Nell’anno zero sarebbe nato a Betlemme il Messia annunciato dai profeti. Avrebbe compiuto meraviglie nella sua esistenza, si sarebbe fatto chiamare figlio di Dio per poi esser messo a morte dal Sinedrio e risorgere il terzo giorno. Infine sarebbe asceso in cielo e, si presume, dovrebbe tornare per giudicare i vivi e i morti.
Vi meravigliate del condizionale? E perché mai? E’ quello che raccontano nei Vangeli alcuni testimoni della Sua vita morte e resurrezione… Ah sì, i Vangeli non sarebbero dei testimoni affidabili… D’accordo, ma questo è quello che ci dice la “tradizione”. La fede si fonda su un dato storico che è tramandato da circa due millenni. La fede di milioni di esseri umani coincide con una tradizione, con l’atto del tràdere, del passare di mano in mano, di bocca in bocca, di cuore in cuore, un evento e ancora riti e liturgie.
Dopo duemila anni però alcuni uomini vestiti di rosso in ricordo del sangue che dovrebbero (qui il condizionale è assolutamente d’obbligo) essere disposti a versare in nome della loro fede, hanno messo a capo di questa struttura tradizionale che si chiama “Chiesa” e che vive esclusivamente di tradizione, un uomo “venuto dalla fine del mondo” il cui obiettivo è in realtà dissolvere la tradizione della Chiesa in un vuoto pneumatico antitradizionale. Demolire, in altre parole, ogni legame con la tradizione inerpicandosi in una esegesi evangelica dalle conseguenze devastanti. E’ di oggi infatti l’ultima uscita degna delle visioni di Isaia: “I cristiani ostinati nel ‘sempre è stato fatto così’, ‘questo è il cammino, questa è la strada’, peccano: peccano di divinazione. E’ come se andassero dalla indovina: ‘E’ più importante quello che è stato detto e che non cambia; quello che sento io – da me e dal mio cuore chiuso – che la Parola del Signore’. E’ anche peccato di idolatria l’ostinazione: il cristiano che si ostina, pecca! Pecca di idolatria. ‘E qual è la strada, Padre?’: aprire il cuore allo Spirito Santo, discernere qual è la volontà di Dio.”
In questa – al solito – sconclusionata valanga di parole lanciate a caso, dalla struttura sintattica e dalla grammatica incerte, emerge un unico dato: il cristiano che si attiene alla tradizione è un peccatore perché non sa mettersi in ascolto dello spirito. Al fondo c’è l’idea che ogni tradizione, e quindi ogni codice morale sia adattabile alle necessità del momento. E siccome non è possibile sostenere che la legge di Dio possiamo cambiarla a seconda delle circostanze, ecco tirar fuori dal cappello l’invisibile spirito del cambiamento cui tutti dobbiamo assoggettarci…
Ogni volta, tuttavia, che ci si inerpica per i sentieri dello spiritualismo, si cade esattamente nel rischio dell’idolatria e della divinazione di cui quel simpatico signore vestito con una lunga palandrana bianca (così tradizionale da meritare presto la conversione in un clergyman bianco) accusa i tradizionalisti. Si rischia di scambiare per volere di Dio il pensiero di un uomo al quale – quasi per sbaglio – è stato offerto un ambone e che sembra parlare come il reverendo Lovejoy dei Simpson. In più si apre uno iato sempre più incolmabile tra oggettività della legge morale e interpretazione soggettiva, facendo sì che la salvezza ognuno la trovi nella propria misericordiosa ispirazione, ovvero in una autoassoluzione valida in ogni tempo e luogo.
Naturalmente l’autoassoluzione va bene per tutti tranne che per i cattolici che fanno “come si è sempre fatto” ossia che vivono nel solco della tradizione (il che non vuol dire vivere “senza peccato”, ma permanere nella consapevolezza del peccato, e preservare un brandello di etica cattolica). Per quelli nessuna misericordia, ma solo disprezzo e parole di fuoco. “Chi sono io per giudicare (i preti sodomiti)?”, ma “idolatri, ostinati e ribelli” i tradizionalisti. Tipico di ogni movimento rivoluzionario è, d’altro canto, la trasformazione dello spirito rivoluzionario, della tabula rasa innovativa, in nuova dogmatica. Così diventa del tutto intollerabile per il rivoluzionario ogni dissenso, ogni freno alla bulimia della novità. Ed è del tutto logico che chi si riconosce in una tradizione e non nelle parole del rivoluzionario che si autoproclama profeta, debba essere isolato e perseguitato come un “ribelle”.
Nella parola “ribelle” c’è tutto il senso di questa chiesa – volutamente in minuscolo – di lupi travestiti da pecore, di misericordiosi senza pietà, di caritatevoli avidi, di santi indemoniati. E’ la chiesa del capovolgimento diabolico. Ma nel concetto del ribelle si cela già la sua sconfitta, la sua paura. Questa chiesa capovolta esalta ogni aberrazione, ogni ribellione alla tradizione, ogni rigurgito di innovazione dissennata, ogni rottura ben esibita, ma non può fare a meno di sanzionare come illecito ogni tentativo di mantenere un legame con la tradizione. Una inspiegabile ostinazione per la rivoluzione che esige obbedienza totale dalle estreme sacche di ribellione (“feccia ribelle” secondo l’imperatore di Star Wars); ma che è così consapevole della precarietà della sua azione rivoluzionaria, da temerne il crollo subitaneo. E’ arena sine calce, per dirla con Caligola, uno che aveva qualche rotella fuori posto ma almeno capace di momentanei sprazzi di lucidità. Non ci resta dunque che essere orgogliosi della nostra natura ribelle: ciascuno di noi è un waldgang, gente che si dà al bosco, che ritrova nella distanza dai centri di consenso, dalle folle plaudenti, il senso dei propri legami, con il prossimo e con il divino, minacciati dai furiosi caterpillar dell’assolutismo rivoluzionario che crede solo in se stesso.
Francesco Colafemmina (fidesetforma.com)