davvero celebrare questa Messa sarebbero quei sacerdoti che lo farebbero per un’autentica motivazione dottrinale, e cioè il rifiuto stesso del Novus Ordo: per esempio, i sacerdoti della Fraternità San Pio X…), definita “mai abrogata”, pur ritenendola forma straordinaria rispetto a quella ordinaria che, va da sé, era il Novus ordo Missae. Il percorso di riavvicinamento, però, in qualche modo era in atto, e la necessità di entrare per la prima volta in un ufficiale dibattito teologico con la Santa Sede aveva due presupposti, per richiesta esplicita dei superiori della Fraternità: la libertà per la Messa di sempre (ottenuta, sebbene nel modo zoppicante appena enunciato, con il Summorum Pontificum) e l’eliminazione delle sanzioni canoniche che pesavano da anni sulla congregazione. Anche questo fu concesso, e anche questo in un modo non del tutto soddisfacente: il 21 gennaio del 2009, infatti, una lettera del Prefetto della Congregazione dei Vescovi rimetteva le scomuniche ai quattro vescovi della Fraternità, facendone cessare gli effetti giuridici, pur auspicando (in maniera canonicamente contradditoria) «la realizzazione della piena comunione con la Chiesa di tutta la Fraternità San Pio X». Checché ne sia, dopo la breve parentesi del ben noto “caso Williamson”, iniziarono i tanto attesi colloqui dottrinali tra le due parti: per la Fraternità San Pio X, la squadra era composta da Mons. de Galarreta, i padri de Jorna, Gleize, e de La Roque; per la S. Sede, vi erano Mons. Guido Pozzo, i padri Charles Morerod, Ocariz e Becker. I colloqui durarono, con incontri bimestrali, circa due anni, al termine dei quali comincerà la lunga serie di scambi di preamboli dottrinali e proposte di soluzioni canoniche, rinviate per modifiche da una parte e dall’altra fino al 2017; ma, in sostanza, la questione dottrinale si risolse in un nulla di fatto, nel senso che, una volta espresse le reciproche posizioni, ci si rese conto “ufficialmente” che tali posizioni erano e sono inconciliabili: da una parte, la FSSPX afferma che lo spirito generale del Concilio Vaticano II, nonché diversi punti in particolare, sono contrari alla Fede cattolica espressa nel Magistero perenne; dall’altra, la Santa Sede afferma che, essendo l’assise conciliare in qualche modo espressione del Magistero della Chiesa, non può errare, e che quindi non può esserci, per principio, alcuna contrarietà con la Fede, né c’è di fatto. Come si vede, ciò è un punto di non ritorno. Sul piano della Dottrina, la questione era ferma lì; ma i colloqui andarono avanti, e ci si concentrò soprattutto su delle bozze di riconoscimento canonico per la Fraternità San Pio X. Troppo lungo sarebbe percorrere la storia di questi documenti, ma basterà dire che la cosa continuò fino a tutto il 2012, anno in cui si arrivò a un passo da detto riconoscimento. Il testo su cui si lavorava nel mese di aprile sembrava poter mettere d’accordo ambe le parti, ma questa volta fu papa Ratzinger a bloccare le discussioni su un testo già di per sé problematico, in particolar modo relativamente alla questione della libertà religiosa; per il pontefice in ogni caso non era ancora abbastanza ed era necessaria l’accettazione dell’intero Concilio Vaticano II, argomento irricevibile per la Fraternità. La discussione, ancora una volta, si arenò. L’anno 2013 fu quello della elezione di papa Francesco al soglio pontificio; un evento, questo, che sembrava dover far cessare definitivamente ogni prospettiva di riconoscimento canonico. Invece, sorprendentemente, il Papa non interruppe i rapporti con la Fraternità, ma anzi, considerandola forse come una “periferia esistenziale” (come ebbe a ipotizzare mons. Fellay) non disdegnò di incontrare personalmente i superiori della Fraternità, e a far proseguire benché in maniera informale i colloqui con la commissione Ecclesia Dei. Due grandi eventi sembrarono tra l’altro far procedere le cose nella direzione di un riconoscimento canonico definitivo: nel 2015, all’occasione dell’indizione del Giubileo della misericordia, il papa concesse a tutti i sacerdoti della Fraternità San Pio X la possibilità di assolvere validamente e lecitamente i fedeli che ad essa si rivolgessero (Lettera del Santo Padre Francesco al Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione all’approssimarsi del Giubileo Straordinario della Misericordia, 21 settembre 2015) - (cosa che, a causa del grave stato di necessità generale, la Fraternità non ha mai messo in dubbio che si potesse fare, come di fatto ha sempre agito amministrando tale sacramento senza alcun limite). Il secondo evento fu la concessione alla stessa congregazione della possibilità di essere delegati dall’autorità diocesana alla celebrazione dei matrimoni (Lettera della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei” agli Ordinari delle Conferenze Episcopali interessate ai permessi per la celebrazione dei matrimoni dei fedeli della Fraternità San Pio X, 27 marzo 2017): anche qui, in ragione della necessità grave la Fraternità ha per anni amministrato comunque il sacramento del matrimonio. Giova tuttavia dire che, dal momento che accettare tale concessione non mette minimamente in dubbio la professione di Fede (È falsa l’argomentazione di chi vede nell’accettazione di questo documento una adesione al nuovo Codice di Diritto canonico o addi_ rittura al Vaticano II: la Santa Sede non concede alla FSSPX alcuna giurisdizione ma soltanto la delega ad assistere ai matrimoni, che è ben diverso), la possibilità di ricevere la delega per l’assistenza ai matrimoni costituisce un vantaggio, oggi, per i fedeli della FSSPX. Giova però adesso fare una precisazione: si è parlato senza troppe distinzioni di Fraternità San Pio X e di Santa Sede, ma, se da un lato, come è logico supporre, non ci fu sempre piena unità di intenti tra i membri della congregazione di mons. Lefebvre (la questione del riconoscimento canonico sollevò non poche perplessità e finanche tensioni tra sacerdoti membri e fedeli) non bisogna credere che Roma fosse un monolite, che ci fosse nella Santa Sede un’assoluta concordanza di vedute nel trattare con la FSSPX. Diverse anime, conservatori e progressisti, divisioni interne tra gli stessi conservatori hanno reso quantomeno difficile il lavoro alla Casa generalizia della Fraternità: molto spesso non si sapeva realmente con chi si avesse a che fare. La prova finale di questa dimensione si ebbe nella primavera del 2017: allorché le proposte di un riconoscimento canonico continuavano ad accumularsi sui rispettivi tavoli e ad essere puntualmente discusse, l’intervento del cardinal Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, sciolse ogni dubbio. Una sua lettera a monsignor Fellay inviata nel mese di maggio conteneva la seguente alternativa: o la Fraternità San Pio X avrebbe riconosciuto la piena legittimità del Novus Ordo Missae, nonché tutti gli insegnamenti del Concilio Vaticano II, oppure ogni tipo di riconoscimento canonico sarebbe stato definitivamente e categoricamente escluso. Immediatamente dai corridoi dei sacri palazzi qualche prelato si affrettò ad informare oralmente i superiori della Fraternità che quella lettera era “carta straccia”, e non era quindi degna di considerazione; qualcuno volle credere a queste voci di corridoio contro l’evidenza però del fatto che la voce del cardinal Müller (e non solo la voce, dato che si trattava di una lettera scritta e firmata) è in qualche modo la voce stessa del papa. Dunque ufficialmente Roma aveva parlato: o il Concilio, o niente. Come nell’88. Come nel ‘76. Del resto, monsignor Fellay considerò quest’atto un “ritorno alla casella di partenza”, e per un po’ non se ne parlò più. L’estate del 2018 vide, con il Capitolo generale, il cambio di superiori nella Fraternità San Pio X: don Davide Pagliarani fu eletto Superiore Generale, con i due assistenti Mons. de Galarreta e padre Bouchacourt. Già dal novembre di quell’anno i nuovi superiori incontrarono il cardinal Ladaria, nuovo prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (succeduto nel frattempo a Müller); risultato di quell’incontro fu il comunicato di cui abbiamo dato un estratto all’inizio di questo articolo.
Conclusioni
La storia della Fraternità San Pio X, abbiamo detto all’inizio, è la storia dei suoi incontri con la Santa Sede; potremmo però aggiungere che è la storia della sua fermezza dottrinale, della sua costanza nel seguire la linea dettata dal Fondatore e cioè quella della fedeltà assoluta al Magistero della Chiesa di sempre e di rifiuto del magistero nuovo della chiesa conciliare che, a dire il vero, non può essere considerato un vero magistero. Ancora una volta, il problema, come ai tempi di monsignor Lefebvre così oggi nel 2020, era e rimarrà dottrinale. La Provvidenza, si diceva all’inizio, ha guidato la nostra congregazione per 50 anni e, lo speriamo, continuerà a farlo senza abbandonarla. Come era abitudine del suo Fondatore, la Fraternità andrà a Roma ogni volta che essa la chiamerà: ma vi andrà soprattutto per testimoniare la Fede, conscia del fatto che è questa la sua missione, costi pure le sanzioni canoniche, costi pure un apparente isolamento nel panorama ecclesiale; per una autentica professione pubblica della Fede cattolica di sempre essa è disposta a qualunque sacrificio.
Don Gabriele D'Avino (Fonte: rivista La Tradizione Cattolica n.2/2020)