Dopo la sua risurrezione, Gesù Cristo rimase quaranta giorni con i suoi discepoli.
S. Leone dice «che questi giorni non trascorsero nell'inazione» (Sermo I, de Ascensione Domini). Con le sue molteplici apparizioni agli Apostoli, con le sue conversazioni con loro, (Act. I, 3) Gesù colmò i loro cuori di gioia, confermò la loro fede nel suo trionfo, nella sua persona e nella sua missione, e diede loro anche «le ultime istruzioni» (Ibid. 2) per la fondazione ed organizzazione della Chiesa. Ora che la sua missione quaggiù è terminata, è venuto il momento per lui di risalire al Padre. Il «divino gigante ha completamente compiuta la sua corsa sulla terra» (Joan. XVII, 4). Ora si reca a gustare, in tutta la loro pienezza, le gioie profonde di un trionfo meraviglioso: l'Ascensione compie gloriosamente la vita terrena di Gesù.
Fra tutte le feste di nostro Signore, io oserei dire che, in un certo senso, l'Ascensione è la più grande, essendo la glorificazione suprema di Gesù Cristo. La santa Chiesa chiama questa Ascensione «mirabile» (Litanie dei Santi) e «gloriosa», (Secreta della messa dell'Ascensione) e per tutto il divino ufficio di questa messa, ci fa cantare la magnificenza di questo mistero.
Il Salvatore aveva domandato al Padre suo «di essere glorificato di quella gloria che egli possiede, per la sua divinità, negli eterni splendori dei cieli» (Joan. XVII, 5). La vittoria della risurrezione ha segnato l'aurora di questa glorificazione personale di Gesù (S. August., Tract. in Joan. CIV, 3) l'ammirabile ascensione ne costituisce il meriggio (Marc. XVI, 19). E' la glorificazione divina dell'umanità di Cristo, al disopra di tutti i cieli.
Diciamo dunque qualche delle ragioni di essa e delle per noi.
La Chiesa riassume tutti questi punti nell'orazione della messa: «Concedete, o Dio onnipotente, a noi che crediamo che il vostro Figlio unigenito, nostro Redentore, è salito in questo giorno al cielo, di potere fin d'ora abitarvi in ispirito».
Questa preghiera attesta anzitutto la nostra fede nel mistero. Ricordando inoltre i titoli di «Figlio unigenito» e di «Redentore», dati a Gesù, la Chiesa esprime i motivi dell'esaltazione celeste del suo Sposo e la grazia che in essa è contenuta per le anime nostre.
I. Splendore magnifico del trionfo di Gesù nella sua ascensione alla destra del Padre.
Il mistero dell'Ascensione di Gesù Cristo ci è rappresentato in un modo consentaneo alla nostra natura: noi vediamo infatti la santa umanità innalzarsi da terra e salire visibilmente verso il cielo.
Gesù raduna un'ultima volta i suoi discepoli e li conduce a Betania sulla cima del monte degli Ulivi, rinnova loro la missione di predicare a tutte le genti promettendo di rimaner sempre con loro con la sua grazia e l'azione dello Spirito Santo (Egli rimane anche con la sua presenza reale nel sacramento dell'Eucaristia). Avendoli quindi benedetti, per sua propria potenza divina e per quella della sua anima gloriosa, si eleva al disopra delle nubi e sparisce ai loro occhi.
Questa ascensione materiale, per quanto reale e mirabile appaia, è al tempo stesso simbolo di una ascensione più mirabile sebbene incomprensibile per noi. Nostro Signore sale super omnes caelos, (Eph. IV, 10) «trasvola tutti i cieli», oltrepassa tutti i cori degli angeli, per «non fermarsi che alla destra di Dio».
Voi sapete che questa ascensione «alla destra di Dio» è meramente figurativa, e non deve essere presa alla lettera: Dio, essendo spirito, non ha niente di corporeo. Ma la sacra Scrittura (Ps. CIX, 1; Marc. XVI, 19; Eph. I, 20 et IV, 10; Col. III, 1) e la Chiesa (Simbolo degli Apostoli, di Nicea e Quicumque) l'usano per significare gli onori sublimi e la maestà del trionfo accordati a Cristo nel Santuario della Divinità.
Similmente, quando diciamo che Gesù «è assiso», intendiamo significare che egli è entrato per sempre in possesso di quell'eterno riposo che gli hanno meritato i suoi gloriosi combattimenti senza intendere di escludere con ciò l'esercizio incessante dell'onnipotenza che il Padre gli comunica per governare, santificare e giudicare tutti gli uomini.
S. Paolo ha con splendide parole magnificata nella lettera agli Efesini questa divina glorificazione di Gesù. «Dio, egli dice, ha dispiegato efficacemente in Cristo la sua forza vittoriosa risuscitandolo da morte e collocandolo alla sua destra nei cieli al di sopra di ogni principato, e potestà, e virtù, e dominazione, e sopra qualunque nome che sia nominato non sole in questo secolo ma anche nel futuro. Ha posto tutte le cose sotto i suoi piedi e lo ha costituito capo sovrano di tutta la Chiesa (Eph. I, 19-22).
Gesù Cristo è e rimane per ogni anima la sola sorgente di salute, di grazia, di vita e di benedizione; il suo nome, dice l'Apostolo, è diventato così grande, cosi luminoso, cosi glorioso, che «ogni ginocchio si piegherà davanti a lui, in cielo, in terra, nell'inferno... ed ogni lingua proclamerà che Gesù vive e regna in eterno nella gloria di Dio Padre» (Philip. II, 10-11).
E guardate difatti: da questo momento benedetto, «la moltitudine innumerevole degli eletti della celeste Gerusalemme, di cui l'immolato Agnello è l'eterna luce, gettano le loro corone ai suoi piedi, si inginocchiano pur esse al suo cospetto e proclamano, in un coro potente come il fragore del mare, che egli è degno di ogni amore, di ogni gloria, perché la loro salute e la loro beatitudine trovano in lui il loro principio e la loro fine» (Apoc. passim).
Da questo momento, su tutta la faccia della terra, durante la santa azione della messa, la Chiesa fa salire dai suoi templi le sue lodi e le sue suppliche a Colui che solo può sostenerla nelle lotte, essendo egli la sorgente unica di ogni forza e di ogni virtù.
«Voi che siete assiso alla destra del Padre, abbiate pietà di noi, perché voi siete il solo santo, il solo Signore, il solo Altissimo, o Gesù Cristo, unitamente allo Spirito Santo nella gloria di Dio vostro Padre».
Da questo momento i principi delle tenebre, cui Cristo trionfatore ha strappato la preda per sempre (Eph. IV. 8), si sono riempiti di terrore al solo nome di Gesù, e sono stati costretti a fuggire e ad abbassare il loro orgoglio davanti al segno vittorioso della sua croce.
Tale lo splendore del trionfo nel quale è entrata in eterno l'umanità di Gesù, nel giorno della sua ascensione ammirabile.
II. Motivi fondamentali di questa prodigiosa esaltazione di Cristo: egli è il Figlio di Dio; egli si è inabissato nelle ignominie della Passione.
Ma quali sono, mi domandate, le ragioni di questa suprema esaltazione di Gesù, di questa gloria incommensurabile divenuta porzione della sua santa umanità? Possiamo ridurle tutte a due fondamentali: la prima è che Gesù Cristo è il vero Figlio di Dio, e la seconda, che egli, per riscattarci, si è inabissato nell'umiliazione.
Gesù è Dio ed uomo. Come Dio riempie della sua divina presenza il cielo e la terra. E' dunque come uomo che è salito alla destra del Padre. Ma l'umanità di Gesù è unita alla persona del Verbo ed è l'umanità di un Dio, in questa qualità gode del diritto di pretendere alla gloria divina negli eterni splendori. Nella sua vita mortale, tranne il giorno della Trasfigurazione, questa gloria di Cristo era velata e nascosta. Il Verbo volle unirsi ad una umanità debole come la nostra, ad una umanità passibile, soggetta all'infermità, alla sofferenza ed alla morte.
Abbiamo veduto che dall'alba della risurrezione, Gesù è entrato in possesso di quella gloria sfolgorante che rende la sua umanità per sempre gloriosa e impassibile. Ma essa rimane ancora quaggiù, in un soggiorno corruttibile ove regna la morte. Per raggiungere il vertice, il coronamento di questa gloria, occorreva a Gesù risuscitato un luogo che rispondesse degnamente alla sua nuova condizione; gli occorrevano le altezze dei cieli, donde la sua gloria e la sua potenza avrebbero potuto irradiarsi perfettamente sulla società degli eletti e dei redenti.
Uomo-Dio, Figlio di Dio, uguale al Padre, Gesù ha il diritto di assidersi alla sua destra, di condividere con lui, in tutto il suo splendore, la gloria divina, la beatitudine infinita e l'onnipotenza dell'Essere sovrano (*).
[*Se noi consideriamo l'umanità di Gesù in quanto natura, siccome questa natura è creata, «assidersi alla destra di Dio non significa evidentemente per essa l'eguaglianza con l'Essere divino nella sua gloria essenziale, ma una partecipazione sublime ed eminente alla beatitudine e alla potenza infinita]
La seconda ragione della suprema glorificazione è che doveva essere una ricompensa delle umiliazioni che Gesù aveva sostenute per amore del Padre e per amore nostro.
Vi ho detto più volte che Gesù facendo il suo ingresso in questo mondo si abbandonò interamente al beneplacito del Padre suo (Hebr. X, 9; cf. Ps. XXXIX, 8), accettando di compiere fino alla piena consumazione il programma degli abbassamenti vaticinati, accettando di bere sino alla feccia l'amaro calice delle sofferenze e delle ignominie senza nome, annientandosi sino alla maledizione della croce. E perché tutto questo? (Joan. XIV, 31) «affinché il mondo sappia che io amo il Padre mio», la sua perfezione, la sua gloria, i suoi diritti, le sue volontà.
Ed ecco il motivo: Propter quod notate queste parole di S. Paolo che indicano la realtà del motivo «per questa ragione Dio-Padre ha glorificato il Figlio suo e l'ha esaltato al di sopra di tutte le cose, in cielo, in terra, nell'inferno» (Philip. II, 9).
Dopo il combattimento i re della terra ricompensano i valorosi capitani che hanno difeso i loro diritti, riportato vittoria sul nemico e allargato i confini della patria.
Non è questo quanto avviene in cielo nel giorno dell'Ascensione ma in uno splendore incomparabile? Con suprema fedeltà Gesù aveva compiuta l'opera che suo Padre reclamava da lui (Joan. VIII, 29; XVII, 4). Offrendosi ai colpi della giustizia, come una vittima santa, era disceso negli abissi incomprensibili dei dolori e degli obbrobri. Ora che tutto era espiato, pagato, riscattato; che le potenze tenebrose erano sgominate; che le perfezioni del Padre erano riconosciute e i suoi diritti vendicati; che le porte del regno celeste si erano riaperte a tutto il genere umano, quale gioia non dovette essere per il Padre celeste se ci è lecito balbettare simili frasi su tali misteri incoronare il Figlio suo dopo la vittoria riportata sul principe di questo mondo! E quale divina allegrezza chiamare la santa umanità di Gesù a gustare gli splendori, la beatitudine e la potenza di una eterna esaltazione! Tanto più che al momento di compiere il suo sacrificio, Gesù in persona aveva domandato al Padre suo quella gloria che doveva alla sua volta estendere quella dello stesso Padre: «Glorifica il Figlio tuo affinché il Figlio glorifichi te!» (Ibid. 1. La Chiesa ci fa leggere questo testo alla messa della vigilia dell'Ascensione). «Sì, o Padre, l'ora è venuta. La tua giustizia è stata soddisfatta dalla espiazione; che essa lo sia anche dagli onori che ridondano al Figlio tuo Gesù per l'amore che gli hai manifestato nelle sue sofferenze. O Padre, glorifica il Figlio tuo! Conferma il suo regno nei cuori di quanti lo amano; riadduci sotto il suo scettro le anime che si sono da lui allontanate; attira a lui tutti coloro che, seduti tra le tenebre, non lo conoscono ancora! Padre, glorifica il Figlio tuo affinché, a sua volta, il Figlio tuo glorifichi te manifestandoci il tuo essere divino, le tue perfezioni, i tuoi desideri!» Ma il Padre ci ha già risposto (Joan. XII, 28). E noi ascoltiamo lui stesso ripetere al Cristo le parole solenni vaticinate dal profeta: «Tu sei mio Figlio...
Domanda e io ti darò in eredità le nazioni... e per dominio le estremità della terra...» (Ps. II, 7-8). Siediti alla mia destra fino a che avrò ridotto i tuoi nemici a servire di sgabello ai tuoi piedi! (Ibid. CIX, 1).
Le opere divine risplendono di ineffabili segrete armonie il cui carattere singolare affascina le anime fedeli. Osservate: dove ha iniziato Gesù la sua passione? ai piedi del monte degli Ulivi. Qui, per tre lunghe ore, la sua anima santa che prevedeva nella luce divina la somma di dolori e d'insulti del suo sacrificio si è trovata in preda alla tristezza, alla noia, al disgusto, alla paura, all'angoscia.
Non sapremo mai quale atroce agonia abbia sostenuta Il Figlio di Dio nel giardino degli Ulivi: Gesù vi ha sofferto in anticipo e come in riassunto tutti i dolori della passione: «Padre, se è possibile, passi da me questo calice!...» (Matth. XXVI, 39).
E dove mai nostro Signore ha incominciato a gustare le gioie della sua ascensione? Sapienza eterna, Gesù, che, in questo, non dimentichiamolo mai, non forma che uno col Padre e con lo Spirito Santo ha voluto scegliere, per ascendere al cielo, la cima di quel medesimo monte che era stato testimone dei suoi abbassamenti dolorosi. Nel luogo stesso ove si era abbattuta su Cristo, come un torrente vendicatore, la giustizia divina lo incorona di onore e di gloria (Hebr. II, 9) e ove era stato il preludio di terribili combattimenti, ivi stesso si è innalzata la gloria di un incomparabile trionfo.
Non ha dunque il diritto, la Chiesa, madre nostra, di esaltare come «ammirabile» l'ascensione del suo Capo divino?
III. Grazia che Cristo ci conferisce in questo mistero: noi penetriamo con lui nel cielo come membra del suo corpo mistico.
Ecco il mistero dell'Ascensione di Gesù: sublime glorificazione di Cristo al di sopra di ogni creatura, alla destra di Dio.
Gesù era «uscito dal Padre», ed è «ritornato al Padre suo», dopo avere adempiuta la sua missione quaggiù (Joan. XVI, 28). «Come un gigante si è slanciato per percorrere la sua via»; «è uscito dal più alto dei cieli», dal santuario della divinità; e risale ora sulla cima di tutte le cose per gioirvi della gloria, della beatitudine e della potenza divina (Ps. XVIII, 6-7).
In ciò che possiede di particolarmente divino questo trionfo è il privilegio esclusivo di Cristo, Uomo-Dio, Verbo Incarnato. Solo in quanto Figlio di Dio e Redentore del mondo, Gesù ha diritto a questa gloria infinita. Dice S. Paolo: «A quale angelo mai Dio ha detto: Siediti alla mia destra?» (Hebr. I, 13).
Nostro Signore stesso esprimeva un identico pensiero nel suo colloquio con Nicodemo: «Nessuno è salito al cielo, diceva Gesù, salvo colui che ne è disceso, il Figlio dell'uomo che è nel cielo» (Joan. III, 13).
Gesù è il Figlio dell'uomo per la sua Incarnazione, ma, incarnandosi, è rimasto il Figlio di Dio che è sempre in cielo. Disceso dal cielo, dal seno del Padre, per rivestire la nostra natura, Cristo vi risale come in soggiorno naturale, come colui cui solo appartiene di risalire presso il Padre suo e d'aver parte ai sublimi onori della divinità, a lui solo riservati.
Possiamo noi penetrare nei cieli? O rimaniamo esclusi da questo soggiorno di gloria e di beatitudine? Non avremo parte all'ascensione di Gesù? Oh certamente! ma, come sapete, solo per Cristo e in Cristo possiamo penetrarvi. E come? Col battesimo che ci rende figli di Dio. Lo dice nostro Signore stesso nel medesimo colloquio con Nicodemo (Joan. III, 5) «Chi non rinascerà per acqua e Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio». Come se egli dicesse: Non vi è altro mezzo per entrare nel cielo se non si rinasce da Dio: vi è una nascita eterna nel seno del Padre ed è la mia; di pieno diritto, risalgo al cielo, essendo il vero Figlio di Dio, generato negli splendori santi; ma vi è un'altra categoria di figli di Dio: coloro «che nascono da lui» per il battesimo (Ibid. I, 13).
Questi sono figli di Dio e perciò, come dice S. Paolo, «suoi eredi»; «eredi di Dio, sono perciò coeredi di Cristo» (Rom. VIII, 17) e quindi partecipanti alla sua eterna eredità. Facendoci figli di Dio, il battesimo ci fa altresì membri vivi del corpo mistico di cui Cristo è il capo. S. Paolo è assai esplicito su questo punto (I Cor XII, 27) «Voi siete il corpo di Cristo e le sue membra, ciascuno per la sua parte», e dice ancora con maggiore vivacità: «Nessuno trascura la propria carne, ché anzi la cura e nutre; voi siete della carne di Cristo e delle sue ossa» (Eph. V, 30). Ora le membra partecipano della gloria del capo e la gioia di una persona ridonda a tutto il corpo, e per questo noi prendiamo parte a tutti i tesori che Cristo possiede: le sue gioie, le sue glorie, la sua beatitudine diventano nostre.
Queste le meraviglie della divina misericordia. «Dio è ricco di misericordia, esclama l'Apostolo; per la eccessiva sua carità con cui ci amò, essendo noi morti per i peccati, ci convivificò in Cristo (per la grazia del quale siete stati salvati), e con lui ci risuscitò e ci fece sedere nei cieli in Cristo Gesù: per mostrare ai secoli susseguenti le abbondanti ricchezze della sua grazia per mezzo della benignità sua sopra di noi in Cristo Gesù» (Eph. II, 4-7). E siccome quanto fa il Padre lo fa anche il Figlio, così Cristo Gesù porta con sé la nostra umanità per collocarla nella gloria e nella beatitudine. E' questa la grande azione di Gesù, il magnifico gesto di questo gigante divino: riaprire con i suoi dolori le porte del cielo all'umanità decaduta, e trasferirla al suo seguito, tra gli splendori del cielo (Communicantes della messa dell'Ascensione; Prefazio dell'Ascensione).
Quando Cristo risalì al cielo, dice S. Paolo, tutto un corteo di anime sante, sua gloriosa conquista, vi penetrò con lui. Ma questi giusti che seguivano Gesù nel suo trionfo non sono che le primizie di messi senza numero.
L'ascensione delle anime al cielo avviene e avverrà continuamente finché il regno di Dio non avrà raggiunta la misura della sua pienezza.
«L'ascensione di Cristo è dunque anche la nostra e la gloria del capo legittima la speranza del corpo. In questo santo giorno non abbiamo ricevuto soltanto l'assicurazione di rientrare nel possesso della gloria eterna, ma siamo già penetrati nelle altezze dei cieli con Cristo Gesù», (S. Leo, Sermo I, de Ascensione Domini, C. IV) «L'astuzia dell'antico nemico ci aveva strappati dal primo soggiorno di felicità; il Figlio di Dio, incorporandoci a lui, ci ha collocati alla destra del Padre suo» (S. Leo, Sermo I, de Ascensione Domini, C. IV).
Oh come comprendiamo il coro di azioni di grazie che gli eletti cantano in lode dell'Agnello immolato per gli uomini! Come comprendiamo quelle acclamazioni e quelle adorazioni che essi offrono senza posa a colui che ha pagato con tormenti inenarrabili la loro beatitudine senza fine!...
L'ora di questa glorificazione non è ancora suonata per noi. Ma in attesa di unirci al coro dei beati, dobbiamo col pensiero e coi santi desideri abitare nei cieli ove Cristo, nostro capo, vive e regna in eterno.
Sulla terra non siamo che ospiti e stranieri alla ricerca della nostra patria; come membri della città dei santi e della casa di Dio, «noi dobbiamo con la fede e la speranza, come dice S. Paolo, vivere fin d'ora nel cielo» (Philip. III, 20).
E' la grazia che la Chiesa ci fa chiedere a Dio in questa solennità: «Concedeteci, o Dio onnipotente, poiché crediamo che il vostro Figlio unico, nostro Redentore, è oggi salito al cielo, che vi possiamo abitar anche noi col pensiero». Al Postcommunio della medesima messa chiediamo «di provare gli effetti invisibili di questi misteri cui noi partecipiamo visibilmente». Per la comunione, ci uniamo a Gesù, il quale, venendo, ci offre di prender parte, con la speranza, alle glorie di cui egli gioisce realmente; «e ce ne offre anche un pegno» (Antif. del Corpus Domini O Sacrum Convivium).
Oh portateci al Vostro seguito, o trionfatore magnifico e onnipotente: dateci di salire nei cieli con voi, di dimorarvi con la fede, la speranza e l'amore! Concedeteci di distaccarci da tutte le cose della terra che sono effimere per non cercare che i veri beni che non passano! «Possiamo noi essere col nostro cuore là ove sappiamo che la vostra santa umanità è ascesa corporalmente!» (S. Greg., Homilia XXIX in Evang., c. II).
IV. Sentimento di gioia profonda che fa nascere in noi questa glorificazione di Gesù: Tu esto nostrum gaudium.
L'ascensione di Gesù fa sbocciare nell'anima che fedelmente e devotamente la contempla molteplici sentimenti. Se Cristo non ha più possibilità di meritare, la sua ascensione ha la virtù tuttavia di produrre efficacemente le grazie che significa e simboleggia. Essa riafferma la nostra fede nella divinità di Gesù; accresce la nostra speranza con la visione della gloria del nostro capo; animandoci all'osservanza dei divini comandamenti e all'acquisto dei meriti che sono il principio della nostra futura beatitudine, rende il nostro amore più ardente. Essa genera in noi l'ammirazione per un trionfo così meraviglioso e la riconoscenza per il diritto di parteciparvi che Cristo ci largisce. «Elevando le nostre anime verso le celesti realtà, rende più sensibile il distacco dalle cose che passano» (Col. III, 1-2) ci dà finalmente la pazienza nelle avversità di quaggiù. Dice S. Paolo: «Se avremo condivisi i dolori di Cristo, saremo anche. associati alla sua gloria» (Rom. VIII, 17).
Vi sono tuttavia due sentimenti sui quali voglio fermarmi un poco, perché balzando con forza speciale dalla pia contemplazione di questo mistero sono dotati di una singolare fecondità per le anime nostre: essi sono la gioia e la confidenza.
E anzitutto, perché dobbiamo rallegrarci? Diceva nostro Signore ai suoi Apostoli prima di abbandonarli (Joan. XIV, 28): «Se voi mi amaste vi dovreste rallegrare poiché vado al Padre». Queste stesse parole Cristo le dice anche a noi. Se l'amiamo, dobbiamo anche rallegrarci della sua glorificazione; dobbiamo rallegrarci che, avendo egli compiuta ormai la sua missione, risalga alla destra del Padre suo per gustare, dopo tanti travagli e dolori, un eterno riposo in una gloria infinita. Una felicità, incomprensibile a noi, l'abbraccia e lo penetra eternamente, nel seno della divinità, mentre un supremo potere è a lui conferito su ogni creatura. Come non rallegrarci che per tal modo ogni giustizia sia resa, con la maggiore pienezza, a Gesù dal Padre suo?
Osservate come la Chiesa ci inviti nella sua liturgia a celebrarle con allegrezza l'esaltazione del suo Sposo, Dio e Redentore nostro.
Ora ella invita tutte le nazioni ad effondere la pienezza della loro gioia in inni ripetuti più volte: «Nazioni tutte, applaudite! ». «Esaltate Iddio con grida di giubilo!». «Perché il Signore si innalza in mezzo alle acclamazioni, e le trombe celebrano la sua venuta nel cielo». «Inneggiate al nostro Dio! Inneggiate al nostro Re! Cantate cantici armoniosi! Perché il Signore regna sulle nazioni e siede sopra il suo santo trono» (Ps. XLVI, I, 6-7, 9). «Esaltate il Re dei re e cantate un inno al Signore!» (4a antifona delle Laudi dell'Ascensione).
Ora invita invece le angeliche potenze: «Aprite le vostre porte, o principi del cielo, affinché possa entrarvi il Re della gloria». Stupefatti gli angeli domandano: «Chi è questo Re della gloria?» «E' il Signore pieno di forza e di potenza, il Signore che fa rifulgere il suo vigore nella battaglia». E gli spiriti celesti ripetono: «Chi è dunque questo Re della gloria?» «E' il Signore degli eserciti, egli solo è il Re della gloria» (Ps. XXIII, 7-16).
Ora finalmente, in un linguaggio pieno di poesia tolto al salmista, ella si rivolge allo stesso Gesù: «Innalzatevi, o Signore, con la vostra forza divina, perché canteremo e celebreremo i vostri trionfi» (Ibid. XX, 14). «La gloria vostra sfolgora nelle altezze dei cieli» (Ibid. VIII, 2). «Voi vi fate un carro con le nubi e volate sulle ali dei venti; voi vi siete ammantato di maestà e di splendore, e vi siete circonfuso di luce come di un manto» (Ibid. CIII, 1-3).
Sì, rallegriamoci! Quanti amano Gesù provano una gioia profonda ed intensa contemplandolo nel mistero della sua ascensione, nel ringraziare il Padre d'aver dato questa gloria al Figlio suo e nel felicitare Gesù per esserne l'oggetto.
Rallegriamoci ancora per essere questo trionfo e questa apoteosi di Gesù trionfo ed apoteosi nostra.
(Joan. XX, 17). «Io ritorno a mio Padre che è anche il Padre vostro, al mio Dio che è anche il vostro Dio». Gesù non fa che precederci: egli non si separa da noi né ci separa da lui. Se entra in un regno glorioso lo fa «per prepararci un posto»; e promette di «ritornare un giorno per prenderci» per farei sedere «là dove egli si trova» (Ibid. XIV, 2-3).
Noi ci troviamo già, in diritto, nella gloria e nella felicità di Gesù Cristo e un giorno vi saremo anche di fatto. Non l'ha egli domandato al Padre suo? (Joan. XVII, 24). Quale potenza in questa preghiera e quale dolcezza in questa promessa! Apriamo dunque il nostro cuore a questa gloria intima e spirituale. Nulla allarga tanto la nostra anima; nulla meglio di questo sentimento «fa camminare l'anima con maggiore slancio nella via dei comandamenti del Signore» (Ps. CXVIII, 32). Ripetiamo spesso a Gesù, in questi giorni santi, le ardenti aspirazioni dell'inno della festa:
Tu esto nostrum gaudium
Qui es futurus proemium;
Sit nostra in te gloria
Per cuncta semper saecula.
(Inno dei Vespri e delle Laudi [Breviario monastico].)
«Siate la nostra gioia, voi che un giorno sarete la nostra ricompensa; e che tutta la nostra gloria sia in voi, eternamente».
V. Perché una incrollabile confidenza deve parimenti animarci in questa solennità. Cristo entra nel Sancta Sanctorum come pontefice supremo e vi rimane come mediatore unico.
A questa gioia profonda bisogna aggiungere una confidenza incrollabile. La qual confidenza trova il suo appoggio nel «credito» possente che Gesù Cristo possiede presso il Padre suo non soltanto in qualità di Re invincibile che dà principio al suo trionfo, ma anche come pontefice supremo che intercede per noi dopo aver offerto a suo Padre una oblazione di un valore infinito. Ora è appunto in questo giorno dell'ascensione che Gesù ha dato principio in modo tutto particolare a questa singolare mediazione. E' questo un aspetto quanto mai profondo del mistero e sul quale è di somma utilità fermarci un poco, S. Paolo, che ce lo rivela nella lettera agli Ebrei, lo proclama «ineffabile» (Hebr. V, 11). Mi studierò quindi, sulle tracce del grande Apostolo, di darvene qualche idea, e che lo Spirito Santo ci aiuti a comprendere come siano meravigliose le vie di Dio.
S. Paolo ricorda anzitutto i riti del più solenne sacrificio dell'Antica Alleanza. Perché? Senza dubbio perché s'indirizzava ai Giudei; bisognava usare un linguaggio accessibile. Ma vi è una ragione anche più profonda. Quale? L'Apostolo stesso ce la rivela facendoci vedere lo strettissimo rapporto tra l'antico cerimoniale e il sacrificio di Cristo. In che cosa consiste questo rapporto? Come voi sapete, Dio, nella eterna sua prescienza, abbraccia tutta la serie dei secoli, e dispone le cose tutte con una misura e un equilibrio perfetto. Ora, egli ha voluto che gli avvenimenti principali, che hanno caratterizzato la storia del popolo eletto e i sacrifizi con cui aveva determinata la religione d'Israele, fossero altrettanti tipi imperfetti e altrettanti simboli oscuri delle realtà magnifiche che dovevano sottentrare loro dal momento che il Verbo Incarnato fosse apparso sulla terra (I Cor X, 11; Col. II, 17).
L'Apostolo insiste anzitutto sul sacrificio dei Giudei e non per il piacere di stabilire un semplice confronto inteso a facilitare ai suoi uditori l'intelligenza della sua esposizione, ma anche perché l'Antico Patto preannunziava, con i suoi lineamenti, le maraviglie della nuova Legge fondata da Cristo.
S. Paolo ricorda ancora quale era la struttura del tempio di Gerusalemme di cui Dio stesso aveva regolato tutti i particolari. «Vi era, egli dice, un primo tabernacolo, chiamato il "Santo" dove i sacerdoti potevano entrare in ogni tempo per il servizio del culto; al di là di un velo vi era poi un secondo tabernacolo chiamato il "Santo dei Santi" ove si trovavano l’altare d'oro dell'incenso e l'Arca dell'Alleanza» (Hebr. IX, 2-4). Questo «Santo dei Santi» era il luogo più augusto della terra. Era il centro cui convergeva tutto il culto d'Israele, cui si protendevano i pensieri e le mani di tutto il popolo ebreo. Questo avveniva perché in quel luogo Iddio vi aveva una dimora speciale e dove aveva promesso «di tenervi sempre fissati i suoi sguardi e il suo cuore» (III Reg. IX, 3), e dove egli in fine riceveva gli omaggi, benediceva i voti, esaudiva le preghiere d'Israele e dove si metteva, a così dire, a contatto col suo popolo.
Sennonché questo contatto, come sapete, non poteva avvenire che pel tramite del gran sacerdote. Tanto imponente era infatti la maestà di questo tabernacolo ove abitava Dio, che solo il supremo pontefice dei Giudei poteva entrarvi, pena la morte per qualsiasi altro che vi fosse entrato. Il pontefice vi entrava, vestito degli abiti pontificali, portando sul petto il misterioso «razionale», complesso di dodici pietre preziose sulle quali erano incisi i nomi delle dodici tribù d'Israele: solo in questa forma simbolica il popolo poteva avere accesso al Sancta Sanctorum.
Inoltre lo stesso gran sacerdote non poteva oltrepassare il velo del tabernacolo che una volta l'anno e non senza aver prima immolato al di fuori due vittime, una per i suoi peccati, l'altra per i peccati del popolo; ed asperso del loro sangue il propiziatorio ove riposava la maestà divina mentre i leviti ed il popolo riempivano gli atrii. Questo solenne sacrificio, con il quale il gran sacerdote offriva una volta l’anno a Dio, nel Santo dei Santi, gli omaggi di tutto il suo popolo e il sangue delle vittime per il peccato, costituiva l'azione suprema e più augusta del suo sacerdozio.
Tuttavia, come vi ho già spiegato, secondo S. Paolo, «tutto ciò non era che figura» (Hebr. IX, 9). E quante imperfezioni in questi simboli! Questo sacrifizio era così impotente che occorreva rinnovarlo ogni anno; questo pontefice era così imperfetto da non avere la facoltà di aprire l’ingresso del santuario al popolo da lui rappresentato, e da non potervi entrare lui stesso che una sola volta all'anno, e sotto la protezione, a così dire, del sangue delle vittime offerte per i suoi propri peccati.
Dove sono dunque le realtà? Dove il sacrificio perfetto, unico, che sostituirà per sempre queste offerte ripetute ed impotenti?
Noi le troviamo, e con quale pienezza, in Gesù Cristo. Cristo, dice S. Paolo, è il pontefice supremo, ma «un pontefice santo, innocente, separato dai peccatori e più elevato dei cieli»; (Hebr. VII, 26) «egli penetra in un tabernacolo che non è stato costruito dalla mano dell'uomo», (Ibid. IX, 11; cf. Ibid. 24) ma «nel cielo dei cieli», nel Santuario della divinità; (Ibid. VI, 19) come il gran sacerdote egli vi entra portando il sangue della vittima. Ma di quale vittima? Di animali forse come nell'Antica Alleanza? Oh! no, questo sangue non è che il «suo proprio sangue» (Ibid. IX, 12): sangue prezioso, di un valore infinito, sparso «al di fuori», cioè sulla terra e sparso per i peccati non più di un popolo solo ma di tutto il genere umano; egli vi penetra attraverso il velo, cioè per la sua santa umanità; «poiché appunto attraverso a questo velo ci è stata riaperta la via del cielo» (Ibid. X, 20); finalmente egli vi penetra non una volta all'anno, «ma una volta per tutte», (Ibid. IX, 12) poiché il suo sacrificio essendo perfetto e di un prezzo infinito è «unico e capace per sempre di procurare la perfezione a quanti esso vuole santificare» (Ibid. X, 14).
Sennonché ed è qui principalmente che l'opera divina è ammirabile e che la realtà trascende la figura Cristo non vi entra da solo. Il nostro pontefice porta con sé, non in modo simbolico, ma realmente, anche noi, perché noi siamo sue membra, la sua «pienezza», (Eph. I, 23) come dice l'Apostolo. Prima di lui non si poteva entrare nei cieli; e questa interdizione era simboleggiata dalla proibizione di varcare la soglia del Santo dei Santi, come ce lo dice lo Spirito Santo secondo la testimonianza di S. Paolo (Hebr. IX, 8).
Sennonché Gesù Cristo con la sua morte ha riconciliato l'umanità col Padre suo; ha strappato con le sue mani martirizzate il decreto del nostro ripudio (Cf. Col. II, 14). Quando morì, il velo del Tempio si spezzò in due parti. Che significa questo prodigio? Non solo che l'Antica Alleanza con il popolo giudaico era cessata, che i simboli cedevano il posto ad una realtà più alta è più efficace, ma anche che Cristo ci avrebbe riaperto le porte del cielo e dell'eterna eredità.
Nel giorno della sua ascensione, Cristo, Pontefice Supremo del genere umano, ci trasferisce con lui nel cielo in diritto e speranza.
Non dimenticate che non vi possiamo entrare che per lui perché nessun uomo può penetrare nel Santo dei Santi che insieme a lui, né alcuna creatura gioire dell'eterna felicità che al seguito di Gesù, i cui meriti solamente costituiscono il prezzo della nostra beatitudine infinita. Per tutta l'eternità gli diremo: «O Cristo Gesù, dobbiamo a voi, al vostro sangue sparso per noi, se ci troviamo al cospetto di Dio; dobbiamo al vostro sacrificio, alla vostra immolazione se possiamo ora gioire della nostra gloria e della nostra beatitudine: a voi, Agnello immolato, vada tutto l'onore, tutta la lode e ogni azione di grazie!».
Nell'attesa che Cristo Gesù venga, come ha promesso, a cercarci, «egli sta preparandoci un posto» e nel tempo stesso ci aiuta con le sue preghiere.
Ed infatti, che cosa fa in cielo questo pontefice supremo? San Paolo ci risponde che è entrato in cielo «per tenersi presente per noi dinanzi alla faccia di Dio» (Hebr. IX, 24). Il suo sacerdozio è eterno e, in conseguenza, eterna è la sua mediazione. E quale infinita potenza in questo suo credito! Egli è là davanti al Padre suo, presentandogli ininterrottamente il suo sacrificio, rammemorato dalle cicatrici che ha voluto conservare delle sue piaghe; egli é là, «sempre vivente e intercedente per noi» (Ibid. VII, 25).
Pontefice sempre ascoltato, egli ripete per noi la preghiera sacerdotale della Cena: «Padre, io prego per loro... Essi sono nel mondo... Custodite quelli che mi avete dati... Io prego per loro affinché essi abbiano in sé la pienezza della gioia... Padre, io voglio che là dove sono io vi siano pure essi, affinché vedano la gloria che mi avete data... affinché l'amore con cui voi mi avete amato sia in loro e che io pure sia in essi» (Joan. XVII, 9, 11, 13, 24, 26).
Queste sublimi verità della nostra fede non faranno nascere in noi una confidenza incrollabile? Anime di poca fede, che cosa possiamo mai temere? Che cosa non possiamo invece sperare? Gesù prega sempre per noi! Diceva ancora S. Paolo: «Il sangue imperfetto delle vittime di animali purificava la carne di quanti ne erano aspersi, e il sangue di Cristo, che senza macchia ha offerto se stesso al Padre, non dovrebbe purificare la nostra coscienza dalle opere del peccato affinché possiamo noi servire Iddio vivente?» (Hebr. IX, 13-14).
Nutriamo dunque un'assoluta confidenza nel sacrificio, nei meriti e nelle preghiere del nostro Pontefice. Egli é asceso oggi al cielo, ha dato principio col suo trionfo alla sua mediazione incessante, e poiché è il Figlio diletto nel quale il Padre pone le sue compiacenze, come potrebbe non venire esaudito dopo aver manifestato al Padre suo con il suo sacrificio un tale amore? (Hebr. V, 7).
O Padre, riguardate il Figlio vostro, riguardate le sue piaghe; e per lui ed in lui, concedeteci di essere un giorno là dove egli è, affinché ancora per lui, con lui ed in lui, vi possiamo rendere tutti gli onori e tutta la gloria!
VI. Appoggiarci a Cristo per «essere liberati dal male» in mezzo alle tristezze e alle prove della presente vita.
Quando, in questi santi giorni, farete la Comunione, aprite l'anima vostra a questi sentimenti di confidenza e di gioia.
Unendovi a Gesù Cristo, vi immedesimerete in lui; sarete in lui e lui in voi; sarete faccia a faccia col Padre: senza dubbio non lo vedrete, ma, per la fede, vi saprete davanti a Dio insieme a Gesù che vi presenta; sarete con lui nel seno del Padre, nel sacrario della divinità.
E' questa per noi la grande grazia dell'ascensione: partecipare nella fede all'ineffabile intimità che Gesù Cristo possiede nel cielo col Padre suo.
Si racconta nella vita di S. Gertrude che un giorno, nella solennità dell'Ascensione, quando ricevé la santa ostia dalla mano del sacerdote, intese Gesù che le diceva: «Eccomi, io vengo non per dirti addio ma per condurti con me al cielo e presentarti a mio Padre» (L'araldo dell'amore divino, l. IV, cap. XXXVI). «Appoggiata sopra Gesù, la nostra anima è potente, perché Gesù la rende partecipe di tutte le sue ricchezze e di tutti i suoi tesori» (Cant. VIII, 5).
Non scoraggiamoci dunque né abbiamo mai timore, nonostante le nostre miserie, di avvicinarci a Dio; poiché per la grazia del Salvatore, e insieme a lui, possiamo essere sempre nel seno del Padre nostro celeste.
Appoggiamoci a Gesù Cristo, non soltanto nella preghiera, ma anche in tutto ciò che facciamo. E saremo forti. Se «senza di lui non possiamo far nulla»: (Joan. XV, 5) «con lui tutto possiamo» (Philip. IV, 13). Noi troviamo in lui, con la sorgente di una grande fiducia, il coefficiente più efficace della fedeltà e della pazienza in mezzo alle tristezze, le contrarietà, le prove le sofferenze che dobbiamo sostenere quaggiù fino al termine del nostro esilio.
Sul punto di terminare la sua vita mortale, Gesù indirizza al Padre per i suoi discepoli che stava per abbandonare, una commovente preghiera: «Padre santo, quando mi trovavo con loro li guardavo io stesso; ora che debbo ritornare presso di te, ti prego non di toglierli da questo mondo ma di liberarli dal male» (Joan. XVII, 12-13, 15).
Quale sollecitudine divina traspare da queste parole! Nostro Signore l'ha dette per noi tutti. E la Chiesa, che entra sempre nei sentimenti del suo Sposo, se ne è ispirata nella «Secreta» della messa dell'Ascensione. «Ricevete, o Signore, i doni che noi vi offriamo in memoria dell'Ascensione gloriosa del Figlio vostro; degnatevi di liberarci dai pericoli della vita presente e di farci pervenire all'eterna vita per il medesimo Gesù Cristo nostro Signore». Perché questa preghiera di Gesù è stata fatta sua dalla Chiesa?
Perché vi sono degli ostacoli che ci impediscono di andare a Dio e questi ostacoli si riassumono tutti nel peccato che ci allontana da Dio. Nostro Signore domanda che veniamo liberati dal male, cioè dal peccato, che, allontanandoci dal Padre suo celeste, è il solo vero male. Abbandonati a noi stessi, alla nostra debolezza non possiamo evitare questi ostacoli, ma ben lo potremo se ci appoggiamo su Cristo. Egli sale oggi al cielo, vittorioso di Satana e del mondo (Joan XVI, 33; Joan XIV, 30). Egli entra, come un pontefice onnipotente, nel santuario divino. Con la comunione, nostro Signore ci mette a parte della sua potenza e del suo trionfo. E' per questo che dobbiamo appoggiarci tanto su di lui.
Con Cristo che offre per noi i suoi meriti al Padre suo, non vi sono più tentazioni che non possiamo vincere; non vi sono più difficoltà che non possiamo superare; o avversità che non ci sia possibile sostenere, né gioie colpevoli di cui non ci sia possibile liberarci. Nell'attesa di riunirci con Gesù nel cielo o, meglio, nell'attesa che, Gesù stesso là ci attiri, (poiché «egli sta preparandoci un posto»), viviamoci fin d'ora con la fede nella potenza senza limiti della sua preghiera e della sua intercessione, con la speranza di condividere un giorno la sua felicità, con l'amore che ci dispone gioiosamente e generosamente al completo e fedele adempimento della sua volontà (Orazione della domenica nell'ottava dell'Ascensione). Così parteciperemo pienamente a questo mirabile mistero della gloriosa ascensione di Gesù.