Alla fine del suo Vangelo l'apostolo S. Giovanni dice: «Se si volessero riferire ad una ad una le molte altre cose fatte da Gesù, il mondo stesso, credo, non potrebbe contenere i libri che ne sarebbero scritti» (Joan. XXI, 25).
Al momento di iniziare la contemplazione della vita pubblica di nostro Signore, dobbiamo ripetere lo stesso pensiero. Se volessimo commentare una ad una ciascuna delle sue parole, considerare ciascuno dei suoi atti, spiegare ciascuno dei suoi gesti, l'intera nostra esistenza non basterebbe.
Questa contemplazione costituirebbe indubbiamente una soavissima occupazione per le anime nostre. Non potendo soffermarci su ogni pagina del Vangelo, studieremo soltanto di questo periodo della vita di Gesù alcuni tratti caratteristici; quanto basti per ammirare sino a qual punto risplendano la sapienza e la misericordia eterne nei misteri dell'Incarnazione e della nostra Redenzione.
Vedremo anzitutto in che modo Gesù Cristo proclami e stabilisca la divinità della sua missione e della sua persona per dare una base alla nostra fede; studieremo poi con quale infaticabile condiscendenza della sua umanità verso tutte le forme dell'umana miseria, riveli al mondo le profondità e le ricchezze dell'infinita bontà; la quale rivelazione assumerà, per effetto del contrasto, tutto il suo rilievo, se considereremo l'atteggiamento pieno di giustizia che tiene nostro Signore contro l'orgoglio dei Farisei.
Sono questi, tra mille altri, tre aspetti della vita pubblica di Gesù sui quali possono soffermarsi le anime nostre per attingervi grazie di luce e alimenti di vita.
I. Prove con le quali Cristo dimostra la sua divinità.
Al battesimo di Gesù, che segna l'inizio della sua vita pubblica, abbiamo inteso il Padre mettere sul trono il Cristo in qualità di «suo Figlio diletto» (Matth. III, 17; Marc. I, 11; Luc. III, 22). L'insegnamento di Gesù nei tre anni del suo pubblico ministero non è che il continuo commento di questa testimonianza. Noi vedremo che Cristo si manifesta, negli atti e nelle parole, non come Figlio adottivo di Dio, o come un eletto scelto per adempire una missione speciale presso il suo popolo, come lo erano stati i semplici profeti, ma come il vero Figlio di Dio, figlio per natura e in possesso perciò delle prerogative divine, dei diritti assoluti dell'essere sovrano, e perciò in diritto di reclamare da noi la fede nella divinità della sua opera e della sua persona.
Quando leggiamo il Vangelo, osserviamo che Cristo parla ed opera non solo come un uomo simile a noi, ma anche come Dio e superiore ad ogni creatura. Osservate: egli si dichiara più grande di Giovanni, di Salomone, di Mosè; (Matth. XII, 41-42; Luc. Xl, 31-32) se, come uomo, per la sua nascita da Maria è il Figlio di David, ne è anche il «Signore, assiso alla destra di Dio» (Cf. Ps. CIX, 1) e partecipe della sua eterna potenza e della sua gloria infinita. Parimenti si dichiara Legislatore supremo al modo stesso di Dio. Come Dio dava la Legge a Mosè, così egli stabilisce il codice del Vangelo: «Dio disse agli antichi... e io dico a voi... (Matth. V, 22, 28, 32, 34, 39, 40). E' la formula che riappare in tutto il sermone della montagna. Egli si manifesta padrone della Legge in modo che vi deroga di propria autorità, quando gli piace, con piena indipendenza, come colui che l'ha istituita e ne è perciò il sovrano padrone.
Tale potere è illimitato. Gesù rimette i peccati, privilegio di cui Dio solo dispone, perché egli solo viene offeso dal peccato. «Abbi fiducia, i tuoi peccati ti sono rimessi), dice al paralitico che gli viene presentato: i Farisei scandalizzati di udire un uomo parlare casi, dicono dentro di sé: «Chi può rimettere i peccati se non Dio?». Ma Gesù legge nei loro cuori i più segreti pensieri e per provare, a coloro che glielo contestano, che possiede questo potere divino non per delegazione, ma a titolo proprio e personale, compie un miracolo: «Affinché voi sappiate che il Figlio dell'uomo può assolvere i peccati, alzati, dice al paralitico, prendi il tuo letto e cammina» (Ibid. IX, 2-4,6; Marc. II, 5-7, 9; Luc. V, 20-22, 24).
Questo esempio è caratteristico: Gesù Cristo opera i suoi miracoli di propria autorità, di per se stesso. Ad eccezione del miracolo della risurrezione di Lazzaro, prima del quale domanda a suo Padre che il prodigio che sta per compiere abbia ad illuminare le anime che ne saranno testimoni, egli non prega mai prima di manifestare la sua potenza, come invece usavano i profeti, ma con una parola, con un gesto, con un solo atto della sua volontà, guarisce gli zoppi, fa camminare i paralitici, moltiplica i pani, calma le onde in tempesta, scaccia i demoni, risuscita i morti.
Infine il suo potere è così grande, che egli verrà sulle nubi a giudicare ogni creatura; «ogni potere è stato a lui conferito dal Padre suo in terra e nel cielo», (Cf. Matth. XXVIII, 18) al modo stesso del Padre, promette «la vita eterna a coloro che lo seguono» (Ibid. XIX, 28-29). Tali parole e tali atti ci rivelano in Gesù l'eguale di Dio, partecipe del potere supremo della divinità delle sue prerogative essenziali, della sua infinita dignità.
Noi possediamo testimonianze più esplicite. Voi conoscete l'episodio nel quale Pietro confessa la sua fede nella divinità del Maestro. «Beato te, o Simone figlio di Giona», gli dice subito subito Gesù, perché non sei giunto alla conoscenza di questa verità seguendo i tuoi lumi naturali, ma perché te lo ha rivelato il Padre mio celeste». E per far rilevare la grandezza di questo atto di fede, il Salvatore promette a Pietro che farà di lui il fondamento della sua Chiesa (Ibid. XVI, 17-18). Al tempo della sua passione, davanti ai giudici, con autorità ancora maggiore, Gesù proclama la sua divinità. Nella sua qualità di presidente del Sinedrio, Caifa dice al Signore: «Io ti scongiuro nel nome del Dio vivente di dirmi se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio». «Tu l'hai detto, risponde Gesù; e voi vedrete ormai il Figlio dell'uomo assiso alla destra di Dio onnipotente venire sulle nubi del cielo». Voi sapete che «il sedersi alla destra di Dio» era considerato dai Giudei come una prerogativa divina e che l'arrogarsi questa prerogativa costituiva una bestemmia da punirsi con la morte. Perciò appena Caifa ebbe intesa la risposta di Gesù, si strappa la veste in segno di protesta ed esclama: «Ha bestemmiato: che bisogno c'è ancora di testimoni?». E tutti gli altri risposero: «E' degno di morte» (Ibid. XXVI, 63-66; Marc. XIV, 61-64). E anziché ritrattarsi, Cristo ha accettato la sua condanna.
Ma è sopratutto nel Vangelo di S. Giovanni (Vedi anche altre simili prove nelle messe di Quaresima) che cogliamo sulle labbra di Gesù testimonianze che stabiliscono tra lui e suo Padre una tale unione, che questa non si può spiegare che mediante la natura divina, che Gesù possiede in modo indivisibile col Padre e col loro comune Spirito.
Voi osserverete che, tranne quando insegna ai suoi discepoli il modo di pregare, Gesù Cristo non dice mai: «nostro Padre»; ma sempre, parlando delle sue relazioni con Dio, dice: «Il Padre, mio Padre». Nostro Signore ha ben cura di far notare la differenza essenziale che a questo proposito intercede tra lui e gli altri uomini: egli è Figlio di Dio per natura, mentre gli altri uomini non lo sono che per adozione. Egli ha col Padre suo relazioni personali di carattere singolare che non possono derivare che dalla sua origine divina. Un giorno diceva davanti ai suoi discepoli: «Io ti rendo grazie, o Padre, perché hai nascoste queste cose ai sapienti, e le hai invece rivelate ai pargoli. Così è, Padre, perché così a te piacque. Tutto è stato dato a me dal Padre mio: e nessuno conosce il Figlio, tranne il Padre: e nessuno conosce il Padre, tranne il Figlio e colui al quale il Figlio lo avrà voluto rivelare» (Matth. XI, 25-27). Con tali parole, il Verbo Incarnato ci mostra chiaramente che tra lui e il Padre vi è una eguaglianza perfetta di conoscenza per noi incomprensibile.
Questo figlio che è Gesù è cosi grande e la sua figliazione così ineffabile che solo il Padre, che è Dio, può conoscerlo; e il Padre è di una tale maestà e la sua paternità è un mistero cosi sublime che solo il Figlio può sapere che cosa è il Padre; e questa conoscenza sorpassa talmente ogni scienza creata che nessun uomo vi può partecipare se non gli viene rivelata. Voi potete constatare in qual modo nostro Signore stabilisce la sua unione divina col Padre. Ma questa unione non si limita alla conoscenza; si estende anche a tutte le operazioni compiute al di fuori della divinità.
Ecco che Gesù guarisce un paralitico dicendo gli di portarsi con sé il suo lettuccio; ed era giorno di riposo. Tosto i Giudei scandalizzati rimproverano il Salvatore di non osservare il Sabato. Che cosa risponde nostro Signore? Per dimostrare che è, al modo stesso del Padre, il padrone supremo della Legge, replica ai Farisei: «Il Padre mio opera fino al presente, e anch'io opero». Gli astanti comprendono così bene che, con queste parole, pretende di essere Dio, che cercano di farlo morire; perché, «non pago di violare il giorno di Sabato, diceva che Dio era suo Padre, facendosi perciò uguale a lui». Anziché contraddirli, nostro Signore conferma la loro interpretazione: «In verità, in verità vi dico: il Figlio non può far nulla da sé che non abbia visto fare dal Padre; infatti quanto fa lui, lo fa pure il Figlio. Perché il Padre ama il Figlio e gli mostra quanto egli stesso fa» (Joan. V, 16-20). Leggete nel Vangelo il seguito e lo sviluppo di queste parole: voi vedrete con quale autorità Gesù Cristo si proclama in tutto eguale al Padre e Dio con lui e come lui.
Tutto il discorso dopo la Cena e tutta la preghiera sacerdotale di Gesù in quel momento solenne sono pieni di queste affermazioni attestanti che è veramente il Figlio di Dio, avendo la stessa natura divina, e possedendo gli stessi diritti sovrani e godendo la stessa gloria eterna (Ibid. X, 30).
II. In qual modo le stesse prove siano il fondamento della nostra fede in Gesù Cristo.
Se ora indaghiamo perché Cristo attesti cosi la sua divinità, vedremo che lo fa per stabilire la nostra fede. E' una verità che già conoscete ed è così importante che non dobbiamo cessare di contemplarla; perché tutta la nostra vita soprannaturale e tutta la nostra santità hanno per fondamento la fede, la quale a sua volta riposa sulle testimonianze che dimostrano la divinità di Gesù Cristo.
S. Paolo ci esorta a «considerare nostro Signore come l'apostolo e il pontefice della nostra fede» (Hebr. III, 1). «Apostolo» significa colui che è mandato per adempire una missione, e S. Paolo dice che Cristo è l'apostolo della nostra fede. In che modo?
Il Verbo Incarnato è, come si esprime la Chiesa (Introito della 3a messa di Natale), «l'Inviato del consiglio supremo) che vive negli splendori della sua divinità. E perché viene inviato? Per rivelare al mondo «il mistero nascosto nei secoli in Dio», il mistero della salute del mondo per mezzo di un Uomo-Dio. «Tale la fondamentale verità cui Cristo deve rendere testimonianza» (Joan. XVIII, 37). La grande missione di Gesù, specialmente nella sua vita pubblica, è di manifestare la sua divinità al mondo (Ibid. I, 18). Tutto il suo insegnamento, tutta la sua condotta, tutti i suoi miracoli concorrono a determinarne la convinzione nelle anime dei suoi uditori. Guardate, per esempio, quanto avviene alla tomba di Lazzaro. Prima di risuscitare il suo amico, Cristo alza gli occhi al cielo: «O Padre, esclama, vi rendo grazie perché mi avete sempre esaudito, ma ho detto questo per la folla che mi circonda affinché credano che voi mi avete mandato» (Ibid. XI, 41-42).
Senza dubbio nostro Signore insinua a poco a poco questa verità; per non urtare di fronte le idee monoteistiche dei Giudei, si rivela gradatamente; ma con ammirabile sapienza fa tutto convergere verso questa manifestazione della sua figliazione divina. Al termine della sua vita, quando le anime rette sono abbastanza preparate, non esita a confessare la sua divinità davanti ai Giudei con pericolo della vita. Gesù è il re dei martiri, il re di tutti quelli che con l'effusione del loro sangue hanno confessata la loro fede nella sua divinità; per il primo è stato immolato per essersi proclamato il Figlio unico di Dio.
Nella sua ultima preghiera rende conto, a così dire, a suo Padre, della sua missione, e tutto riassume in queste parole: «Padre, ho compiuta l'opera che mi avevi affidata». E quale ne è il frutto? «Ed essi, i miei discepoli, hanno accettato, dal canto loro, la mia testimonianza; essi hanno saputo con certezza che io vengo da voi ed hanno creduto che voi mi avete inviato» (Cfr. Joan. XVII, 4, 8).
Così questa fede nella divinità di suo Figlio, è, secondo la parola stessa di Gesù, l'opera per eccellenza che Dio reclama da noi (Ibid. VI, 29). E' questa fede che apporta a molti ammalati la guarigione (Matth. IX, 29; cf. Marc. V, 34; X, 52; Luc. XVII, 19); alla Maddalena il perdono dei suoi peccati (Luc. VII, 50). E' questa fede che merita a Pietro di essere costituito fondamento indistruttibile della Chiesa; che rende gli Apostoli. accetti al Padre e fa di essi l'oggetto dell'amor suo (Joan. XVI, 27). E' questa fede altresì che ci fa «nascere figliuoli di Dio» (Ibid. I, 12); che fa zampillare nei nostri cuori le sorgenti divine della grazia dello Spirito Santo» (Ibid. VII, 38); che «dissipa le tenebre della morte» (Ibid. XII, 46); che ci apporta la vita divina, perché Dio ha amato il mondo fino a dar gli il Figlio suo unigenito, affinché tutti coloro che credono in lui non periscano, ma abbiano la vita eterna» (Ibid. III, 15). Si deve alla mancanza di questa fede se i nemici di Gesù periranno: «Se non fossi venuto e non avessi loro parlato, sarebbero senza colpa; ma adesso il loro peccato è senza scusa; (Ibid. XV, 22) pertanto «chi non crede in Gesù, Figlio unigenito di Dio, è fin d'ora giudicato e condannato» (Ibid. III, 18).
Voi vedete come tutto si riduce alla fede in Gesù Cristo, Figlio eterno di Dio; essa costituisce la base di tutta la nostra vita spirituale, la radice profonda di ogni nostra giustificazione, la condizione indispensabile di ogni progresso, il mezzo sicuro per arrivare sulla cima di ogni santità. Prostriamoci ai piedi di Gesù e diciamogli: O Cristo Gesù, Verbo Incarnato, disceso dal cielo «per rivelarci i segreti che, come Figlio unigenito di Dio, contemplate sempre nel seno del Padre», io credo e confesso che «voi siete Dio come lui, eguale a lui»; credo in voi; credo «nelle opere vostre»; credo nella vostra persona; credo «che voi siete uscito da Dio»; «che voi siete uno col Padre»; che «colui che vede voi vede anche lui»; credo che «voi siete la risurrezione e la vita». Lo credo e credendolo vi adoro e intendo consacrare tutto l'essere mio al servizio vostro, tutta la mia attività e tutta la vita mia. Credo in voi, o Cristo Gesù, ma accrescete la mia fede!
III. Gli atti umani del Verbo Incarnato rivelano le perfezioni divine; la bontà umana in Cristo, rivelazione dell'amore eterno.
Se Cristo rivela al mondo il dogma della sua figliazione eterna, è per mezzo della sua umanità che ci manifesta le perfezioni della sua natura divina. Ancorché sia il vero Figlio di Dio, ama chiamarsi il «Figlio dell'uomo»; egli si dà questo titolo anche nelle più solenni circostanze, quando cioè rivendica con maggiore autorità le prerogative dell'Essere divino. Ogni volta infatti che ci troviamo a contatto con lui, ci troviamo alla presenza di questo mistero sublime: l'unione delle due nature divina ed umana in una sola e medesima persona, senza mescolanza né confusione delle nature, senza. divisione della persona. E' il mistero iniziale che dobbiamo avere sempre davanti agli occhi quando contempliamo nostro Signore. Ciascuno dei suoi misteri mette in rilievo o l'unità della sua adorabile persona, o la verità della sua natura divina, o la realtà della sua umana condizione. Uno degli aspetti più profondi e più commoventi dell'economia dell'Incarnazione è la manifestazione delle perfezioni divine fatta agli uomini mediante la natura umana. Gli attributi di Dio, le sue eterne perfezioni, sono per noi incomprensibili quaggiù, trascendono di troppo la nostra scienza; ma, facendosi uomo, il Verbo Incarnato rivela alle anime più semplici, con le parole cadute dalle sue labbra umane, con gli atti compiuti nella sua umana natura, le insondabili perfezioni della divinità. Facendole conoscere alle anime nostre per mezzo di azioni sensibili, ci rapisce e ci attira a sé (Prefazio della Natività). E' specialmente nella vita pubblica di Gesù che si manifesta e si compie questa economia piena di misericordia e di sapienza.
Tra tutte le perfezioni divine, l'amore è certamente quello che il Verbo Incarnato si compiace maggiormente di rivelarci.
Il cuore umano ha bisogno di un amore tangibile per intravedere l'amore infinito di gran lunga più profondo, ma superiore ad ogni nostra cognizione. Niente infatti affascina tanto il nostro povero cuore quanto contemplare Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, che manifesta, con atti umani, l'eterna bontà. Quando lo vediamo effondere attorno a sé, a piene mani, tesori inesauribili di amore, ricchezze inesauste di misericordia, possiamo avere una piccola idea di quell'oceano della divina bontà donde la sua umanità santa attinge per noi.
Soffermiamoci su alcuni punti; noteremo con quale condiscendenza, che talvolta ci riempie di stupore, nostro Signore si abbassi verso la miseria umana, in tutte le sue forme, compreso il peccato. E non dimenticate mai che anche quando si abbassa verso di noi, rimane sempre il Figlio di Dio, Dio stesso, l'Essere onnipotente, la Sapienza infinita che, tutto vedendo nella verità, niente opera che non sia assolutamente perfetto. Questo dona senza dubbio alle parole di bontà che proferisce, agli atti di bontà che compie, un valore inestimabile che li eleva infinitamente; e questo, sopratutto, finisce per conquistare le nostre anime, manifestandoci le profonde: attrattive del cuore del nostro Gesù, del nostro Dio.
Voi conoscete certo il primo miracolo della vita pubblica di Gesù: l'acqua cambiata in vino alle nozze di Cana, in seguito alla preghiera di sua madre (Joan. II, 1-11). Per i nostri cuori umani, quale inattesa rivelazione delle tenerezze e delicatezze divine! Asceti eccessivamente austeri sarebbero rimasti scandalizzati nel veder domandare od operare un miracolo per nascondere l'indigenza di parenti poveri a un banchetto nuziale! Ed è proprio questo che la Vergine non ha affatto esitato a chiedere e Cristo a eseguire. Gesù si lascia commuovere al pensiero dell'imbarazzo in cui pubblicamente si sarebbero trovati quei poveretti, e per liberarli Gesù compie un grande miracolo. E quanto di umana bontà e di umile condiscendenza il suo cuore qui ci rivela non è che la manifestazione esteriore di una bontà più elevata, la divina bontà, in cui l'altra ha la propria sorgente: perché ciò che fa il Figlio, lo fa anche il Padre.
Poco tempo dopo, nella sinagoga di Nazareth, Gesù prende da Isaia, per farlo suo, il programma della sua opera di amore: «Lo Spirito del Signore è sopra di me, egli mi ha consacrato con la sua unzione perché porti la buona novella ai poveri; mi ha mandato a guarire coloro che hanno il cuore spezzato, ad annunziare agli schiavi la libertà, a restituire ai ciechi la luce, a liberare gli oppressi, e ad annunziare che il tempo della salute è venuto».
«Ciò che avete inteso, aggiungeva Gesù, comincia oggi stesso ad essere compiuto» (Luc. IV. 18-19, 21; cf. Is. LXI, 1).
Difatti il Salvatore si rivelava fin da allora a tutti come «un Re pieno di dolcezza e di bontà» (Matth. XXI, 5). Dovrei citare tutte le pagine del Vangelo per dimostrarvi come la miseria, la debolezza, l'infermità, il dolore hanno sempre il potere di commuoverlo e in modo così irresistibile che non può loro ricusar nulla: S. Luca rileva con cura che si sente «pieno di compassione» (Luc. VII, 13). I ciechi, i sordomuti, i paralitici, i lebbrosi si presentano davanti a lui e il Vangelo ci dice che «li guariva tutti» (Ibid. VI, 19). E li accoglie tutti con una dolcezza inesauribile, si lascia premere, assediare da tutte le parti, anche dopo il tramonto del sole; (Marc. I, 32-33) tanto che un giorno non potrà toccar cibo; (Ibid. III, 20) un'altra volta, sulle rive del lago di Tiberiade, è obbligato a montare su di una barca per liberarsi e poter così con più libertà distribuire il pane della parola divina; (Ibid. IV, 1-2) altrove la folla assiepa talmente la casa dove si trova, che per arrivare fino a lui un paralitico disteso sopra il letto, occorrerà farlo discendere attraverso una apertura praticata nel tetto (Ibid. II, 4).
Gli Apostoli erano spesso impazienti; e il divino Maestro ne prendeva occasione per mostrare la sua dolcezza. Un giorno vogliono allontanare da lui i fanciulli che gli vengono presentati e che giudicano importuni: «Lasciate questi piccoli fanciulli, dice loro Gesù, non impedite che vengano da me: poiché il regno dei cieli appartiene a quelli che loro rassomigliano». E si fermava per benedirli con la mano (Ibid. X, 13-14, 16). In un'altra circostanza i discepoli sdegnati perché Gesù non era stato ricevuto in una città samaritana, lo invitano con insistenza «a permettere che il fuoco del cielo piova sugli abitanti e li uccida».
E Gesù tosto risponde: «Voi non sapete di quale spirito siate! Il Figlio dell'uomo non è venuto per perdere gli uomini, ma per salvarli» (Luc. IX, 54-56).
Questo è così vero, che compie persino dei miracoli per far tornare i morti alla vita. Ecco che a Naim incontra una povera vedova in pianto che segue il cadavere del suo unico figlio. Gesù la vede, vede le sue lacrime, e il suo cuore profondamente commosso non può sopportare questo dolore. «O donna, non piangere!». E subito comanda alla morte di restituire la sua preda: «Giovanetto, ti dico, alzati!». Il giovanetto si alza e Gesù lo restituisce alla madre (Ibid. VII, 11-15).
Tutte queste manifestazioni della misericordia e della bontà di Gesù, che ci rivelano i sentimenti del suo cuore di uomo, toccano le fibre più riposte del nostro essere e ci rivelano, in modo comprensibile, l'amore infinito del nostro Dio. Quando vediamo Gesù piangere alla tomba di Lazzaro e udiamo i Giudei, testimoni di questo spettacolo, esclamare: «Guardate fino a che punto lo amava», (Joan. XI, 36) i nostri cuori comprendono questo linguaggio silenzioso delle lacrime umane di Cristo e penetriamo facilmente nel santuario dell'eterno amore che esse ci svelano (Ibid. XIV, 9).
Questo atteggiamento di Cristo come condanna le nostre durezze di cuore, le nostre aridità, le nostre indifferenze, le nostre impazienze, i nostri rancori, i nostri movimenti di collera e di vendetta, i nostri risentimenti verso i fratelli…! Troppo spesso dimentichiamo le parole del Signore: «Tutte le volte che vi siete mostrati misericordiosi con uno dei più piccoli dei miei fratelli, lo avete fatto a me» (Matth. XXV, 40).
O Gesù, che avete detto: «Imparate da me che sono dolce ed umile di cuore», rendete i nostri cuori simili al vostro; che a vostro esempio noi siamo misericordiosi «per ottenere noi stessi misericordia», ma sopratutto per diventare, imitandovi, «somiglianti al Padre nostro celeste!».
IV. Misericordioso atteggiamento di Cristo nei riguardi dei peccatori: il figliuol prodigo, la Samaritana, la Maddalena, la donna adultera.
Il peccato, una delle forme più spaventevoli dell'umana miseria, ha attirato specialmente il Cuore di Gesù. Se vi è cosa che singolarmente colpisce nella condotta di Gesù durante la sua vita pubblica, è la strana preferenza che manifesta per il suo ministero tra i peccatori.
I sacri scrittori ci dicono che «un gran numero di pubblicani (*Esattori al soldo dei Romani padroni della Giudea, reclutati negli infimi strati sociali, guardati con disprezzo e considerati quali ladri) e di peccatori si mettevano a tavola con Gesù e i suoi discepoli» (Matth. IX. 10; cf. Marc. II, 15; Luc. V, 29). Questo contegno gli era così abituale, che lo chiamavano «l'amico dei pubblicani e dei peccatori» (Matth. XI, 19; Luc. XI, 34). E quando i Farisei se ne mostrano scandalizzati, nonché negare il fatto, Gesù lo comprova, dandone la ragione profonda: «Non sono i sani ma i malati che hanno bisogno del medico». «Io non sono venuto a cercare i giusti, ma i peccatori» (Matth. IX, 12-13; Marc. II, 17; Luc. V, 31-32).
Nel grande piano della Provvidenza, Gesù è nostro fratello maggiore (Rom. VIII, 29). Ha assunto la nostra natura peccatrice nella nostra razza, santa però nella sua persona (Rom. VIII, 3). Sa che la maggior parte degli uomini soggiace al peccato e ha bisogno di perdono; che le anime schiave della colpa, lontane da Dio, nelle tenebre e nell'ombra di morte, non comprenderanno mai la rivelazione diretta del divino, e che non potranno essere attirate verso il Padre che attraverso le condiscendenze della santa umanità. Gran parte del suo insegnamento e della sua dottrina, un gran numero di atti di mansuetudine e di perdono verso i peccatori, tendono a far capire a queste povere anime qualche cosa delle profondità delle divine misericordie.
In una delle più belle parabole che voi conoscete, (*La Chiesa ci legge questa parabola nel sabato dopo la 2.a domenica di Quaresima) quella del figliuol prodigo, Gesù ci fa vedere il ritratto autentico del suo Padre celeste.
Essa ha tuttavia per scopo immediato, come chiaramente lo mostra il Vangelo, di spiegare le condiscendenze divine nel riguardo dei peccatori. Ci dice infatti S. Luca che «i Farisei mormoravano perché i pubblicani e i peccatori si avvicinavano a Gesù per ascoltarlo: Quest'uomo riceve i peccatori e mangia con loro ». «Allora» Gesù, per giustificare il suo modo di agire, «dice questa parabola» (Luc. XV, 1-3, 11).
Egli mostra innanzi tutto la straordinaria bontà del Padre che dimentica tutta !'ingratitudine, tutta la miseria morale del colpevole per non pensar che a una cosa: «che suo figlio era morto ed è risuscitato, era perduto e si è ora ritrovato; per cui conviene gioire ed apprestar subito un convito» (Ibid. 12).
Gesù Cristo avrebbe potuto concludere a questo punto l'esposizione della parabola, se avesse voluto far risaltare unicamente la misericordia del padre di famiglia verso il prodigo. La quale è, di fatto, così grande, che non ne possiamo concepire una maggiore; ne restiamo così impressionati, così stupiti che trattiene la nostra attenzione e perdiamo di vista la lezione che Gesù intendeva dare ai mormoratori, a coloro che rimproveravano il suo contegno verso i peccatori. Perché egli prosegue la parabola, raffigurandoci al vivo l'attitudine odiosa del figlio maggiore che si rifiuta di partecipare alla gioia comune, mettendosi a sedere al festino preparato per suo fratello.
Gesù intendeva far capire ai Farisei non solo come la loro condotta fosse dura e spregevole il loro scandalo, ma anche insegnar loro che egli, nostro fratello maggiore, anziché evitare il contatto coi suoi fratelli pentiti, i pubblicani e i peccatori, li ricerca e prende parte alle loro feste. Perché «il cielo proverà più gioia per la penitenza di un peccatore che per la costanza dei novantanove giusti, che non abbisognano di penitenza» (Ibid. 7).
La parabola del figliuol prodigo costituisce da sola una splendida rivelazione delle divine misericordie. Ma piacque a nostro Signore d'illustrare quest'insegnamento e sottolineare questa dottrina con atti di bontà che ci rapiscono e ci commuovono profondamente.
Voi conoscete il colloquio di Gesù con la Samaritana (Joan. IV, 5-29 Questo episodio si legge nel venerdì dopo la 33 domenica di Quaresima). Questo accadeva all'inizio della vita pubblica di Gesù. Nostro Signore si recava da Gerusalemme alla Galilea e, dovendo percorrere grandi distanze, era partito di buon mattino. Verso mezzogiorno era giunto presso Sichar, città della Samaria. Il santo Vangelo ci dice che «Gesù era affaticato». Era stanco come saremmo stati stanchi noi dopo aver fatta una lunga marcia. «E si mette a sedere sul margine del pozzo» di Giacobbe situato in quel luogo. Tutti gli atti del Verbo Incarnato rivestono qualcosa di attraente nella loro semplicità, che è l'effetto dell'assenza assoluta di ogni posa e di ogni ombra di affettazione: quantunque Dio, Gesù è sempre, se posso esprimermi così, assolutamente umano nel senso completo e nobile della parola: Perfectus Deus, perfectus homo (Simbolo attribuito a S. Atanasio). Riconosciamo in lui uno di noi.
Egli si siede dunque sul margine del pozzo, mentre i suoi discepoli vanno a provvedersi di viveri nella vicina città. Ma lui, a che scopo si era fermato in quel luogo? per concedersi unicamente un po' di riposo? per aspettare il ritorno dei suoi discepoli? No, egli cercava una pecorella smarrita, un'anima da salvare. Gesù era disceso dal cielo per riscattare le anime (I Tim. II, 6; cf. Matth. XX, 28; Marc. X, 45) Per trent'anni aveva dovuto comprimere la fiamma di quello zelo di anime che lo bruciava. Senza dubbio egli lavorava, soffriva, pregava per esse, ma non si presentava a loro. Ora era venuto il momento in cui il Padre voleva che desse principio al suo ministero esteriore in mezzo a loro ed alla predicazione delle verità ed alla rivelazione della sua missione. Nostro Signore andava a Sichar a salvare un'anima predestinata da tutta l'eternità.
Chi era quest'anima? Certamente, in quella località, si trovavano molte persone assai meno colpevoli della peccatrice che voleva salvare; eppure è proprio lei che aspetta; ne conosceva le sregolatezze e le vergogne, ed è a lei, a preferenza di ogni altra, che si manifesta.
Ecco che la peccatrice arriva, portando la sua brocca per attingere l'acqua alla fontana. Subito Cristo le rivolge la parola. Che cosa le dice? comincia a rimproverarle la sua cattiva condotta, a parlarle dei castighi che si merita per i suoi disordini? Affatto: un fariseo avrebbe parlato così, ma Gesù opera diversamente. Prende occasione dalle cose circostanti per impegnare conversazione, «Dammi da bere ». La donna, stupefatta, lo guarda riconoscendo l'interlocutore per un Giudeo. I Giudei disprezzavano i Samaritani e questi detestavano gli abitanti della Giudea: tra loro non esisteva «relazione alcuna». «Come mai mi domandi da bere?» dice a nostro Signore. E Gesù, nell'intento di svegliare in lei una santa curiosità, risponde: «Oh se conoscessi il dono di Dio!». «Se tu sapessi chi è colui che ti domanda da bere, tu stessa gli avresti fatta questa domanda ed egli ti avrebbe data dell'acqua viva».
Questa povera creatura, ingolfata nella vita dei sensi, non comprende nulla delle cose spirituali; si maraviglia sempre più e si domanda in che modo il suo interlocutore avrebbe potuto darle da bere non avendo mezzo alcuno per attingere acqua, e quale acqua potrebbe essere migliore di quella di questo pozzo, dove venivano a dissetarsi Giacobbe, i suoi figli e i suoi greggi. «Saresti tu più grande del nostro padre Giacobbe?» domanda a Gesù. E Gesù insiste sulla sua risposta: «Colui che berrà dell'acqua che io gli darò non avrà più sete; egli avrà in sé una sorgente d'acqua viva zampillante fino alla vita eterna». «O Signore, dammi di quest'acqua!» risponde la donna. Il Salvatore allora le fa comprendere ch'egli conosce la vita scorretta di lei. Questa peccatrice, che la grazia incomincia ad illuminare, si accorge di essere in presenza di uno che legge nel fondo dei cuori: Propheta es tu. E subito la sua anima ormai tocca, sale verso la luce. «Bisogna adorare Dio sul monte vicino ovvero a Gerusalemme?». Voi sapete che era questo tra i Giudei e i Samaritani un eterno argomento di disputa.
Gesù Cristo vede spuntare in quell'anima immersa nella corruzione, un barlume di buona volontà, quanto basta per accordarle una grazia maggiore; perché quando vede un'anima cercare il vero con sincerità e dirittura, le dona tosto la sua luce e si compiace di ricompensare questo desiderio di bene e di giustizia. Così egli farà a quest'anima una duplice rivelazione. Le insegna che «l'ora è venuta dei veri adoratori in ispirito e verità ricercati dal Padre»; si manifesta a lei «come il Messia mandato da Dio», rivelazione che a nessuno aveva fatta, neppure ai discepoli. Non è cosa notevole che queste due grandi rivelazioni siano state fatte ad una creatura di peccato che non aveva altro titolo, per essere l'oggetto di un tale privilegio, che il suo bisogno di salvezza e un po' di buona volontà?... Questa donna ritornò giustificata; aveva ricevuto la grazia della fede. «Abbandonando la brocca» andò a predicare il Messia che aveva incontrato; il suo primo atto è di far conoscere il dono divino che con tanta liberalità le era stato comunicato.
Frattanto i discepoli erano ormai tornati con le loro provviste che presentarono al Maestro. E Gesù che risponde?» «Io ho un nutrimento che voi non conoscete ed è di fare la volontà di colui che mi ha mandato» (Joan. IV, 31-32, 34). E qual è la volontà del Padre? «Che tutte le anime pervengano alla verità che conduce alla salute» (I Tim. II, 4).
Gesù Cristo lavora per questo; la volontà del Padre suo è che Gesù gli conduca le anime che il Padre vuole salvare, che mostri loro la via, riveli loro la verità e le conduca così alla vita. E' qui tutta l'opera di Gesù. La peccatrice di Sichar non aveva niente che la distinguesse dagli altri, se non la profondità della sua miseria; ma fu attirata a Cristo dal Padre; perciò il Salvatore la riceve, la illumina, la santifica, la trasforma e fa di lei un apostolo. Perché «la Volontà di colui che mi ha mandato è che non perda nessuno di coloro che mi ha dato, ma che li risusciti» alla grazia quaggiù, in attesa del «giorno ultimo» (Joan. VI, 37-39) quando li risusciterò per la gloria.
La Samaritana è una delle prime risuscitate alla grazia da Gesù; Maddalena ne è un'altra e quanto più gloriosa!
«In un borgo viveva una donna di pessima vita». Con queste parole comincia il Vangelo la sua storia: con l'attestazione dei suoi disordini (La liturgia ci fa leggere questo episodio il giovedì dopo la domenica di Passione). Perché la professione della Maddalena era di darsi al peccato, come la professione del soldato è di vivere sotto le armi e quella del politico di dirigere i destini dello Stato. Le sue dissolutezze erano pubbliche. Sette demoni, simbolo dell'abisso ove era sprofondata, abitavano in lei. Un giorno, Gesù è invitato in casa di Simone il Fariseo. Si è messo appena a tavola, che la peccatrice, recando un vaso di alabastro pieno di profumi, si precipita nella sala del banchetto. Avvicinandosi a Gesù «si getta ai suoi piedi, li bagna delle sue lacrime, li asciuga con i capelli della sua testa, li bacia e li asperge col suo profumo».
Da quando era entrata, il Fariseo, tutto scandalizzato, s'era detto dentro di sé: «Oh se egli sapesse chi è quella donna e di che specie, non tollererebbe certo ai suoi piedi una peccatrice!». «Certamente non è un profeta». Rispondendo (notate bene la parola respondens, perché il Fariseo non aveva detto niente a voce alta, ma Cristo risponde al suo pensiero intimo), Gesù gli propone la questione che sapete. Di due debitori insolvibili ai quali il ereditare condona i loro debiti, chi gli mostrerà più amore? Colui, risponde Simone, il cui debito era maggiore. Hai giudicato bene, replicò Gesù. Quindi rivolgendosi verso la Maddalena: «Vedi questa donna?» Questa donna, che è una peccatrice e che tu disprezzavi nel cuor tuo, «ha molto amato», come lo dimostra quanto ha fatto or ora: perciò «i suoi peccati le sono perdonati» (Luc. VII, 37-47). Maddalena la peccatrice è divenuta il trionfo della grazia di Gesù ed uno dei trofei più magnifici del suo sangue prezioso.
Questo compatimento usato da Gesù verso i peccatori è così generale, che sembra talvolta dimenticare i diritti della sua giustizia e della sua santità; i nemici di Gesù conoscevano così bene questo sentimento, che giungono fino a tendergli insidie su questo terreno.
Ecco che conducono dinanzi a Gesù una donna adultera (Noi leggiamo questo episodio nel sabato dopo la 3.a domenica di Quaresima). E' impossibile negare il delitto o attenuarne la gravità: il Vangelo ci dice che è stata sorpresa in flagrante delitto. La legge di Mosè ordinava la lapidazione. I Farisei, che conoscono a prova la bontà di Gesù, ritengono che assolverà questa donna, e lo metteranno in opposizione col loro legislatore: Tu ergo, quid dicis?
Ma, se Gesù è la stessa bontà, è anche la stessa sapienza. Prima non risponde nulla alla perversa domanda degli accusatori, ma, insistendo essi, dice: «Quegli di voi che è senza peccato scagli la prima pietra». Questa risposta sconcerta i suoi nemici, cui altro non resta che ritirarsi. Gesù rimane solo colla colpevole. Non restano così di fronte che una grande miseria e una grande misericordia. Ed ecco la misericordia piegarsi verso la miseria: «Donna, ove sono i tuoi accusatori? Nessuno ti ha condannato?». «Nessuno, Signore». «Neppure io ti condannerò; va e non voler più peccare» (Joan. VIII, 3-11).
La bontà di Gesù è parsa così eccessiva ad alcuni cristiani della Chiesa primitiva, che questo episodio fu soppresso in più d'un manoscritto dei primi secoli; ma esso è assolutamente autentico e la sua inserzione nel Vangelo è stata certamente voluta dallo Spirito Santo.
Tutti questi esempi della bontà del Cuor di Gesù non sono altro che la manifestazione di un amore più elevato: l'amore infinito del Padre celeste verso i poveri peccatori. Non dimentichiamo mai che è nostro dovere riconoscere in tutto ciò che Gesù fa come uomo una rivelazione di ciò che fa come Dio insieme al Padre ed allo Spirito Santo. Gesù accoglie i peccatori e perdona loro: è Dio stesso che, in forma umana, si piega verso di loro per accoglierli nel seno delle sue eterne misericordie.
V. La misericordia del Salvatore è la sorgente prima della nostra confidenza; in qual modo siffatta confidenza è avvalorata dalla penitenza.
La rivelazione delle divine misericordie fattaci attraverso Gesù, è la sorgente prima della nostra fiducia.
Giungono per tutti questi momenti di grazia in cui, nella luce divina, scorgiamo l'abisso delle nostre colpe, delle nostre miserie e del nostro niente; vedendo ci allora così macchiati, diciamo a Cristo, come già S. Pietro: «Allontanati da me, o Signore, perché sono uomo peccatore» (Luc. V, 8). «Sarebbe possibile che tu possa contrarre un intimo legame con un'anima tocca dal peccato? Va in cerca piuttosto, o Signore, di anime nobili, pure, privilegiate dalla tua grazia; quanto a me, sono troppo indegno di starmene vicino a te». Ricordiamoci però che Gesù stesso ha detto: «Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori». Guardate infatti: non ha chiamato tra i suoi Apostoli, Matteo, il pubblicano, il peccatore? E chi ha posto a capo della Chiesa, di questa società che vuole «santa, immacolata, senza macchia e per la cui santificazione ha dato tutto il suo sangue?». (Cf. Eph. v, 25-27) Chi ha scelto? Giovanni Battista, santificato nel seno della madre sua, confermato in grazia e d'una perfezione così eminente che veniva considerato come il Cristo stesso? No. Giovanni l'evangelista, il discepolo vergine, che amava di singolare amore e che solo gli rimase fedele fino ai piedi della croce? Neppure. Chi dunque ha scelto? Volontariamente, consapevolmente, nostro Signore ha scelto un uomo che doveva abbandonarlo. Non è cosa meravigliosa?
Nella sua divina prescienza, Cristo tutto conosceva in antecedenza e quando prometteva a Pietro di fondare su di lui la sua Chiesa, sapeva che Pietro, per quanto la sua fede fosse mirabile, lo avrebbe rinnegato. Nonostante tutti i miracoli operati sotto i suoi occhi dal Salvatore, nonostante tutte le grazie che aveva ricevute, nonostante la gloria di cui aveva visto sfolgorare l'umanità di Cristo sul Tabor, il giorno stesso della sua prima comunione e della sua ordinazione, Pietro «giura di non conoscere quell'uomo...» (Matth. XXVI, 72-74). E proprio lui Cristo ha scelto, preferendolo a tutti gli altri. Perché ciò? Perché la sua Chiesa sarà composta di peccatori. Tranne la Vergine purissima, noi tutti siamo peccatori, abbiamo bisogno di misericordia divina; e per questo Cristo ha voluto che il capo del suo regno fosse un peccatore, il cui fallo sarebbe stato consegnato alle sacre Scritture con tutti i particolari che ne mettono in rilievo la debolezza e l'ingratitudine.
Osservate anche Maria Maddalena. Leggiamo nel Vangelo che vi erano donne che seguivano Gesù nelle sue peregrinazioni apostoliche per provvedere ai suoi bisogni e a quelli dei discepoli. Tra tutte queste donne, la cui devozione era innegabile, quale ha voluto Gesù maggiormente rendere illustre? Maddalena. Ha detto di lei: Ovunque sarà predicato il Vangelo converrà che si parli di lei» (Ibid. 13; Marc. XIV, 9). Ha voluto che lo scrittore sacro non omettesse niente dei disordini della peccatrice, ma ha voluto anche che leggessimo che aveva accettato la presenza della Maddalena ai piedi della croce, accanto a sua madre, la Vergine delle vergini, (Joan. XIX, 25) e che precisamente a lei, prima che ad ogni altro, aveva riserbato la sua prima apparizione di risuscitato (Marc. XVI, 9).
Ancora una volta, perché tanta condiscendenza? (Eph. 1,6) «Per esaltare agli occhi di tutti la gloria trionfale della sua grazia». Tale è infatti la grandezza del perdono divino da elevare ad una delle santità più sublimi una peccatrice di perduti costumi, una peccatrice caduta nell'abisso (Ps. XLI, 8). «Ha incontrato una donna perduta, dice un autore dei primi secoli, e l'ha resa, per mezzo della profondità della sua penitenza, più pura di una vergine» (Uno dei sermoni attribuiti a S. Giovanni Crisostomo. P. G., tomo LII, col. 803).
Iddio vuole che «nessuno si glori della sua propria giustizia», (Eph. II, 9) ma che tutti magnifichino la potenza della sua grazia e l'immensità delle sue misericordie (Ps. CXXXV, l seq.).
Le nostre miserie, i nostri falli, i nostri peccati li conosciamo abbastanza; ma ciò che abbastanza non conosciamo è il prezzo del sangue di Gesù e la virtù delle sue grazie.
La nostra confidenza come trova la sua sorgente nella misericordia infinita di Dio a nostro riguardo, così trova uno dei suoi migliori incrementi nella penitenza.
La suprema condiscendenza di Gesù verso i peccatori non può servire di motivo per restare nel peccato o per ricadervi dopo essercene liberati. «Rimaniamo noi nel peccato, dice S. Paolo, perché la grazia abbondi? A Dio non piaccia! Riscattati dal peccato per la morte di Cristo, non dobbiamo più ricadervi» (Rom. VI, 1-2).
Avete certamente notato che, nel perdonare la donna adultera, Gesù le dà un grave avvertimento: «Non voler più peccare». La medesima cosa ripete al paralitico, aggiungendone la ragione: «Eccoti guarito; non peccar più perché non ti accada qualche cosa di peggio» (Joan. V, 14). La ragione è, diceva ancora Gesù, che «quando lo spirito maligno è stato cacciato da un'anima, torna poi ad assediarla con altri spiriti peggiori di lui e se riesce a farsene padrone, lo stato di questa anima diventa peggiore del precedente» (Matth. XII, 45; Luc. XI, 26). La penitenza è la condizione richiesta per ricevere e salvaguardare in noi il perdono divino. Guardate Pietro: ha peccato, gravemente peccato, ma è pure ricordato nel Vangelo che «ha versato lacrime amare» sulla sua colpa (Luc. XXII, 62); più tardi cancellerà i suoi rinnegamenti con una triplice protesta di amore: «Sì, o Signore, voi sapete che io vi amo» (Joan. XXI, 15-17). Guardate anche la Maddalena: è, nello stesso tempo, uno dei più magnifici trofei della grazia di Cristo ed uno splendido simbolo dell'amore penitente. Che cosa fa? Immola a Cristo quanto possiede di più prezioso. E che dunque? Quella capigliatura che è il suo ornamento e la sua gloria (perché, come dice S. Paolo, «è una gloria per una donna portare una lunga capigliatura»), (I Cor. XI, 15) ma di cui si è servita per avvincere le anime, per tender loro dei lacci e per perderle, a che scopo ora se ne serve? Per asciugare i piedi del Salvatore. Come uno schiavo, cerca di avvilire pubblicamente, davanti ai convitati che la conoscevano, ciò che fino a quel momento era l'oggetto del suo orgoglio muliebre. E' l'amore penitente che si sacrifica e che, sacrificandosi, attira e fa suoi i tesori della misericordia.
Qualunque siano le ricadute di un'anima non dobbiamo mai di sperare di essa. «Quante volte, diceva S. Pietro a nostro Signore, quante volte devo perdonare al mio prossimo?» «Settanta volte sette» rispose Gesù, significando con ciò un numero infinito di volte (Matth. XVIII, 21-22).
Quaggiù, questa misura inesauribile nei riguardi del pentimento, è la misura stessa di Dio.
A rendere più completa l'esposizione che vi sto facendo della bontà e condiscendenza di Gesù Cristo verso di noi, voglio aggiungere qui un altro episodio che dà l'ultimo tocco per «umanizzare» Cristo e rivelare a noi uno dei più commoventi aspetti della sua tenerezza: la sua affezione per Lazzaro e per le due sorelle di Betania.
In tutta la vita pubblica del Verbo Incarnato, non si incontra niente forse che ci avvicini a lui quanto le scene intime dei suoi rapporti con gli amici del piccolo villaggio. Se la nostra fede ci dice che è il Figlio di Dio, Dio stesso, le condiscendenze della sua amicizia ci rivelano, mi sembra, meglio di ogni altra manifestazione, la sua qualità di «Figlio dell'uomo».
I sacri scrittori hanno appena abbozzato il quadro di questa santa amicizia; ma quanto ci hanno lasciato è bastante per farci intravedere ciò che vi era in essa d'infinitamente delizioso. S. Giovanni ci dice dunque che «Gesù amava Marta, sua sorella Maria e Lazzaro» (Joan. XI, 3). Erano i suoi amici e gli amici dei suoi Apostoli; parlando ad essi di Lazzaro lo chiama «nostro amico» (Ibid. 11). Aggiunge l'Evangelista che «Maria era quella stessa che aveva unto i piedi di Gesù di un unguento prezioso e glieli aveva rasciugati con i propri capelli» (Ibid. 2).
La loro casa di Betallia era quella che Cristo, Verbo Incarnato, aveva scelto quaggiù come luogo di riposo e come sfondo di questa santa amicizia, di cui egli stesso, figlio di Dio, ha voluto darci l'esempio. Niente di più commovente per i nostri cuori di questa santa intimità che lo Spirito Santo ci svela al capo decimo del Vangelo di S. Luca. Gesù è l'ospite onorato ma intimo di questo focolare. Doveva essere un amico molto intrinseco della casa se un giorno Marta che lo serviva, affaccendata, osò interpellarlo sulla piccola questione domestica occorsa tra lei e sua sorella Maria, seduta tranquillamente ai piedi di Gesù, per gioire delle parole del Salvatore. «Signore, non t'importa che mia sorella mi lasci sola alle faccende di casa? Dille dunque che mi dia una mano». Anziché meravigliarsi per una tale familiarità che lo includeva, a così dire, nel rimprovero fatto da Marta a sua sorella, Gesù interviene, e risolve la questione in favore di colei che simboleggia l'orazione e l'unione divina: «Marta, Marta, tu ti affanni e t'inquieti per troppe cose. Eppure una sola è necessaria. Maria s'è scelta la parte migliore che non le sarà tolta» (Luc. X. 40-42).
Quando con spirito di fede assistiamo a questa scena incantevole, sentiamo nel nostro cuore che veramente Gesù è uno di noi (Hebr. II, 17); e che nella sua persona si realizza mirabilmente quella rivelazione che fa al mondo la Sapienza eterna quando proclama che «le sue delizie consistono nel trovarsi con i figli degli uomini» (Prov VIII, 31); riconosciamo al tempo stesso che «nessuna nazione ha degli dei che le siano tanto vicini come è vicino a noi il nostro Dio» (Deut. IV, 7). Gesù Cristo è veramente «l'Emanuele» (Matth. I, 23), Dio vivente tra noi, in noi, con noi.
VI. Atteggiamento severo di Gesù verso l'orgoglio ipocrita dei Farisei.
La vita di Gesù è una manifestazione delle perfezioni di Dio, delle prodigalità della sua bontà suprema e delle sue inesauribili misericordie. E' nel Verbo Incarnato che Dio ci svela il suo «carattere» intimo (II Cor. IV, 6). Cristo è l'immagine «visibile del Dio invisibile» (Col. I, 15), le sue parole e gli atti suoi sono la rivelazione autentica dell'Essere infinito. Ora, la nostra contemplazione della fisionomia di Cristo e la nostra idea di Dio sarebbero incomplete se, considerando l'attitudine di condiscendenza di Gesù nei riguardi di ogni forma di miseria, compreso il peccato, trascurassimo di studiare la sua condotta nei riguardi di quella forma di malizia umana che è la più opposta alla nobiltà e alla bontà divina e che si riassume in una parola: il fariseismo.
Voi sapete chi erano i Farisei. Dopo il ritorno dall'esilio di Babilonia, alcuni zelanti Giudei avevano fatto ogni sforzo per neutralizzare l'influenza straniera, pericolosa per l'ortodossia d'Israele; avevano sopra tutto cercato di rimettere in onore le prescrizioni della Legge di Mosè e di conservarne l'integrità.
Questo zelo degno di ogni lode e che manifestava un ideale elevato, degenerò disgraziatamente poco a poco in un fanatismo feroce e in un culto esagerato del testo della Legge. Si formò così una classe di Giudei che si chiamarono «Farisei» vale a dire i «Separati», separati da ogni contatto straniero e da ogni rapporto con quanti non osservavano le loro «tradizioni» (*Ai Farisei bisogna assimilare gli Scribi, affiliati alla setta: si preoccupavano specialmente del testo della Legge, della sua interpretazione e della sua osservanza. Dividendo gli errori dei Farisei, vengono loro associati nelle maledizioni con cui li colpisce il Salvatore.).
Interpretando difatti la Legge con rara raffinatezza casuistica, i Farisei vi aggiunsero un numero infinito di prescrizioni orali che la rendevano spesso impraticabile, e, in più di un articolo, puerile e ridicola. Due punti, i cui particolari costituivano l'argomento delle loro discussioni interminabili, attiravano particolarmente la loro attenzione: l'osservanza del riposo, nel giorno di Sabato, e le purificazioni rituali e legali. Più d'una volta, nel Vangelo, li vediamo questionare col Signore su questi punti.
Erano insomma caduti in un formalismo grettissimo: minimamente preoccupati della purezza interiore dell'anima, si attaccavano alla osservanza esteriore, materiale e gretta della lettera della Legge. In questo facevano consistere tutta la loro religione e perfezione.
Ne risultò uno svisamento profondo della morale: questi «puri» trascuravano gravi precetti della legge naturale pur di non trascurare alcuni assurdi particolari, unicamente basati sulle loro personali interpretazioni. Così, col pretesto di non violare il riposo del Sabato, insegnavano che in quel giorno non era lecito né curare i malati, né far l'elemosina ai poveri; e li vediamo rimproverare i discepoli di Gesù perché, non rispettando il Sabato, avevano fregato delle spighe tra le loro mani per mangiarle (Matth. XII, 1-2; Marc. Il, 23-24; Luc. VI, 1-2).
Questo formalismo esagerato li conduceva necessariamente all'orgoglio. Autori essi stessi di molte prescrizioni, si riputavano come gli artefici della loro santità. Essi erano i «Separati», i puri, che niente di macchiato poteva mai contaminare. Che cosa dunque si poteva loro rimproverare? Non erano di una condotta perfetta su tutta la linea? Avevano perciò di se stessi una stima smisurata; un incommensurabile orgoglio li spingeva a «procurarsi avidamente i primi posti nei conviti ai quali erano invitati e nelle sinagoghe e ad attirarsi i saluti e gli applausi della folla sulle pubbliche piazze» (Luc. XX, 46).
Questo orgoglio si manifestava persino nel santuario. Voi conoscete la parabola nella quale Cristo ha meravigliosamente dipinta questa odiosa ostentazione (Ibid. XVIII, 9-14). Il nostro divin Salvatore mette di fronte all'umiltà del pubblicano che non osa alzare gli occhi al cielo a causa dei suoi peccati, la presunzione del fariseo il quale, in piedi, rende grazie a Dio per trovarsi al di sopra di tutti gli altri per la sua esatta osservanza delle minime prescrizioni della Legge, e che, a così dire, reclama da Dio l'assoluta approvazione della sua condotta (*In altra conferenza noi commenteremo particolareggiatamente questa parabola che illumina di luce potente i caratteri che debbono rivestire i nostri rapporti con Dio).
Ciò che rendeva spregevoli molti Farisei è che tale orgoglio si ammantava d'una profonda ipocrisia. In conseguenza del gran numero di prescrizioni che stabilivano, e che nostro Signore stesso dichiara «intollerabili», (Matth. XXIII, 4) molti di loro non riuscivano a realizzare la santità di cui si vantavano, che dissimulando continuamente i loro falli e le loro colpe, e sottoponendo il sacro testo a sleali interpretazioni, onde potevano violare la Legge pur salvandone le apparenze agli occhi del popolo che li ammirava.
La loro autorità ed influenza erano infatti considerevoli; erano riguardati come gli interpreti ed i custodi della legge di Mosè; mostrando inoltre di annettere una grande importanza ad ogni pratica esteriore della loro osservanza, s'imponevano al popolo che li considerava quali santi. Perciò si adombravano facilmente di tutto quanto faceva diminuire questo ascendente. Sin dal principio della vita pubblica di Gesù cominciano a fargli opposizione. Non solo Cristo non riallacciava il suo insegnamento alla loro scuola, ma la dottrina che predicava, le azioni che la contrassegnavano erano agIi antipodi delle loro opinioni e della loro condotta. La suprema condiscendenza del Signore verso i pubblicani e i peccatori da essi respinti quali contaminati, la sua indipendenza rispetto alla legge del sabato, di cui si proclamava il sovrano padrone, (Matth. XII, 8; Marc. II, 28; Luc. VI, 5) i miracoli con cui si guadagnava il popolo non potevano non impressionarli. Avanzando gradatamente nel loro accecamento, nonostante gli ammonimenti dello stesso Gesù, gli tendono delle insidie, gli domandano «un segno dal cielo» quale prova della sua missione; gli conducono innanzi la donna adultera per poterlo mettere in contraddizione con la legge di Mosè; (Joan. VIII, 3-6) gli domandano insidiosamente se si deve pagare il tributo a Cesare (Matth. XXII, 15-17; Marc. XII, 13-14; Luc. XX, 20-22). Dappertutto, in qualsiasi pagina del Vangelo, li vedrete ognora pieni di odio contro Gesù, sempre intenti a compromettere la sua autorità sulla folla, a distogliergli i suoi discepoli, ad ingannare il popolo per impedire a Cristo di compiere la sua missione.
Più di una volta nostro Signore aveva avvertito i suoi discepoli di guardarsi dalla loro ipocrisia; (Matth. XVI, 11-12; Luc. XII, 1) ma, sul finire del suo pubblico ministero, da buon pastore che porta la verità alle sue pecorelle e per le quali è per dare la vita, volle smascherare completamente quei lupi che si ammantavano di un esteriore di santità per ingannare le anime semplici e trarle alla morte.
Nel suo solenne sermone del monte, Gesù aveva stupito il suo uditorio con la rivelazione di una dottrina che era tutto l'opposto delle abitudini inveterate di quella gente e dei suoi secolari pregiudizi. Egli aveva proclamato davanti a tutti che i beati del suo regno sono i poveri di spirito, i mansueti di cuore, quelli che piangono, che hanno fame e sete della giustizia; aveva dichiarato che i veri figli del suo Padre celeste sono i misericordiosi, le anime pure, i pacifici, e che la più profonda delle beatitudini è di essere esposti alla persecuzione per causa sua (Matth. V, 3-11). Questa dottrina che costituisce la grande «casta evangelica» dei poveri, degli umili, dei piccoli, è l'antitesi di quello che predicavano i Farisei con le loro parole e coi loro esempi. Perciò udiamo nostro Signore lanciare contro di loro una serie di otto maledizioni che sono il contrapposto delle otto beatitudini.
Leggetele per intero nel Vangelo ove occupano tutta una pagina; (Ibid. XXIII, 13-33) e vedrete con quale indignazione Cristo, Verità infallibile e Vita delle anime, mette i suoi discepoli in guardia contro un insegnamento e una condotta che allontanavano le anime dal regno di Dio, coprivano la cupidigia e il falso zelo, alteravano le verità e le prescrizioni della Legge, determinavano una religione di mera apparenza, si contentavano di una onestà tutta esteriore sotto la quale si nascondevano la depravazione e lo spirito di odio e di persecuzione.
«Guai a voi, scribi e farisei ipocriti; perché chiudete in faccia agli uomini il regno dei cieli; ché né c'entrate, né permettete di entrare a chi viene» (*Ostacolando il cammino del cielo con la moltitudine delle loro intollerabili prescrizioni e soprattutto distogliendo le anime da Cristo).
«Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che divorate le case delle vedove e ostentate lunghe orazioni; per questo sarete giudicati più severamente».
« Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che vi prendete cura di pagare le decime della menta, dell'aneto e del cimino; e avete trascurato il più grave della Legge: la giustizia e la misericordia e la fedeltà. Queste cose conveniva farle e non ometter quelle. Condottieri ciechi, che colate il moscerino e ingoiate il cammello» (*La Legge proibiva di mangiare ogni animale impuro; i Farisei esagerando questa prescrizione non bevevano niente che non fosse filtrato, mentre, d'altra parte, trascuravano altre prescrizioni della Legge). «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti; perché lavate il di fuori del bicchiere e del piatto, dentro poi siete pieni di rapina e d'immondezza» (*I Farisei evitavano con cura ridicola le minime macchie meramente legali, ma non si curavano di evitare il peccato che macchia l'anima). «Serpenti, razza di vipere, come scamperete alla condanna dell'inferno?».
Quale contrasto, nell'atteggiamento di nostro Signore, tra queste accuse fulminanti, queste veementi invettive, e la sua attitudine verso i più grandi peccatori, la Samaritana, la Maddalena, la donna adultera, alle quali egli perdona senza una parola di rimprovero, verso persino dei criminali come il buon ladrone cui promette il cielo! (Luc. XXIII, 43) Donde una tal differenza? Gesù così pieno di condiscendenza verso i peccatori, perché colpisce pubblicamente i Farisei con anatemi così terribili?
Perché ogni forma di debolezza, di miseria, quando sia riconosciuta umilmente e umilmente confessata, attira la compassione del Cuore di Gesù e la misericordia del Padre suo (Ps. CII, 13-14); mentre l'orgoglio, quello specialmente dello spirito, somigliante perciò al peccato dei demoni, eccita lo sdegno di Dio (Jac. IV, 6; I Petr. V, 5). Ora, l'orgoglio farisaico è la cristallizzazione di quanto vi è di più odioso ed ipocrita nell'orgoglio. Questi «superbi nel pensiero del loro cuore », questi ricchi della loro propria stima sono scacciati per sempre, Con le mani vuote, dalla presenza di Dio (Luc. I, 53).
E' da notare che il fariseismo assume forme diverse. Nostro Signore non colpiva solo i Farisei a motivo del loro ipocrita orgoglio che copriva la corruzione sotto il mantello della perfezione: «Sepolcri imbiancati, che sembrano belli all'esterno, ma che dentro sono pieni di corruzione e d'iniquità» (Matth. XXIII, 27). Rimproverava anche loro di avere sostituito un formalismo di origine umana alla legge eterna di Dio. I Farisei si scandalizzavano di vedere che in giorno di sabato Cristo guariva i malati; che gli Apostoli, prima dei pasti, non si sottomettevano a tutta quella serie puerile di abluzioni legali che essi stessi avevano inventate e nelle quali facevano consistere tutta la purezza dell'uomo. Collocando tutta la santità nella osservanza minuziosa di tradizioni e di pratiche scaturite dal loro proprio cervello, trascuravano persino i precetti più gravi della legge divina. Secondo loro, pronunziando una semplice parola, si potevano consacrare beni o argento al servizio del Tempio e renderli inviolabili, in modo che al devoto fariseo non era più lecito disporne neppure per pagare i suoi debiti o per sovvenire ai bisogni dei propri genitori nei casi di necessità.
Era, secondo la parola stessa del Salvatore, «annientare, per amore della loro tradizione, il comandamento di Dio» (Matth. XV, 1-9; Marc. 1-13).
Questo gretto formalismo di mera invenzione umana, che snaturava e sminuiva la religione, questa falsa coscienza ripugnavano siffattamente alla nobiltà di cuore e alla sincerità di Gesù che li smascherava e li condannava senza riguardo. Quale concetto aveva infatti di questa casuistica? «Io vi dico in verità, se la vostra giustizia e la vostra santità non sarà maggiore di quella dei Farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Matth. V, 20).
Quale rivelazione del carattere intimo di Dio! Quale manifestazione del suo modo di giudicare e apprezzare gli uomini! Quale luce preziosa sul concetto della vera perfezione gettano questi aspri rimproveri indirizzati ai farisei!
Nel discorso del monte, Cristo ci mostra le cime della vera santità, nella sua condanna del fariseismo ci svela gli abissi della falsa pietà di cui i farisei sono i prototipi.
Non vi è laccio diabolico più temibile o più funesto di quello di far scambiare una forma di fariseismo per la vera santità reclamata dal Vangelo. Con questo mezzo il principe delle tenebre si attacca anche alle anime che cercano la perfezione, ottenebra il loro occhio interiore con le apparenze di una virtù formalistica sostituita alla verità del Vangelo. Anziché fare progressi su una tal via, si resta sterili davanti a Dio. «Ogni albero che la mano di mio Padre non ha piantato, verrà sradicato» (Ibid. XV, 13). E' la sentenza inesorabile di Gesù contro la razza dei farisei.
Voi dunque vedete quanto sia necessario in questa materia diffidare dei propri sensi e dei propri lumi e quanto importi fondare la nostra santità non su tale o tale altra pratica di devozione cha noi stessi scegliamo e che può essere eccellente, non su tale o tale altra prescrizione della regola religiosa che professiamo (la cui osservanza può restare sospesa per effetto di una legge superiore, quale sarebbe ad esempio la legge di carità verso il prossimo) ma anzitutto sull'adempimento della legge divina: legge naturale, precetti del decalogo, comandamenti della Chiesa, doveri del proprio stato. Ogni altra pietà che non rispetti questa gerarchia di doveri deve sembrarci sospetta; ogni altra ascetica che non si regoli su i precetti e sulla dottrina del Vangelo non può venire dallo Spirito Santo che ha ispirato il Vangelo. «Quelli soltanto sono veramente figli di Dio, dice S. Paolo, che lo Spirito Santo conduce» (Rom. VIII, 14).
La pienezza di Gesù è così vasta che nell'ora stessa in cui colpiva i farisei di maledizioni terribili e loro prediceva le collere divine, il Vangelo lo mostra profondamente commosso; il pensiero del castigo che deve abbattersi sulla santa città per avere essa, ascoltando «quei ciechi», (Matth. XV, 14) rigettato il Messia, strappa alla sua anima accenti di angoscia. «Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti vengono inviati, quante volte io ho voluto raccogliere i tuoi figli, come la gallina raccoglie i suoi piccoli sotto le ali... e tu non l'hai voluto!». E alludendo al Tempio dove non sarebbe più entrato, perché era alla vigilia della Passione, aggiunge: «Ecco che la vostra casa sarà lasciata deserta. Perché, io ve lo dico, non mi vedrete più sino a quando non diciate: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!» (Ibid. XXXIII, 37-39).
Finché restiamo quaggiù, gli appelli dell'eterna bontà sono incessanti: Quoties volui!... Ma non siamo di coloro che per la dissipazione continua della grazia e per l'abitudine del peccato, anche se veniale, s'induriscono al punto di non intendere più questi appelli: Et noluisti! Guardiamoci bene dallo scacciare lo Spirito Santo dal tempio dell'anima nostra con resistenze ostinate e volontarie: Dio ci abbandonerebbe al nostro accecamento. La misericordia non viene mai meno all'anima, ma è l'anima che, venendo meno alla misericordia, provoca la giustizia.
Studiamoci invece di rimanere fedeli, non di una fedeltà che si limiti alla lettera, ma che trovi invece la sua sorgente nell'amore e il suo appoggio nella confidenza in un Salvatore pieno di bontà. Allora, quali che siano le nostre debolezze, le nostre miserie, le nostre deficienze, gli errori che commettiamo, verrà il giorno in cui benediremo per sempre colui che è apparso sulla terra sotto umane sembianze. Egli veniva «a guarire le nostre infermità», «a riscattarci dall'abisso del peccato»; ed egli sarà anche colui che «coronerà per sempre in noi i doni della sua misericordia e del suo amore (Ps. CII, I, 3-4).