E’ arrivato una bastimento carico di misericordia, ma il mondo non sa che cosa farsene. E il cristianesimo mondano, che gliel’ha condotto fin dentro il porto di casa, non è in grado di dare ragione del grazioso cadeau: dopo aver chiuso negli armadi dei lini e delle vecchie lavande gli anatemi dei tempi andati, non ha più nulla da perdonare e, dunque, nessun motivo per cui essere misericordioso. E, in perfetta e inesorabile simmetria, il mondo, che improvvisamente ha scoperto di non essere più in peccato, non vede proprio come far fruttare il misericordioso abbraccio. Tolta l’impellenza della conversione e della rinuncia a satana, sola ragione dell’unico discorso possibile tra chiesa e mondo, l’una e l’altro hanno finito per incontrasi in un accidioso convivio sotto il segno del demone meridiano, quel sortilegio in cui si vive solo per compiacersi del proprio malessere.
Ma non è colpa del mondo, povera preda di un male che solo l’incisione affilata e incandescente del verbo cristiano sapeva curare chiamandolo con il suo nome: peccato. Nella guerra a una chiesa che gli muoveva guerra per la sua salvezza, il secolo trovava almeno una vena di linfa vitale, un fugace balenìo dello spirito tremendo eppure desiderato che ora, nella pace, non scorge più. Eppure ne ha sete, molto più che della misericordiosa condiscendenza, ma il cristianesimo mondano non ha più di questa acqua. Così il secolo, che coltiva nel suo intimo il desiderio di sentirsi peccatore pur negando l’idea del peccato, si trova smarrito davanti a cristiani che non si sentono peccatori perché quell’idea l’hanno dimenticata.
L’una e l’altra parte hanno smarrito la propria identità provocando, come spiegava nel 1974 Marshall McLuhan nel saggio “La liturgia e il microfono”, un invincibile bisogno di sentirsi desiderati che conduce inevitabilmente al permissivismo. “In termini liturgici” diceva lo studioso canadese “la perdita dell’identità significa perdita della vocazione religiosa, e il permissivismo morale significa perdita del bisogno della confessione. Laddove molti ricorrevano alla confessione e relativamente pochi alla comunione, ora pochissimi si confessano mentre molti ricorrono alla comunione”. Ai primi del Novecento, il trappista dom Jean-Baptiste Chautard, nella sua “Anima di ogni apostolato”, aveva diagnosticato la causa di questo male: “A sacerdote santo, si dice, corrisponde un popolo fervente; a sacerdote fervente un popolo pio; a sacerdote pio un popolo onesto; a sacerdote onesto un popolo empio”.
La china lungo cui hanno preso a scendere chiesa e mondo si è fatta sempre più difficile da risalire quando i cristiani hanno acquisito familiarità con il peccato veniale. Quando, nei giardini segreti delle anime, si è cominciato a coltivare i fiori malati dei piccoli reati contro Dio concimandoli con il compiacimento per la propria fragilità, in quel meriggiare della vita spirituale che tanto si confà ai disegni del demonio. Spesso lo si è fatto in punta di dottrina, perché molti sapevano quanto, per esempio, spiega il “Catechismo” di San Pio X, al punto 148: “Che cos’è il peccato veniale? Il peccato veniale è una disobbedienza alla legge di Dio in cosa leggera, o anche in cosa di per sé grave, ma senza tutta l’avvertenza e il consenso” e poi, al punto 149: “Perché il peccato non grave si chiama veniale? Il peccato non grave si chiama veniale, cioè perdonabile, perché non toglie la grazia e può aversene il perdono col pentimento o con opere buone, anche senza la confessione sacramentale”. Ma si ometteva pelosamente quanto detto al punto 150: “Il peccato veniale è dannoso all’anima? Il peccato veniale è dannoso all’anima perché la raffredda nell’amor di Dio, la dispone al peccato mortale, e la rende degna di pene temporanee in questa vita e nell’altra”.
Prima tollerato e poi vezzeggiato come estremo legame con il mondo, il peccato veniale ha indotto alla tiepidezza e oscurato il cielo delle ultime generazioni cristiane. “Quelli che commettono spesso peccati leggeri” ammoniva San Gregorio Magno “non devono considerare la qualità dei loro peccati, ma la loro quantità. Se non li impensierisce la gravità, li spaventerà il numero. (…) chi trascura di piangere e schivare i peccati leggeri cadrà non già di colpo, ma un po’ alla volta, dallo stato di giustizia a quello mortale”. E San Tommaso, nella “Summa”, spiega che “un peccato veniale può predisporre a un peccato che è mortale dalla parte di chi lo compie, a modo di conseguenza. Aumentata infatti la disposizione o l’abito con gli atti del peccato veniale, l’attrattiva del peccato può aumentare fino al punto che colui che pecca giungerà a porre il proprio fine nel peccato veniale: infatti, in chiunque ha un abito, di per sé, il fine è l’operare secondo tale abito. E così, con la ripetizione dei molti peccati veniali, uno si disporrà al peccato mortale”.
Il calendario liturgico è un rosario fiorito di santi che hanno fatto della loro vita la lotta anche alla più piccole delle offese a Dio. Nelle lettere ai suoi figli spirituali, padre Pio diceva che “gli spioni che sono i peccati veniali” si aggirano dentro il territorio delle anime per capire dove è minore la resistenza a quelli mortali. Fin sul limitare degli Anni Sessanta del secolo scorso, la vita ascetica del fedele ordinario aveva a modello esempi come San Domenico Savio, che avrebbe preferito morire piuttosto che macchiarsi di una sola colpa veniale. La formazione spirituale era fondata sull’alternativa radicale tra salvezza e dannazione eterne e generava pensieri, parole e opere che oggi il mondo vorrebbe tanto ammirare nei cristiani che, invece, ne sono atterriti. Pensieri, parole e opere, per esempio, come quelli che Sant’Ambrogio depose nell’eloquente “De bono mortis”, il bene della morte: “E l’Ecclesiate dice ancora ‘il mio cuore è andato in giro affinché io potessi conoscere la gioia dell’empio e considerassi e cercassi la sapienza e la moderazione, e conoscessi la felicità attraverso il comando, nonché i travagli e gli avvilimenti, e conobbi questa felicità come più amara della morte’: questo non perché la morte sia in sé amara, ma poiché lo è per l’empio. E’ infatti peggio vivere per il peccato che morire nel peccato, poiché quanto più a lungo l’empio vive, tanto più aumenterà il suo peccato, ma se muore cessa di peccare”.
Generazioni e generazioni di cristiani si sono formate lungo i secoli su questo tema ascetico. Nobili destinati allo splendore delle corti e capaci di portare i cilici sotto vesti da fiaba, contadini, operai e mendici a cui facevano da cilicio i panni e la fatica quotidiani. Tutti animati dallo stesso fervore, segnati dalla stessa luce catturata negli interni del Caravaggio, nel sorriso delle Madonne di Raffaello, nell’immobilità delle scene di Piero della Francesca, negli ori di Giotto o di certe icone dipinte nelle aurore russe. Ma anche il più spirituale dei capolavori, riesce a descrivere solo in piccolissima parte ciò che il fervore e la purezza producono nelle creature. “Primieramente” scrive Pietro Giacomo Bacci nella biografia di San Filippo Neri “il verginal candore era tale che gli risplendeva anche nel volto, ed in particolare negli occhi: i quali aveva eziandio negli ultimi anni della sua vita, come di giovanetto, così chiari e risplendenti, che non si è trovato mai pittore che gli abbia mai potuti ben esprimere con il pennello, ancorché molti con ogni diligenza vi abbiano provato; non si poteva in oltre così facilmente fissar la vista nella sua faccia; avvegnacché se gli vedeva uscir dagli occhi come una luce che ripercoteva negli occhi di chi lo mirava; sicché alcuni han detto che solamente in guardarlo sembrava un angelo di paradiso”.
Il mondo, fosse solo per il sollievo di un istante, per un attimo di quiete prima rituffarsi tra le braccia del suo principe, va in cerca di sguardi fervorosi come questo, frutto di acuminato e indefettibile odio per il peccato. Non mendica l’indulgente e misericordiosa tiepidezza perché, anche se ignora che i tiepidi saranno vomitati dal Signore nel giorno del giudizio, sa bene che basta l’ordinaria brutalità della vita per schiacciarli.
Sul versante religioso e su quello mondano, sono stati i francesi a scrivere in proposito pagine di immortale drammaticità. Il Mauriac di “Groviglio di vipere”, il Bernanos del “Diario di un curato di campagna” e di “Un delitto”, il Bourget del “Demone meridiano”, e poi Gide, Camus, Sartre hanno narrato, chi volendolo e chi no, la discesa agli inferi degli esseri umani che si consegnano al peccato veniale come fine dell’esistenza. Tra i più efficaci vi è Georges Simenon, belga donato alla Francia, cronista di un mondo dove borghesi e proletari, nobili e diseredati sono prigionieri di vite sottratte alla grazia, fosse pure intesa come sola possibilità di compiere un gesto innocente. Raccontarlo è stata una prova tremenda persino per la sua scrittura folle e compulsiva. Tanto da sentire il bisogno di redimere i personaggi dei suoi “roman-roman” creando l’universo parigino del commissario Maigret, il poliziotto che “di mestiere avrebbe voluto fare il riparatore di destini”. Ma l’eco di un cattolicesimo non del tutto sopito ha suscitato in Simenon l’idea che l’azione di giustizia si alimenta di ritualità e di orazione, e lui l’ha cristallizzata con definitiva genialità letteraria nell’invenzione della signora Maigret. E’ questa piccola borghese timida e discreta, con le sue buone abitudini quotidiane da liturgia domestica, a tessere il velo che preserva la sua casa dalla colpevolezza del mondo: quasi una versione laica del fervore religioso in cui l’inesauribile sdegno al cospetto del male ha per contrappunto un candore bisognoso di riparo.
Quando usavano ancora dire il breviario, i cattolici davano forma liturgica alla necessità di porsi al rifugio dalle colpe anche veniali negli splendidi inni risalenti all’epoca ambrosiana. A ciascuna ora canonica il suo, a seconda di ciò che travaglia le anime in un dato frangente della giornata. “Lingua refrénans témperet” recita per esempio la seconda strofa dell’ora Prima, quando l’astro del giorno è già sorto, “Ne litis horror ínsonet: visum fovéndo cóntegat, ne vanitátes háuriat”, Dio moderi e freni la lingua, affinché non risuoni l’orrore delle liti, custodisca e contenga lo sguardo perché non raccolga alcuna vanità. E a Compieta, subito dopo l’esame di coscienza e il Confiteor in cui chiede perdono a Dio onnipotente, alla beata Maria sempre Vergine, a San Michele Arcangelo, a San Giovanni Battista, ai santi apostoli Pietro e Paolo, a tutti i santi e fino all’ultimo dei fratelli, l’orante chiede il soccorso divino in vista del sonno: “Procul recédant somnia, et nóctium phantásmata; hostémque nostrum cómprime, ne polluántur córpora”, fuggano lontano da noi i sogni e i fantasmi della notte, reprimi il nostro nemico affinché il nostro corpo non sia macchiato.
Ma questo luminoso monologo penitenziale è stato spazzato via dall’irrompere orgoglioso della dialettica, ricettacolo di un velenoso divenire. La sapienza depositata dai secoli nel Breviario è stata rimpiazzata dalla trinità mondana composta da tesi, antitesi e sintesi racchiusa nei bigini di filosofia. “Tesi: determinazione dell’infinito che si afferma su un piano astratto intellettivo. Antitesi: potenza del negativo che consente alla dialettica di procedere. Sintesi: superamento dei due momenti precedenti che, a sua volta, diventa nuova tesi da superare”. Ormai, anche nella predicazione e nelle aule di catechismo si insegna che la manifestazione reale ha bisogno del suo opposto, dell’antitesi, che la porta alla corruzione per generare la sintesi. E così per sempre, in un ritmo ternario fatto di pulsioni mortifere. Non si può dire “vita” senza richiamare la “morte”. Tutto ciò che esiste è vero solo in quanto si dovrà corrompere. Engels ha spiegato che la regola della dialettica hegeliana si risolve in questa affermazione: “Tutto ciò che esiste deve morire”. In altre parole, la realtà necessita della potenza del momento negativo, del male.
L’uomo moderno è convinto di essere autentico solo se tocca con mano la propria corruzione, solo se apre il suo cuore alla dannazione, solo se evoca la malvagità nella storia. E, continuando a rincorrere il male, cade nel baratro del nulla. Ma, proprio per questo, non può educare al bene e, sopra ogni cosa, rifugge il fervore, la rinuncia estrema al peccato. E il cristiano, scimmia di luce di follia, ha fatto propria tale visione finendo per credere che la fede non sia vera se non si accompagna al dubbio. Un credente autentico, si sente dire sempre più spesso dai pulpiti, deve assaporare dentro di sé l’esistenza dell’ateo, per essere santi bisogna essere anche grandi peccatori.
In un simile brodo di coltura, la derubricazione del peccato veniale ha finito per travolgere qualsiasi concetto di colpa, fino a quella originale. Così, il peccato di Adamo viene presentato in una nuova forma e in una nuova valutazione, come usa dire, pastorale. Assume il nome malaticcio e fascinoso di “fragilità”, scava nell’anima dei credenti, si fa accettare, si fa coccolare, si fa coltivare e monopolizza la vita e il pensiero, la prassi e la dottrina. E diventa tema dei convegni ecclesiali, del dibattere nelle commissioni pastorali, dei chilometrici documenti degli uffici diocesani, della catechesi nelle parrocchie, dei campi estivi degli oratori. L’uomo, si sente dire con sempre maggior insistenza, è grande perché è fragile.
E il cerchio si chiude su un panorama in cui fede e ragione, minati dalla dialettica, hanno intrinsecamente bisogno del negativo: l’errore diventa un valore per la gnoselogia, l’eresia per la dottrina, il peccato per la morale. Non è un caso se uno dei personaggi più luminosi della letteratura come la Lucia dei “Promessi sposi”, esemplare incarnazione letteraria del fervore, è divenuta incomprensibile ai cattolici contemporanei. C.S. Lewis aveva previsto tale esito nelle “Lettere di Berlicche”. Era solo il 1942 quando narrava le istruzioni del diavolo Berlicche al nipote Malacoda, comandato a pilotare la perdizione di un neoconvertito: “In una settimana o due gli metterai il dubbio che forse nei primi giorni della sua vita cristiana egli era un pochino eccessivo. Parlagli della ‘moderazione in tutto’. Se ti riuscirà di condurlo al punto di pensare che ‘la religione, sì, va bene, ma fino a un certo punto’, potrai sentirti felicissimo nei riguardi della sua anima. Per noi una religione moderata vale quanto una religione nulla, ed è più divertente”. E Paul Bourget, nel 1914, concludeva “Il demone meridiano” con una fulminate constatazione: “Bisogna vivere come si pensa, se no, prima o poi, si finisce con il pensare come si è vissuto”.
(Alessandro Gnocchi - riscossacristiana.it)