Una sola soluzione possibile ai problemi di oggi: il Regno di Cristo

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Prima di indirizzarvi le riflessioni che seguono, vorrei dissipare alcuni malintesi. […] Mi scuso per la franchezza, ma sono obbligato a dirlo: io non sono né mai ho sognato di definirmi «il capo dei tradizionalisti». […] Altri hanno affermato questo, anche a Roma, ma io non lo sono affatto. Perché? Perché anch’io sono un semplice cattolico. Sacerdote, certo, e Vescovo anche, ma mi trovo precisamente nelle stesse condizioni in cui vi trovate voi e con le stesse reazioni davanti alla distruzione della Chiesa, davanti alla distruzione della nostra fede, davanti alle rovine che si accumulano sotto i nostri occhi.

Avendo avuto la stessa reazione, ho pensato che fosse mio dovere formare dei sacerdoti alla maniera tradizionale, perché la Chiesa ne ha bisogno. E questi sacerdoti li ho formati nella Fraternità San Pio X, che è stata riconosciuta dalla Chiesa. Non facevo altro da ciò che tutti i Vescovi hanno fatto durante secoli e secoli, non ho fatto altro che quello che ho fatto in trent’anni di vita sacerdotale.

Questo mi è valso d’essere Vescovo, Delegato apostolico in Africa, membro della Commissione centrale preparatoria del Concilio e assistente al trono pontificio. Che cosa potevo domandare di più come prova che la Chiesa stimava il mio lavoro come utile e benefico al bene delle anime?

Ora io faccio le stesse cose, un’opera in tutto e per tutto simile a quella che ho compiuto per trent’anni, ed ecco che, improvvisamente, vengo sospeso a divinis, magari tra un po’ scomunicato, separato dalla Chiesa, rinnegato e non so che altro. È possibile? Forse anche quello che si è fatto per tutti gli anni precedenti era suscettibile di una sospensione a divinis?

Al contrario, penso che se in passato avessi preparato dei seminaristi come lo si fa oggi nei nuovi seminari, io sarei stato scomunicato. Se allora avessi insegnato il catechismo che si insegna oggi nelle scuole, mi avrebbero considerato eretico. E se avessi detto la Santa Messa come la si dice ora, mi avrebbero considerato come minimo sospetto di eresia, se non fuori della Chiesa. Allora io non capisco. Davvero qualcosa è cambiato nella Chiesa ed è qui il nodo della questione.

La nostra fede è in pericolo

Torniamo ora alle ragioni della mia presa di posizione. Sì, lo riconosco, è una scelta molto grave: opporsi alle massime autorità della Chiesa ed essere sospeso a divinis per un Vescovo è una cosa veramente grave, una cosa dolorosissima. Come si può sopportare un fatto simile, se non per delle ragioni altrettanto gravi? E le ragioni del mio, del nostro comportamento sono, infatti, ragioni gravi. Si tratta della difesa della nostra fede.

Qualcuno allora potrebbe chiedere: le autorità che si trovano in Vaticano, dunque, mettono in pericolo la nostra fede? Io non giudico quelle autorità. Non voglio giudicarle come persone. Ma dobbiamo attenerci ai fatti, come ricorda benissimo Gesù nel Vangelo quando, parlando dei lupi che si nascondono sotto pelli di agnelli, dice che l’albero si riconosce dai frutti.

Ed ora i frutti sono sotto i nostri occhi. I frutti che vengono dal Concilio Vaticano II e dalle riforme che ne sono seguite sono frutti amari, frutti che demoliscono la Chiesa. Quando mi viene detto che va bene lottare contro la crisi della Chiesa, ma che non bisogna toccare il Concilio perché le riforme post-conciliari si sono spinte oltre le sue direttive, che non erano così rivoluzionarie, io rispondo che non sono io che ho fatto le riforme, mentre coloro che ne sono gli autori affermano apertamente di averle fatte tutte in nome del Concilio. E loro sono le autorità della Chiesa. Di conseguenza sono loro gli unici legittimi interpreti del Concilio.

Cosa è successo nel Concilio Vaticano II

Ma che cosa è avvenuto in Concilio? Possiamo saperlo facilmente leggendo i libri proprio di coloro che sono stati gli strumenti o gli ideologi del cambiamento nella Chiesa che si è operato sotto i nostri occhi. Leggete per esempio il libro sul cattolicesimo liberale scritto nel 1969 dal senatore del Doubs, il signor Prelot, e lui, cattolico liberale, vi dirà che cos’è il Concilio. Lo afferma nelle prime pagine della sua opera: «Abbiamo lottato per un secolo e mezzo per far prevalere le nostre opinioni all’interno della Chiesa e non ci siamo riusciti. Finalmente è venuto il Vaticano II e abbiamo trionfato. Ormai le tesi e i principi del cattolicesimo liberale sono definitivamente e ufficialmente accettati dalla Chiesa». Non vi sembra una testimonianza emblematica? Non sono io ad affermarlo, ma lui stesso lo dice in tono trionfale, rallegrandosene. Noi, lo diciamo piangendo.

Infatti, cosa hanno perseguito i cattolici liberali per un secolo e mezzo? Conciliare la Chiesa con la Rivoluzione liberale. Conciliare la Chiesa con la sovversione. Conciliare la Chiesa con le forze distruttrici della società, di ogni società: la famiglia, la società civile e, soprattutto, quella religiosa.

Queste ‘nozze adultere’ della Chiesa sono inscritte nel Concilio. Tutta la costituzione conciliare Gaudium et spes è permeata di questa aspirazione: coniugare i princìpi della Chiesa con le concezioni dell’uomo moderno. Cosa significa? Significa che bisogna coniugare la Chiesa cattolica, la Chiesa di Nostro Signore Gesù Cristo con princìpi che le manifestamente contrari, che la minano fin dalle fondamenta. È proprio questo connubio impossibile che è stato tentato durante il Concilio dagli uomini di Chiesa. Dagli uomini di Chiesa – occorre prestare attenzione a questa distinzione – non dalla Chiesa in sé, come istituzione divina: perché mai la Chiesa potrebbe compiere una cosa simile.

Per un secolo e mezzo tutti i Sommi Pontefici hanno condannato il cattolicesimo liberale, hanno rifiutato questo sposalizio con le idee della Rivoluzione, con le idee di coloro che hanno adorato “la dea Ragione”. In nome di questi princìpi rivoluzionari tanti sacerdoti sono stati condannati e religiosi e religiose sono stati perseguitati e assassinati.

Quali sono i frutti del Concilio?

[…] Ebbene, miei carissimi amici, io oso affermare che quello che ha fatto la Rivoluzione è niente a paragone di ciò che ha fatto il Concilio Vaticano II. Se sapessero in quale rischio pongono la loro anima, i trenta, quaranta, cinquantamila sacerdoti che hanno abbandonato l’abito, che hanno abbandonato il giuramento fatto davanti a Dio, preferirebbero essere stati  martirizzati: almeno avrebbero salvato l’anima. Mentre ora rischiano di perderla.

Ci riferiscono che tra questi poveri sacerdoti sposati molti sono già divorziati, molti altri hanno fatto domanda di annullamento del matrimonio a Roma. Come interpretare fatti simili? Per non parlare delle suore! Decine di migliaia di suore solo negli Stati Uniti hanno abbandonato i loro Istituti religiosi, le loro Congregazioni, il loro giuramento espresso in voti perpetui, hanno rotto il legame che avevano con Nostro Signore Gesù Cristo per correre anch’esse al matrimonio.

Avrebbero preferito anche loro salire alla ghigliottina: almeno avrebbero testimoniato la loro fede. Quando un nemico della Chiesa uccide dei cristiani, genera dei martiri e fa ciò che l’adagio tertullianeo diceva nei primi secoli: Sanguis martyrum semen christianorum, “il sangue dei martiri è la semenza dei cristiani”.

E questo lo sanno bene coloro che perseguitano i cristiani. Hanno paura di farne dei martiri, perché sanno precisamente che il loro sangue è semenza di cristiani. E ed è veramente paradossale che nell’orientamento post-conciliare non si vogliano più fare dei martiri e che quindi si offra al demonio l’opportunità di vincere… per mezzo dell’obbedienza!

Distruggere la Chiesa per mezzo dell’obbedienza. La vediamo distruggere sotto i nostri occhi tutti i giorni. I seminari sono sempre più vuoti. Dove sono e soprattutto chi sono questi seminaristi? Sanno che saranno sacerdoti? Sanno quello faranno, quando saranno sacerdoti? Perché questa unione voluta dai cattolici liberali tra la Chiesa e sovversione rivoluzionaria è un’unione adultera, e da essa quindi non possono nascere che degli ibridi. E chi sono questi ibridi? Sono i nuovi riti. Il nuovo rito della Messa è un rito ibrido, i nuovi Sacramenti sono Sacramenti ibridi: non sappiamo più sempre se sono Sacramenti che dànno veramente la grazia. Non sappiamo più sempre se le Messe celebrate oggi donano veramente il Corpo e il Sangue del Signore oppure no. I preti che escono dai seminari, spesso, non sanno più nemmeno loro quello che sono.

Perché non ci sono più vocazioni? Perché non si sa più chi sia il sacerdote. E come si potranno formare dei sacerdoti, se non si sa più chi sia un sacerdoti? I sacerdoti formati alla maniera nuova non sanno più cosa sono. Non sanno che sono fatti per salire all’altare e offrire il Sacrificio di Nostro Signore Gesù Cristo e donare Gesù Cristo alle anime e chiamare le anime a Gesù Cristo. Ecco che cos’è un prete. E i giovani seminaristi formati secondo la Tradizione lo sanno bene. Tutta la loro vita sarà consacrata a questo fine: amare, adorare, servire Gesù nella Santa Eucaristia, perché essi credono alla Presenza reale di Nostro Signore nell’Eucaristia.

Dialogare senza convertire è contrario alla carità evangelica

Questo connubio adultero della Chiesa e della sovversione rivoluzionaria si concretizza oggi sotto il pretesto del cosiddetto dialogo.

Anche in passato, è vero, la Chiesa dialogava, ma lo faceva allo scopo di convertire, perché il Signore ha comandato: “Andate e fate miei discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Non ci ha detto di andare a dialogare senza lo scopo di convertire, semplicemente per metterci alla pari con l’interlocutore. L’errore e la verità non sono compatibili. E questo lo capiamo solo se abbiamo veramente carità verso il prossimo, come insegna il Vangelo. Colui che ha carità, si pone al servizio degli altri, dona la propria ricchezza, Gesù Cristo, agli altri. Non instaura con loro un dialogo fine a sé stesso.

[…] Ne consegue che noi dobbiamo essere degli autentici missionari. Dobbiamo predicare il Vangelo, convertire le anime a Gesù Cristo e non dialogare con loro senza voler convertirli, o peggio perseguendo una mutua assimilazione dei princìpi delle rispettive confessioni religiose. 

La pietra d’inciampo del dialogo fine a sé stesso: la Divinità di Gesù Cristo

Ma qual è il motivo più importante e più profondo per cui, in modo fermo e risoluto, respingiamo questa unione adultera della Chiesa con la sovversione rivoluzionaria? Questo motivo, cari fratelli, è che noi affermiamo la Divinità di Gesù Cristo.

Perché Simone è diventato Pietro? Ricordate il Vangelo. Pietro è diventato Pietro perché ha professato la Divinità di Gesù Cristo. E anche tutti gli altri Apostoli hanno professato questa fede, pubblicamente, dopo la Pentecoste. E perciò sono stati perseguitati immediatamente. I prìncipi dei sacerdoti ebraici hanno detto loro di non parlare più di Gesù Cristo come Dio. Ma gli apostoli hanno risposto non possumus: non possiamo non parlare di Nostro Signore Gesù Cristo, nostro Re.

Qualcuno forse domanderà: «Ma è mai possibile? Sembra che voi accusiate il Vaticano di non credere alla Divinità di Nostro Signore!». Ebbene, la realtà è ben più complessa. L’ideologia del liberalismo, che oggi gode di enorme diffusione presso le autorità ecclesiastiche, ha sempre due facce: da una parte esso afferma la verità, che pretende essere la tesi, e poi, nel concreto, nella pratica, nella ipotesi, come la definisce, agisce proprio come i nemici della Chiesa, in base ai loro princìpi. Risulta perciò caratterizzato da una perpetua contraddizione.

In definitiva, infatti, cosa significa e cosa comporta affermare la Divinità di Gesù Cristo? Significa professare che Egli è l’unica Persona al mondo che ha potuto dire veracemente: «Io sono Dio». E per ciò stesso Egli è il solo Salvatore dell’umanità, il solo Sommo Sacerdote dell’umanità, il solo Re dell’umanità. Per la Sua natura, non per un privilegio, non per titolo conferitogli, ma appunto per la Sua stessa natura, perché Egli è il Figlio di Dio.

Invece che cosa si afferma oggi? Che non solo in Gesù Cristo si trova la salvezza, che c’è salvezza anche al di fuori di Lui. Che non c’è solo il Sacerdozio di Gesù Cristo, che tutti i fedeli condividono il sacerdozio universale e perciò non sono distinti in maniera sostanziale dai ministri del culto. Errore madornale, perché occorre partecipare sacramentalmente al Sacerdozio di Nostro Signore Gesù Cristo per poter offrire il Santo Sacrificio della Messa.

Infine, non si ammette più il Regno Sociale di Gesù Cristo, col pretesto che esso non sarebbe più possibile. Questo l’ho udito personalmente dalla bocca di numerose autorità ecclesiastiche. E allora quando mi  chiedono perché sono contro il Concilio, io rispondo: come è possibile accettare il Concilio, quando, in nome del Concilio, voi insegnate che non devono più esistere Stati sui quali regni Nostro Signore Gesù Cristo? Occorre qui prestare attenzione ad una differenza fondamentale. Una cosa è constatare che, in certe contingenze storico-temporali, questo non sia attualmente possibile, non sia praticabile; tutt’altra è professare questa impossibilità come un principio, in base al quale regolarci, in base al quale rifiutarci a priori di ricercare il Regno di Nostro Signore nella società civile.

Cosa diciamo tutti i giorni recitando il Padre Nostro? «Venga il Tuo regno, sia fatta la tua volontà così in cielo come in terra». E allora in che cosa consiste questo regno? E nel Gloria cantiamo Tu solus Dominus, Tu solus Altissimus, Jesu Christe, «Tu il solo Signore, Tu solo l’Altissimo, Gesù Cristo». Sarebbe giusto, sarebbe coerente se noi lo cantassimo durante la Messa e poi, usciti di chiesa, «No», dicessimo, «in realtà non bisogna che Gesù regni ancora su di noi»? C’è logica in tutto questo? Siamo o non siamo cristiani?

Il Regno di Cristo porta anche la pace economica e sociale sulla terra

Non ci sarà pace sulla terra che nel Regno di Nostro Signore Gesù Cristo. Gli Stati si dibattono tra difficoltà di ogni genere e soprattutto economiche. Ebbene, anche dal punto di vista economico, bisogna che Nostro Signore regni. Perché i comandamenti e la legge d’amore di Gesù Cristo mettono l’equilibrio nella società, fanno regnare la pace e la giustizia, da cui deriva l’ordine civile, e favoriscono l’economia. […] Ecco il Regno di Nostro Signore Gesù Cristo che vogliamo, nel momento in cui professiamo la nostra fede affermando che Gesù Cristo è Dio.

Ed ecco anche un altro motivo per cui vogliamo custodire la Messa tradizionale. Perché? Perché questa Messa è in sé stessa una proclamazione della Regalità di Nostro Signore. La nuova Messa, invece, è una specie di Messa ibrida, non è gerarchica – con Gesù Sommo Sacerdote a capo – ma “democratica”, in cui l’assemblea prende più spazio di Gesù Cristo e non afferma più la Regalità di Nostro Signore. Perché Gesù Cristo, in definitiva, in che modo è divenuto Re? Paradossalmente, proprio morendo sulla Croce: Regnavit a ligno Deus. Gesù Cristo ha regnato attraverso il legno della Croce, perché quella Croce ha vinto il peccato, ha vinto il demonio, ha vinto la morte. E sono tre splendide vittorie.

Qualcuno dirà che questo è fare del «trionfalismo»? Pensiamo per un attimo a quello che hanno fatto i nostri antenati per costruire tante magnifiche cattedrali. Perché mai spendere tanto danaro, loro che erano ben più poveri di noi, perché spendere tanto tempo per erigere quelle magnifiche cattedrali che non solo tutti i cristiani, ma anche i non credenti, ammirano ancora oggi? Perché? Per l’altare del Sacrificio. Per Nostro Signore Gesù Cristo. Per sottolineare il trionfo della Croce di Gesù Cristo, per collocare il più degnamente possibile il luogo in cui si rinnova nella Santa Messa questo trionfo di Gesù venuto a riscattarci e a salvarci, ieri come oggi e come domani.

Di fronte al mistero insondabile della transustanziazione noi ci inginocchiamo. Noi vogliamo adorare la Santa Eucaristia e celebrare la vittoria di Gesù Cristo sul male, la riconciliazione col Padre, uniti a tutti i santi martiri, confessori e dottori della Chiesa. Noi vogliamo solamente che ci lascino professare la nostra fede nel Signore.

Eppure ci cacciano dalle chiese per questo motivo, cacciano i poveri sacerdoti che dicono la Messa tradizionale, grazie alla quale sono stati santificati tutti i nostri santi e le nostre sante: santa Giovanna d’Arco, il Santo Curato d’Ars, la piccola Teresa del Bambin Gesù, e la lista potrebbe essere ancora lunghissima. Tanti poveri sacerdoti sono cacciati brutalmente dalle loro parrocchie perché dicono la Messa che ha generato santi per dei secoli. È assurdo! Direi persino che è da pazzi. Mi chiedo se sto sognando. Non è possibile che questa Messa sia divenuta motivo di contrasto con i nostri Vescovi e con coloro che dovrebbero preservare la nostra fede.

Non è per ragioni estetiche che vogliamo la Messa tradizionale

Ebbene, noi custodiremo la Messa tradizionale, perché è la Messa di venti secoli di Cristianesimo, perché è la Messa di sempre. Non è solamente la «Messa di San Pio V», essa è la Messa che esprime la nostra fede. Abbiamo bisogno di questo baluardo per difendere la fede.

Allora ci accusano di farne una questione di latino e di tonaca, una questione puramente estetica. È molto facile e sbrigativo, e intellettualmente scorretto, screditare in questo modo coloro con cui non si è d’accordo.

Certo, è comunque vero che il latino ha la sua importanza, perché è la lingua della Chiesa, della sana teologia, e non permette ambiguità. Ma è anche la lingua per mezzo della quale i popoli più diversi si sono potuti unire alla Chiesa cattolica nella preghiera e nel canto liturgico. Basta pensare ai fedeli dell’Africa, che hanno sempre amato il latino. Ora, tutti pretendono la Messa nella loro lingua: è una confusione totale. D’altro canto, per una maggiore comprensione della parte istruttiva della Messa, non vedo alcun inconveniente a leggere in lingua nazionale l’Epistola e il Vangelo e qualche altra preghiera comune. Ma il corpo essenziale della Messa, che va dall’Offertorio alla Comunione del sacerdote, deve restare in una lingua uniforme come è il latino, perché i fedeli di ogni nazione possano assistere alla Messa insieme e sentirsi coesi nell’unità della fede e nell’unità nella preghiera.

Una sola soluzione possibile ai problemi di oggi: il Regno di Cristo

Perciò rivolgiamo un appello a tutti i Vescovi e al Vaticano: che vogliano prendere in considerazione la nostra fervida richiesta, quella di pregare come tutti i nostri predecessori, di conservare la fede cattolica, di adorare Nostro Signore Gesù Cristo, di volere il suo Regno.

Sono un po’ i punti di una delle lettere che ho scritto al Santo Padre Paolo VI: «Santissimo Padre», l’ho supplicato, «ci restituisca il Diritto pubblico della Chiesa, ossia il Regno di Nostro Signore; ci restituisca la vera Bibbia e non una Bibbia ecumenica, ma la Vulgata, tanto spesso consacrata da Papi e da Concili. Ci restituisca la vera Messa […], una Messa che difenda la nostra fede, come quella celebrata per secoli e secoli e che ha santificato tanti cattolici. Ci restituisca, infine, il catechismo, modellato su quello del Concilio di Trento». Perché, senza una fede definita, che ne sarà dei nostri figli domani, delle generazioni future? Non conosceranno più i princìpi della fede cristiana, come purtroppo già oggi constatiamo. Ma, ahimè, non mi è giunta alcuna risposta, eccetto la sospensione a divinis.

Ed è per tutte queste ragioni che io non giudico validi questi provvedimenti nei miei confronti, sia dal punto di vista canonico che da quello teologico. In tutta sincerità, in tutta pace, in tutta serenità io non posso, sottomettendomi a queste pene e facendo ammenda del mio operato, con la chiusura dei miei seminari e la sospensione delle Ordinazioni sacerdotali, io non voglio contribuire all’autodemolizione della Chiesa.

I cattolici fedeli alla Tradizione devono restare uniti

[…] Talvolta qualche giornalista mi ha chiesto: «Monsignore, ma lei non si sente isolato?». Io rispondevo: «No, affatto. Non mi sento isolato. Sono in compagnia di venti secoli di Chiesa, di tutti i santi del Paradiso». Perché? Perché essi hanno pregato come noi, perché si sono santificati come noi cerchiamo di fare, con gli stessi mezzi. Sono convinto che anch’essi se ne rallegrano […]. «Almeno», può darsi che dicano, «ci sono dei cristiani che pregano ancora, che hanno nel loro cuore il desiderio della preghiera, di onorare Nostro Signore Gesù Cristo». I santi del Cielo si rallegrano, i vostri Angeli custodi si rallegrano.

 

Allora non disperiamo, ma preghiamo: preghiamo e santifichiamoci. Occorre perseverare costanti nella fede. E uniti: che tra di noi non ci siano divisioni. Che non si possa dire di noi cattolici – non amo troppo usare il termine «tradizionalisti», che sembra sottintendere che esiste anche un modo di essere cattolici senza conservare la Tradizione – che siamo divisi, che non siamo d’accordo tra di noi. L’unità di fede è l’unità della Chiesa. E ci può essere unità solo nella fede. Se rimaniamo cattolici, rimaniamo nell’unità della Chiesa.

Non è nostra intenzione giudicare il Papa

Ci viene anche obiettato: «Dovete stare con il Papa! È il Papa il segno della fede nella Chiesa» Verissimo! Io sono pienamente d’accordo. Nella misura in cui il Papa manifesta la sua condizione di successore di Pietro, trasmettendo il tesoro che deve trasmettere, è il segno visibile della fede della Chiesa. Perché, in effetti, chi è il Papa, se non colui che per eccellenza ci trasmette i tesori della Tradizione, il tesoro del deposito della fede, la vita soprannaturale per mezzo dei sacramenti e del Sacrificio della Messa. Il Vescovo in questo ha lo stesso compito: trasmettere la Verità, una Verità che non ci appartiene. La Verità non ci appartiene, e non appartiene più al Papa che a noi. Sotto questo aspetto, egli è servitore della Verità come dobbiamo esserlo anche noi.

Se accadesse che il Papa non fosse più il servitore della Verità, non sarebbe più Papa. Non sarebbe possibile. Ma io non sostengo affatto questo […]. Dico semplicemente che […] non potremmo seguire qualcuno nella misura in cui ci trascina nell’errore. È evidente.

Ma, si obietterà, qual è il criterio della Verità? Mi si rimprovera di giudicare il Papa e di elevarmi a criterio della Verità. Certamente, non sono io a fare la Verità, ma nemmeno il Papa. È piuttosto la Verità che fa il Papa. E la Verità è Nostro Signore Gesù Cristo: dunque ci dobbiamo rapportare a ciò che Nostro Signore ci ha insegnato, a ciò che gli Apostoli ci hanno trasmesso con i Padri della Chiesa e con tutta la Chiesa docente per sapere dov’è la Verità. Non sono io a giudicare il Papa: è la Tradizione. Un bambino di cinque anni, con il suo catechismo, potrebbe benissimo rispondere al suo Vescovo, se questi gli dicesse: «Gesù non è presente nella Santa Eucaristia. Io, impegnando la Verità, ti dico che Nostro Signore non è presente nella Santa Eucaristia». Quel bambino di cinque anni, col suo catechismo, può leggere e rispondere: «Il mio catechismo dice il contrario». Allora, chi ha ragione? Il Vescovo o il catechismo? Ha ragione il catechismo, evidentemente! Il catechismo, che rappresenta la fede di sempre. È molto semplice.

Lasciateci fare l’esperienza della Tradizione

Mi sembra di poter concludere solo dicendo che dobbiamo veramente pregare, tutti insieme, affinché il buon Dio ci dia i mezzi per risolvere questi problemi. E pensare che sarebbe così semplice. Se solo ciascun Vescovo nella sua diocesi mettesse a disposizione dei fedeli cattolici legati alla Tradizione una chiesa, che immensi benefici se ne trarrebbero […]! Quando si pensa che molti Vescovi oggi non esitano a concedere chiese ai gruppi religiosi più disparati, non vedo perché non potrebbe esserci una chiesa per i cattolici fedeli alla Tradizione. Così tutto sarebbe risolto. Sarebbe quello che domanderei al Papa, se il Papa mi ricevesse: «Santo Padre, ci lasci fare l’esperienza della Tradizione».

 


Mons.Marcel Lefebvre - estratti dell'omelia tenuta a Lilla il 29 agosto 1976


Documento stampato il 22/11/2024