Molto Reverendo Superiore generale, Lei è il successore di un vescovo che è stato a capo della Fraternità San Pio X per ventiquattro anni e che, per altro, L’ha anche ordinata sacerdote. Come si sente a succedergli?
Mi hanno già posto una domanda simile quando sono stato nominato rettore del seminario de La Reja, dato che due vescovi mi avevano preceduto nello stesso incarico. Diciamo che questa volta è un po’ più complicato!
Mons. Fellay è una personalità importante nella storia della Fraternità, visto che l’ha diretta per un periodo di tempo che corrisponde a metà della sua esistenza. Durante questo lungo periodo le prove non sono certo mancate, e tuttavia la Fraternità è sempre qui che porta alto lo stendardo della Tradizione. Ritengo che questa fedeltà della Fraternità alla sua missione è in qualche modo un riflesso della fedeltà del mio predecessore alla sua propria missione. Tengo a ringraziarlo a nome di tutti per questo.
Alcuni hanno comunque voluto vedere il Lei una personalità molto diversa da quella del Suo predecessore. C’è un punto rispetto al quale si sente veramente diverso?
Devo confessare – cum grano salis – che detesto in maniera irrimediabile tutti i mezzi elettronici, senza eccezione e senza possibilità di cambiare opinione, mentre Mons. Fellay è un esperto in materia…
Come vede la Fraternità San Pio X, che dovrà dirigere per dodici anni?
La Fraternità ha in mano un tesoro. Più volte è stato ripetuto che questo tesoro appartiene alla Chiesa, ma penso che si possa dire che appartiene di pieno diritto anche a noi: è nostro ed è per questo che la Fraternità è perfettamente un’opera di Chiesa, già adesso!
La Tradizione è un tesoro, ma per custodirlo fedelmente dobbiamo essere coscienti di essere dei vasi d’argilla. La chiave del nostro futuro è qui, nella consapevolezza della nostra debolezza e della necessità di vigilare su noi stessi. Professare la fede nella sua integrità non basta se le nostre vite non sono un’espressione fedele e concreta di questa integralità della fede. Vivere della Tradizione vuol dire difenderla, lottare per essa, battersi perché possa trionfare prima di tutto in noi stessi e nelle nostre famiglie, per poter poi trionfare nella Chiesa tutta.
Il nostro desiderio più sentito è che la Chiesa ufficiale cessi di considerare la Tradizione come un fardello o un mucchio di anticaglie obsolete, ma che guardi a essa come l’unica via possibile per rigenerarsi. Le grandi discussioni dottrinali, tuttavia, non saranno sufficienti a portare avanti quest’opera: abbiamo bisogno prima di tutto di anime che siano pronte a ogni sorta di sacrificio. E questo vale per i consacrati così come per i fedeli.
Anche noi dobbiamo rinnovare sempre il nostro sguardo sulla Tradizione, non in modo puramente teorico, ma in maniera veramente soprannaturale, alla luce del sacrificio di Nostro Signore sulla Croce. Facendo così ci preserveremo da due pericoli opposti, che spesso si alimentano a vicenda: una certa stanchezza pessimista, se non disfattista, e un cerebralismo che inaridisce.
Sono convinto che sia questa la chiave per far fronte alle difficoltà che potranno presentarsi. Predicare il Vangelo, a tempo e fuor di tempo, con grande pazienza e istruendo sempre.
Anche per quanto riguarda il problema principale della crisi nella Chiesa?
Quali sono gli argomenti importanti oggi? Le vocazioni, la santificazione dei sacerdoti, la cura delle anime. La situazione drammatica della Chiesa non deve avere sulle nostre menti un impatto psicologico tale da impedirci di svolgere i nostri doveri. La lucidità non dev’essere paralizzante: quando lo diventa, si trasforma in tenebre. Guardare la crisi alla luce della Croce ci permette di mantenere la serenità e il dovuto distacco, entrambi indispensabili per garantirci la sicurezza del nostro giudizio.
La situazione attuale della Chiesa è quella di un tragico declino: crollo delle vocazioni, del numero di preti, della pratica religiosa, scomparsa della abitudini cristiane, del senso di Dio il più elementare, che oggi si manifestano – ahimè! – nella distruzione della morale naturale…
Ora, la Fraternità possiede tutti i mezzi per guidare il movimento di ritorno alla Tradizione. Più precisamente, dobbiamo far fronte a due esigenze:
- da un lato, preservare la nostra identità, ribadendo la verità e denunciando l’errore: «Praedica verbum: insta opportune, importune: argue, obsecra, increpa, predica il Vangelo, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, minaccia, esorta» (II Tim. 4, 2);
- dall’altro, « in omni patientia, et doctrina, con grande pazienza e sempre istruendo » (ibidem): attirare alla Tradizione quelli che camminano in questa direzione, incoraggiarli, introdurli gradualmente alla lotta e a un’attitudine sempre più coraggiosa. Ci sono ancora delle anime autenticamente cattoliche, che sono assetate di verità. Non abbiamo il diritto di rifiutare loro il bicchiere d’acqua fresca del Vangelo assumendo un atteggiamento indifferente o altezzoso. Spesso queste anime finiscono per motivarci a loro volta con il loro coraggio e la loro determinazione.
Si tratta di due esigenze complementari, che non si possono separare: non si può privilegiare la denuncia degli errori nati dal Vaticano II a discapito dell’assistenza dovuta a coloro che prendono coscienza della crisi e che hanno bisogno di essere illuminati, né privilegiare quest’ultima a discapito della denuncia degli errori. Questa duplice esigenza è profondamente una, perché è la manifestazione dell’unica carità della verità.
Come si traduce concretamente quest’aiuto alle anime assettate di verità?
Penso che non si debbano mettere limiti alla Provvidenza, che ci darà, caso per caso, i mezzi adatti alle diverse situazioni. Ogni anima è un mondo a sé, ha dietro di sé un percorso personale e bisogna conoscerla nella sua individualità per essere capaci di venirle in aiuto in maniera efficace. Si tratta prima di tutto di un atteggiamento di fondo da coltivare in noi stessi, una disposizione preliminare ad aiutare, e non una preoccupazione illusoria di stabilire una procedura universale da applicare a ognuno.
Per dare degli esempi concreti, attualmente i nostri seminari ospitano diversi sacerdoti esterni alla Fraternità – tre a Zaitzkofen e due a La Reja – che vogliono vedere chiaro nella situazione della Chiesa e che, soprattutto, desiderano vivere il loro sacerdozio nella sua integralità.
È attraverso il fiorire del sacerdozio e unicamente per mezzo di questo che la Chiesa ritornerà alla Tradizione. Ravvivare questa convinzione è per noi imperativo. La Fraternità San Pio X conterà a breve 48 anni di esistenza. Con l’aiuto della grazia di Dio, ha registrato una prodigiosa espansione in tutto il mondo; ha opere che crescono ovunque, numerosi sacerdoti, distretti, priorati, scuole… In questo espandersi, il rovescio della medaglia è che lo spirito di conquista iniziale si è inevitabilmente indebolito. Senza volerlo, siamo sempre più assorbiti dalla gestione dei problemi quotidiani implicati da un tale sviluppo; lo spirito apostolico può risentirne e i grandi ideali corrono il rischio di sbiadirsi. Siamo ormai alla terza generazione di preti dall’epoca della fondazione della Fraternità, nel 1970… Bisogna ritrovare il fervore missionario, quello ispiratoci dal nostro fondatore.
In questa crisi che fa soffrire tanti fedeli attaccati alla Tradizione, come concepire le relazioni tra Roma e la Fraternità?
Anche qui dobbiamo cercare di mantenere un punto di vista soprannaturale, per evitare che il problema diventi un’ossessione, perché le ossessioni, sul piano soggettivo, obnubilano l’intelligenza e, sul piano oggettivo, le impediscono di arrivare al suo scopo, che è la conoscenza della verità.
Specialmente oggi, dobbiamo evitare di essere precipitosi nei giudizi, come spesso ci inducono a fare i moderni mezzi di comunicazione; non buttarci nel commento «definitivo» di un documento romano o di un altro tema delicato: sette minuti per improvvisarlo e un minuto per metterlo online… L’avere uno «scoop» o il «fare scalpore» sono le nuove esigenze dei media, che in questo modo, però, propongono un’informazione molto superficiale e – peggio ancora – a lungo termine rendono impossibile ogni riflessione seria e profonda. I lettori, gli ascoltatori e gli spettatori si preoccupano, si angosciano… L’ansia poi condiziona la ricezione dell’informazione. La Fraternità ha sofferto troppo a causa di questa tendenza malsana e – in ultima analisi – mondana, che dobbiamo tutti cercare urgentemente di correggere. Meno saremo connessi a Internet e più ritroveremo la serenità della mente e del giudizio. Meno saremo davanti a uno schermo, più saremo capaci di effettuare una valutazione oggettiva dei fatti reali e della loro esatta portata. Nei nostri rapporti con Roma, non si tratta di essere rigidi o lassisti, ma semplicemente realisti.
Per quanto riguarda i nostri rapporti con Roma, quali sono i fatti reali?
Fin dalle discussioni dottrinali con i teologi romani, possiamo dire che davanti a noi abbiamo due canali di comunicazione, due tipi di relazione su dei piani che bisogna distinguere attentamente:
- un canale pubblico, ufficiale, chiaro, che ci impone sempre delle dichiarazioni con – sostanzialmente – gli stessi contenuti dottrinali;
- un altro canale, proveniente ora da questo ora da quell’altro membro della curia, con interessanti scambi privati, che contengono nuovi elementi sul valore relativo del Concilio, su questo o quell’altro punto di dottrina… Sono discussioni inedite e interessanti, sicuramente da continuare, ma che restano comunque informali, ufficiose, private, mentre sul piano ufficiale – nonostante una certa evoluzione del linguaggio – le esigenze che vengono ribadite sono sempre le stesse.
Certamente prendiamo atto con piacere di ciò che di positivo viene detto in privato, ma lì non è veramente Roma a parlare: sono dei Nicodemo benevoli e timidi, non la gerarchia ufficiale. Bisogna quindi attenersi strettamente ai documenti ufficiali, e spiegare perché non li possiamo accettare.
Gli ultimi documenti ufficiali – per esempio, la lettera del cardinal Müller di giugno 2017 – manifestano sempre la stessa esigenza: prima bisogna accettare il Concilio, poi sarà possibile continuare a discutere su ciò che per la Fraternità non è chiaro; così facendo, le nostre obiezioni vengono ridotte a mere difficoltà soggettive di lettura e di comprensione, e ci viene promesso l’aiuto per comprendere bene ciò che realmente il Concilio voleva dire. Le autorità romane fanno di questa accettazione previa una questione di fede e di principio; lo dicono esplicitamente. Le loro esigenze oggi sono le stesse di trent’anni fa. Il Concilio Vaticano II va accettato nella continuità della tradizione ecclesiale, come parte integrante di questa tradizione. Alla Fraternità viene concesso di avere delle riserve che meritano una spiegazione, ma in nessun caso è concesso un rifiuto degli insegnamenti del Concilio in quanto tali: è Magistero puro e semplice!
Ora, il problema è qui, sempre nello stesso punto, e non possiamo spostarlo altrove: qual è l’autorità dogmatica di un Concilio che si è voluto pastorale? Qual è il valore dei nuovi princìpi insegnati dal Concilio, che sono stati applicati in maniera sistematica, coerente e in perfetta continuità con ciò che era stato insegnato dalla gerarchia che fu responsabile al contempo del Concilio e del postconcilio? Questo Concilio reale è il Concilio della libertà religiosa, della collegialità, dell’ecumenismo, della «tradizione vivente»…, e purtroppo non è il risultato di una cattiva interpretazione. La prova è che questo Concilio reale non è mai stato rettificato né corretto dall’autorità competente. Veicola uno spirito, una dottrina, un modo di concepire la Chiesa che costituiscono un ostacolo alla santificazione delle anime e i cui risultati drammatici sono sotto gli occhi di tutti gli uomini intellettualmente onesti, di tutte le persone di buona volontà. Questo Concilio reale, che corrisponde al tempo stesso a una dottrina insegnata e a una pratica vissuta, imposta al «Popolo di Dio», noi rifiutiamo di accettarlo come un concilio simile agli altri. È per questo che ne mettiamo in discussione l’autorità, ma sempre con spirito di carità, perché non vogliamo altra cosa che il bene della Chiesa e la salvezza delle anime. La nostra discussione non è un semplice duello teologico e, di fatto, riguarda delle materie che non sono «discutibili»: è la vita della Chiesa a essere in gioco qui, indiscutibilmente, ed è su questo che Dio ci giudicherà.
Ecco, quindi, in quale ottica ci atteniamo ai testi ufficiali di Roma: con rispetto, ma anche con realismo; non si tratta di essere di destra o di sinistra, rigidi o lassisti: si tratta semplicemente di essere realisti.
Che fare nel frattempo?
Posso rispondere solo ricordando alcune priorità. Prima di tutto, avere fiducia nella Provvidenza che non può abbandonarci e che ci ha sempre dato dei segni della sua protezione e benevolenza. Dubitare, esitare, chiedere altre garanzie da parte Sua sarebbe una grave mancanza di gratitudine. La nostra stabilità e la nostra forza dipendono dalla nostra fiducia in Dio: penso che dovremmo esaminarci tutti su questo punto.
Inoltre, bisogna riscoprire ogni giorno il tesoro che abbiamo in mano, ricordarci che questo tesoro ci viene da Nostro Signore stesso e che gli è costato il Sangue. È rimettendosi davanti alla grandezza di queste realtà sublimi che le nostre anime resteranno abitualmente in adorazione e si fortificheranno come si deve per il giorno della prova.
Dobbiamo avere anche una preoccupazione crescente per l’educazione dei bambini. Bisogna aver ben presente lo scopo che vogliamo raggiungere e non aver paura di parlare loro della Croce, della passione di Nostro Signore, del suo amore per i piccoli, del sacrificio. Bisogna assolutamente che le anime dei bambini si innamorino di Nostro Signore dalla più tenera età, prima che lo spirito del mondo posso sedurle e rapirle. La questione è assolutamente prioritaria e, se non riusciamo a trasmettere ciò che abbiamo ricevuto, vuol dire che non ne siamo convinti abbastanza.
Infine dobbiamo lottare contro una certa pigrizia intellettuale: è la dottrina che dà la ragion d’essere alla nostra battaglia per la Chiesa e per le anime. Bisogna fare uno sforzo per attualizzare la nostra analisi dei grandi avvenimenti odierni alla luce della dottrina perenne, senza accontentarci del pigro «copia e incolla» che Internet – ancora una volta – tristemente favorisce. La sapienza mette e rimette tutto in ordine, a ogni momento, e ogni cosa trova il suo posto esatto. La crociata della Messa voluta da Mons. Lefebvre è più attuale che mai.
Cosa possono fare più particolarmente i fedeli?
A messa i fedeli riscoprono l’eco dell’ephpheta, «apriti», pronunciato dal sacerdote durante il battesimo. Ancora una volta la loro anima si apre alla grazia del Santo Sacrificio. Anche piccolissimi, i bambini che assistono alla messa sono sensibili al senso del sacro che la liturgia tradizionale manifesta. Soprattutto, l’assistenza alla messa feconda la vita degli sposi e tutte le sue prove, dandole un senso profondamente soprannaturale, perché le grazie del sacramento del matrimonio derivano dal sacrificio di Nostro Signore. È assistendo alla messa che si ricorderanno che Dio si vuole servire di loro come cooperatori della più bella delle sue opere: santificare e proteggere l’anima dei loro figli.
Nel 1979, in occasione del suo giubileo, Mons. Lefebvre ci invitò a una crociata della messa, perché Dio vuole restaurare il sacerdozio e, tramite questo, la famiglia, oggi attaccata da tutte le parti. Per quel tempo la sua era una visione profetica; ai nostri giorni è ormai un dato di fatto che ognuno può constatare. Ciò che prevedeva, oggi l’abbiamo davanti ai nostri occhi:
« Che cosa ci resta da fare, miei cari fratelli? Se approfondiamo questo grande mistero della messa, penso di poter dire che dobbiamo fare una crociata fondata sul Santo Sacrificio della messa, sul Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo; fondata su questa roccia invincibile e su questa sorgente inesauribile di grazie che è il Santo Sacrificio della messa. Lo vediamo tutti i giorni. Siete qua perché amate il Santo Sacrificio della messa. Questi giovani seminaristi, che sono a Écône, negli Stati Uniti, in Germania, sono venuti nei nostri seminari proprio per la santa messa, per la santa messa di sempre che è la sorgente delle grazie, la sorgente dello Spirito Santo, la sorgente della civiltà cristiana. Il prete è questo. Allora dobbiamo fare una crociata, una crociata fondata precisamente su questa nozione di sempre del sacrificio, così da ricreare la cristianità, rifare una cristianità come la Chiesa la desidera, come la Chiesa l’ha sempre fatta, con gli stessi princìpi, lo stesso sacrificio della messa, gli stessi sacramenti, lo stesso catechismo, la stessa Sacra Scrittura » (Omelia di Mons. Lefebvre in occasione del suo giubileo sacerdotale, Parigi, Porte de Versailles, 23 settembre 1979).
Questa cristianità va ricostruita quotidianamente, tramite il compimento fedele del nostro dovere di stato, lì dove Dio ci ha voluti. Alcuni lamentano, a giusto titolo, che la Chiesa e la Fraternità non sono ciò che dovrebbero essere. Dimenticano, però, di avere i mezzi per rimediare a questo, ognuno al proprio posto, santificando sé stesso. Lì ognuno è Superiore generale… Non c’è bisogno di un Capitolo per essere eletti, bisogna santificare ogni giorno la porzione di Chiesa di cui si è padroni assoluti: la propria anima!
Mons. Lefebvre continuava: «Dobbiamo ricreare questa cristianità, e siete voi, miei cari fratelli, siete voi il sale della terra, voi la luce del mondo (Mt 5, 13-14), è a voi che Nostro Signore si rivolge e dice: “Non perdete il frutto del mio Sangue, non abbandonate il mio Calvario, non abbandonate il mio sacrificio”. È anche la Vergine Maria, vicina ai piedi della croce, a dirvelo. Ve lo dice anche Lei, che ha il cuore trafitto, pieno di sofferenze e di dolori, ma anche pieno di gioia nell’unirsi al sacrificio del suo divin Figlio. Siamo cristiani, siamo cattolici! Non lasciamoci trascinare da tutte queste idee mondane, da tutte queste correnti del mondo che ci spingono verso il peccato, verso l’inferno. Se vogliamo andare in Cielo dobbiamo seguire Nostro Signore Gesù Cristo; portare la croce e seguire Nostro Signore Gesù cristo; imitarlo nella Croce, nella sofferenza e nel sacrificio».
Il fondatore della Fraternità San Pio X lanciava una crociata di giovani, di famiglie cristiane, di padri di famiglia, di sacerdoti. Insisteva con un’eloquenza che quarant’anni dopo ci colpisce sempre, perché vediamo quanto questo rimedio si applichi ai mali presenti:
«L’eredità che Gesù Cristo ci ha dato è il suo sacrificio, il suo Sangue, la sua Croce. Questo è il fermento di ogni civiltà cristiana e di ciò che deve condurci al Cielo. (…) Custodite il testamento di Nostro Signore! Custodite il sacrificio di Nostro Signore! Custodite la messa di sempre! Allora vedrete rifiorire la civiltà cristiana».
Quarant’anni dopo non possiamo sottrarci a questa crociata; oggi esige un ardore ancora maggiore e un entusiasmo ancora più ardente per il servizio della Chiesa e delle anime. Come dicevo all’inizio di quest’intervista, la Tradizione è nostra, pienamente, ma quest’onore comporta una grave responsabilità: saremo giudicati sulla nostra fedeltà nel trasmettere ciò che abbiamo ricevuto.
Molto Reverendo Superiore Generale, prima di terminare, ci consenta una domanda più personale. L’incarico che Le è stato affidato l’11 luglio scorso non L’ha spaventata?
Sì, devo ammettere che ho avuto un po’ paura e che ho persino esitato in cuor mio prima di accettarlo. Siamo tutti dei vasi d’argilla e questo vale anche per chi è stato eletto Superiore generale: anche se si tratta di un vaso un po’ più visibile e un po’ più grosso, è pur sempre fragile.
Soltanto il pensiero della Santissima Vergine mi ha permesso di vincere la paura: mi affido a Lei sola e lo faccio totalmente. La Madonna non è d’argilla perché è d’avorio, non è un vaso fragile perché è una torre inespugnabile: turris eburnea. È come un esercito schierato in ordine di battaglia, terribilis ut castrorum acies ordinata, e che sa in anticipo che il solo risultato possibile di tutte queste battaglie è la vittoria: «Alla fine il mio Cuore immacolato trionferà».