Un modo sbagliato di difendere la famiglia

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L’Italia, e la città di Roma in particolare, sarà teatro nei prossimi mesi di due importanti battaglie: la prima si svolgerà in Parlamento sul disegno di legge Cirinnà, che propone il riconoscimento giuridico del pseudo-matrimonio omosessuale; la seconda avverrà nell’aula del Sinodo sull’“apertura” ai divorziati risposati e alle coppie omosessuali. In entrambi i casi, è al centro della discussione un tema di primaria importanza: il futuro della famiglia e del matrimonio, aggrediti da lobby politiche e mediatiche visceralmente anticristiane.

Di fronte a questa aggressione, molte iniziative si possono prendere e tutte sono lodevoli: pubblicazioni di libri e di articoli, petizioni, conferenze, manifestazioni di piazza. E’ importante comprendere però che l’unica possibilità di vincere è quella di combattere a viso aperto confidando nell’aiuto della Grazia divina. Umanamente parlando, infatti, la sproporzione di forze è tale da rendere impossibile una vittoria con le pure forze di cui i difensori della famiglia dispongono.

La battaglia però non è solo perduta, ma è fuorviante, se viene condotta in una prospettiva puramente sociologica, con l’unico fine di “ridurre il danno”. In un articolo su “La nuova Bussola quotidiana” dell’8 giugno, (cfr. qui) il sociologo Massimo Introvigne, vice-responsabile nazionale di Alleanza Cattolica, spiega che il disegno di legge Cirinnà è una trappola, perché offre su un piatto d’argento alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) la possibilità di imporre le adozioni omosessuali. Il CEDU ha infatti stabilito che una volta introdotte le unioni civili, un Paese che ha ratificato la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo non può escludere l’adozione, dal momento che ciò costituirebbe una “disparità di trattamento”, e quindi una discriminazione illecita fra coppie omosessuali e coppie eterosessuali unite civilmente. Il ddl Cirinnà è dunque colpevole di introdurre surrettiziamente le adozioni che verrebbero imposte dai giudici sulla base della giurisprudenza europea.

Qual è la proposta di Introvigne? Quella di evitare che un’eventuale legge parli sia di “matrimonio omosessuale” che di “unioni civili” tra omosessuali. Il 3 giugno, nella sede romana del comitato Sì alla famiglia, è stata presentata una lettera, promossa dallo stesso Introvigne e dal magistrato Alfredo Mantovano, e sottoscritta da 58 intellettuali, in cui si invitano i parlamentari italiani a sostenere le “proposte di legge che consolidano sotto forma di testo unico i diritti e i doveri che derivano da ogni convivenza in materia di visita in ospedale o in carcere, diritto all’abitazione e così via” e a “riconoscere i diritti e i doveri dei conviventi omosessuali tramite uno strumento che non usi l’espressione «unioni civili» e che non sia la «stessa cosa» del matrimonio”.

Lo strumento è stato lanciato dallo stesso Comitato, lo scorso il 16 gennaio, sotto forma di una proposta di legge dal titolo Testo unico sui diritti dei conviventi. Questo documento “esplicita” e raccoglie in un “sistema chiuso”, una serie di norme esistenti, riconoscendo le convivenze etero e omosessuali come un categoria giuridica foriera di diritti in quanto tale (cfr. qui e qui). 

Nella lettera dei 58 intellettuali, molti dei quali rispettabili, ma forse alquanto sprovveduti in materia giuridico-morale, non solo viene riconosciuto lo status giuridico dei conviventi omosessuali e eterosessuali, purché tale status non venga denominato “unione civile”, ma neppure una parola di condanna è espressa nei confronti della omosessualità in quanto tale. I firmatari del documento sembrano convinti che si possa solo rallentare l’irreversibile avanzata del nemico, professando la massima del “cedere per non perdere”. Si comincia con accettare per esempio il principio che gli omosessuali e i conviventi non omosessuali siano titolari di diritti ma rifiutando il riconoscimento delle unioni civili; quindi si ammetterà l’unione civile, a patto di non definirla matrimonio; infine si accoglierà il matrimonio omosessuale, ma respingendo l’adozione dei bambini. E poi?

Dal momento che Sì alla famiglia aderisce alla manifestazione nazionale contro il ddl Cirinnà annunciata per il 20 giugno e diversi membri del comitato promotore ne firmano la lettera, molti si chiedevano se, e in quale misura, questa manifestazione avrebbe condiviso la posizione di Sì alla famiglia. La risposta che è venuta dalla conferenza stampa dell’8 giugno presso l’Hotel Nazionale di Roma ha qualcosa di surreale. La manifestazione del 20 giugno a San Giovanni era stata presentata infatti dai suoi promotori come un “Family Day” contro il ddl Cirinnà (cfr. qui e qui). Ora l’oggetto primario è divenuta la preoccupazione per l’introduzione del Gender nelle scuole. Nella conferenza stampa Massimo Gandolfini, portavoce del comitato promotore Difendiamo i nostri figli, ha assicurato che la mobilitazione a Piazza San Giovanni “non ha niente a che fare con il Family Day del 2007” e non è né contro il disegno di legge Cirinnà, né contro gli omosessuali, né “contro qualcuno”, ovvero è una manifestazione contro nessuno. Peraltro non si sa ancora chi parlerà dal palco e che cosa dirà. Tutto rimane dunque sul vago. Come un giornalista presente ha fatto opportunamente notare, la linea che gli organizzatori scelgono di seguire, non è la linea dell’ex-presidente della CEI, Camillo Ruini, ma quella del Segretario della CEI, Nunzio Galantino. Ciò significa che il 20 giugno, al di là del numero dei presenti, la manifestazione di San Giovanni rischia di essere il funerale dell’associazionismo cattolico o, se si preferisce, la celebrazione della sua sconfitta.

La strategia minimalista a cui si ispira da molti decenni il mondo cattolico è la causa principale delle sue ripetute disfatte. Quando la verità non osa manifestarsi integralmente, l’errore è destinato a vincere. Oggi chi si dice cattolico non può limitarsi a riproporre timidamente la famiglia naturale, in nome della Costituzione italiana: deve ricordare l’esistenza di una legge divina e naturale e denunciare con nome e cognome uomini e movimenti che vogliono sovvertire questa legge. Bisogna avere il coraggio di proclamare ad alta voce che l’omosessualità è un grave disordine morale e quindi è un atto in sé peccaminoso e che il riconoscimento giuridico, anche parziale, di questo peccato è un’apostasia pubblica.

Ma perché molti cattolici rifuggono dal proclamare la legge naturale e divina, definendo la proprie convinzioni solo come un’“opinione”, meritevole di essere rispettata nella “dialettica democratica” (così si è espresso il portavoce del comitato Difendiamo i nostri figli)? Perché essi non credono nell’efficacia e nella fecondità della verità che professano; sono convinti, che questa verità sia astratta ed inefficace e si pongono sul terreno scelto dal nemico quello della prassi. Essi si dicono cattolici ma prescindono dalla Rivelazione, dalla Grazia, dai miracoli: vivono immersi dell’ateismo pratico. Questi cattolici moderati un tempo erano definiti liberali, oggi qualcuno li definisce “conservatori”, ma si tratta di definizioni improprie: la vera distinzione è tra un cattolicesimo integrale, senza compromessi e un cattolicesimo politico, che subordina le proprie scelte alle possibilità di successo e fa del successo il criterio ultimo della propria azione.

Oggi però, non è l’ora delle furbizie e dei machiavellismi. Dom Prosper Guéranger, il santo abate di Solesmes, insegna che nella dissoluzione generale delle idee, “c’è una grazia legata alla confessione piena e completa della Fede. Questa professione ci dice l’Apostolo è la salvezza di coloro che la fanno e l’esperienza dimostra che è anche la salvezza di coloro che la ascoltano”. 

 

(Roberto de Mattei - corrispondenzaromana.it)


Documento stampato il 30/10/2024