Parliamo del tradizionalista, un po’ come settant’anni fa Leo Longanesi diceva “Parliamo dell’elefante”. I vizi intellettuali non sono mutati e l’Italia a cavallo tra fascismo e antifascismo, che era comunque un po’ cattolica, apostolica e romana, assomiglia tremendamente alla chiesa di oggi, che è comunque sempre un po’ italiana. Allora, Longanesi metteva alla gogna i tic e le ipocrisie di una classe intellettuale che preferiva esibirsi in esotiche disquisizioni, amava “parlare dell’elefante” invece che dello sfacelo in cui era vittima e carnefice. Allo stesso modo, nella chiesa d’oggi, fanno bella mostra coloro che preferiscono “parlare del tradizionalista” invece che prendere atto dell’allegro clima da autodemolizione in cui, come usa dire, cantano e portano la croce.
Si fa presto a dire “tradizionalista” con la stessa levità del Duclos longanesiano. “Signori, parliamo dell’elefante” diceva l’ineffabile signore “è la sola bestia di una certa importanza di cui si possa parlare, in questi tempi, senza pericolo”. Ma il tradizionalista, a conoscerlo davvero, non è una bestia di cui si possa parlare ricorrendo ai servigi della banalità. Non è quello vituperato nei sermoni e nei tischreden di Santa Marta, non è quello degli imbonitori di rassegne stampa a onde medie, non è quello dei cultori di sociologia appesi all’attimo fuggente di un magistero in perenne evoluzione, non è quello dei vescovi che emanano poveri decreti di scomunica contro i fedeli che osano frequentare la buona messa di una volta. Non è tutto questo e non è tanto altro ancora.
Il tradizionalista non è ciò che sembra. E’ misteriosa e inalienabile intimità con ciò che non ha più, è riparo per i legami tra cielo e terra ai tempi dell’oblìo decretato dalle voglie mondane penetrate nel tempio: è la sua stessa povertà, la sua stessa solitudine che si fanno luogo della carne e dell’anima dove è possibile incontrare grandezza o miseria, salvezza o perdizione. Lo scoglio su cui può salvarsi o fare naufragio è l’evangelico vivere nel mondo senza essere del mondo. La tentazione di ritirarsi altrove salvando una purezza terrena che non esiste è una sirena tremenda e vince con troppa facilità. Così certi tradizionalisti preferiscono vivere in un mondo in bianco e nero quando persino il colore è quasi passato di moda. Finiscono per coltivare un giardino nel quale gli altri, i moderni, non possono neanche guardare e, se anche lo facessero, non potrebbero godere dei tesori che vi crescono. Lo sdegno per una suor Cristina che imita Madonna (la cantante) dice poco o nulla se non si comprende dove e come nasce il fenomeno. Vivere nel mondo significa correre il rischio del contagio sapendo che l’antidoto sta nel non appartenergli. O si è contemporanei del proprio tempo pur combattendolo, o si diventa guardiani di un museo in cui il passato cessa di vivere e di essere tradizione poiché gli si sottrae il cuore.
Il destino del tradizionalista è in bilico come quello delle chiese che Proust proteggeva dalla rapacità laica dello stato in un articolo che il 16 agosto 1904 il Figaro titolava “La morte delle cattedrali”: “Ebbene, meglio devastare una chiesa che dissacrarla. Finché vi si celebra la Messa, per mutilata che sia essa conserva ancora la sua vita. Dal giorno in cui viene dissacrata è morta, e se anche sia protetta come monumento storico di celebrazioni scandalose, non è più che un museo. (…) Quando il sacrificio della carne e del sangue del Cristo, il sacrificio della Messa, non sarà più celebrato nelle chiese, non vi sarà in esse più vita”.
D’altra parte, bisogna riconoscere che la sirena di ritrarsi altrove è tanto più ammaliante in quanto ora è la chiesa stessa a essere dissacrata dai tradimenti dei suoi figli e dei suoi pastori.
Il custode della tradizione oggi vive nel dramma dei primi versi del Salmo 11, “Salvum me fac, Dómine, quóniam deficit sanctus, quóniam diminúte sunt veritátes a filiis hóminum”, si misura con il momento in cui non vi sono più santi, la sincerità è venuta meno tra i figli degli uomini e chi dovrebbe custodire la castità del vero, parla con “lábia dolósa”.
E’ questa la radice della grande tentazione: porre la domanda del salmista a Dio rispondendo però da se stessi con le proprie parole. Il frangente che costituisce il tradizionalista come tale, la consapevolezza di essere ciò che ha perso, è anche quello in cui deve decidere se amare ancora una chiesa divenuta matrigna e infida oppure perdersi nel rimpianto zelante e amaro di quando era madre e maestra.
Questo sans- papiers de l’Eglise, non può sottrarsi alla scelta impostagli dal tempo in cui vive: tenere per sé il tesoro che custodisce nella sacca o riportarlo tra le navate, sotto gli archi, davanti all’altare da cui è stato cacciato. Se ha carità, dividerà con i fratelli il seme che ha saputo salvare. Se non ne ha, lo conserverà per se stesso, finendo irrimediabilmente per modellare quel tesoro a propria immagine e somiglianza e renderlo sterile.
Chi gli rimprovera di mutare i pani in pietre, di farsi duro di cuore, intellettualista, legalista ne ha poca pratica e lo scambia colpevolmente con la sua caricatura. Lo stregone che lancia sui suoi seguaci i precetti come fossero pietre non ha nulla a che fare con il custode della tradizione, ha ben altra origine. Lo testimoniano quei cattolici progressivi, liberi e disinibiti già negli anni Ottanta, che al momento di divorziare, vivevano come momento più drammatico “quello in cui dovevamo dirlo al padre”: quel “padre” duro e inflessibile era David Maria Turoldo, il profeta dei tempi nuovi e di una chiesa nuova, che aveva trovato proprio nel sostegno al divorzio la chiave per predicare la sua religione al mondo. La morale e la misericordia, senza la verità, diventano sempre moralismo e violenza.
Nulla di più lontano dal reverendo Bournisien, oggi ridotto a vecchio arnese tradizionalista, il sacerdote che porta i sacramenti a madame Bovary sul letto di morte. “Il prete” racconta Flaubert “si sollevò per prendere il crocefisso. Allora ella allungò il collo come un assetato e, premendo le labbra al corpo dell’Uomo-Dio, con le poche forze che le restavano vi depose il più grande bacio d’amore che mai avesse dato. Poi il prete recitò il Miserere e l’Indulgentiam, immerse il pollice della mano destra nell’olio e cominciò l’unzione. Prima sugli occhi che avevano bramato tutte le ricchezze terrene; poi sulle nari tanto avide di tiepida brezza e di profumi amorosi; poi sulla bocca che si era schiusa alla menzogna, che aveva avuto gemiti d’orgoglio e gridi di lussuria; poi sulle mani che avevano conosciuto la delizia dei contatti soavi, e infine sulla pianta dei piedi, così rapidi, un giorno, nel correre all’appagamento dei desideri e che ormai non avrebbero più camminato. Il prete si asciugò le dita, gettò nel fuoco i batuffoli d’ovatta intrisi d’olio e tornò a sedere presso la moribonda per dirle che ora ella doveva congiungere le proprie sofferenze con quelle di Gesù e abbandonarsi alla Misericordia divina”.
Questa sequenza di segni, così celesti e così concreti, “ad oculos, ad aures, ad nares, ad os compressis labiis, ad manus, ad pedes” avrebbe efficacia anche se l’uomo non ci mettesse il cuore, perché sgorgano da quello di Dio. Ed è tragico che vengano imputati come prova di aridità a carico chi continua a tenerli vivi, quasi che la condiscendenza alle derive mondane possa essere più meritoria agli occhi del Signore. Non c’è nulla, sulla terra, che valga quanto la forma e la materia di un sacramento per santificare e letificare la vita e la morte degli uomini: “Ora Emma non era più così pallida e aveva sul volto un’espressione di serenità, quasi che il sacramento l’avesse guarita”. Proust, padre letterario degli atei devoti, era incantato dalla levità di queste righe. E fu forse lo splendore liturgico che vi riluceva a fargli serbare come ricordo tra i più amati un Rosario portatogli dalla Terra Santa, tanto da chiedere più volte alla governante di porglielo tra le mani in punto di morte. Ma, pur essendo custode di tale splendore e tale grandezza, il tradizionalista può cadere nel troppo umano e persino nel solo umano. Che non consiste nell’esibire una dottrina e una pastorale a cui ha sottratto il cuore, ma nel tenerle solo per sé, quasi fosse l’avanguardia di una rivoluzione al contrario e non, invece, soldato sotto gli stendardi del contrario della rivoluzione.
Tale tentazione è frutto dell’applicazione di categorie politiche al Corpo Mistico di Cristo: l’unico luogo di questo mondo in cui non hanno efficacia e sono destinate a fallire. La prova del Concilio Vaticano II, consegnato dal modernismo a una visione politicizzata, ha condotto certi tradizionalisti a cadere nel grande inganno rivoluzionario finendo in due finti opposti. Da un lato, si sostiene che un Concilio non può sbagliare e dunque, dal momento che alcuni documenti del Vaticano II suscitano difficoltà, il Papa che li ha promulgati e i successori che li hanno accettati hanno perso quanto meno “formalmente” la suprema autorità: sono Papi solo “materialmente”. Dall’altro, si dice che un Concilio non può sbagliare, dunque il Vaticano II non ha sbagliato, dunque non solo è un vero Concilio ma è il metro per giudicare tutto il Magistero precedente. Se per i primi il Vaticano II è tutto da buttare a prescindere, per i secondi è tutto da accettare a prescindere. Ma si tratta della stessa posizione che viene semplicemente capovolta.
Gli uni e gli altri, hanno perduto di vista il cristallino “Magnopere curandum est ut id teneatur quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est” distillato da san Vincenzo di Lerino nel suo “Commonitorium”: “Bisogna soprattutto preoccuparsi perché sia conservato ciò che in ogni luogo, sempre e da tutti è stato creduto”. Il tradizionalista si perde quando sottrae la conservazione e la trasmissione della fede all’esercizio della carità e la consegna in ostaggio alla propria intelligenza, al proprio ego. Cosicché, l’eccessiva raffinatezza della cervice teologica, a forza di rendere acuti i ragionamenti, finisce per trasformarli in ottusi e incapaci di parlare al prossimo. Sia che viri verso il neoconservatorismo, sia che viri verso il sedevacantismo, il risultato è un tradizionalismo afasico, al limite dell’autismo, che si compiace della purezza propria e, forse ancor di più, dell’impurezza altrui. Sul piano pastorale, ne discende una degenerazione clericale: il sopruso e la condanna senza capacità di porgere perdono. Sul piano dottrinale, ne deriva il peccato d’orgoglio: alla condanna senza capacità di porgere la verità.
Ma sarebbe troppo semplice, troppo politico, applicare la teoria degli opposti estremismi al mondo tradizionale nel tentativo di salvare un centro buono e puro. L’ipertrofia della cervice è un virus tremendo che ama diffondersi ovunque vi sia attenzione alla ragione e alla dottrina e, nella fase di incubazione, si accontenta di poco. Gli basta che il ventricolo cerebrale del cattolico prenda a pulsare anche solo un po’ più forte e un po’ più in fretta di quello caritatevole. Allora il tradizionalista, che giustamente e cattolicamente prova orrore al cospetto dell’ospedale da campo dove ogni male viene curato con il corazón, rischia di dimenticare che gli uomini sono anime dentro a dei corpi. Perde di vista il senso con cui san Pio X ammoniva che “i veri amici del popolo non sono né rivoluzionari, né novatori, ma tradizionalisti”.
E non è nell’incedere liturgico, nei paramenti pregiati, nelle suppellettili preziose che il tradizionalista trova ostacolo nel farsi amico del popolo. Chi sorride o si scandalizza della devozione a tanto splendore, non sa che quelle liturgie, quei paramenti, quelle suppellettili possono diventare la salvezza di Emma Bovary e della vecchina perennemente inginocchiata a dire il rosario, che possono accompagnare un re all’incoronazione o un sacerdote davanti al plotone d’esecuzione dei rivoluzionari spagnoli e messicani. La grandi opere di assistenza e di mutuo soccorso sono nate nel cuore della chiesa ai tempi in cui il Santissimo passava sotto magnificenti baldacchini tra le folle inginocchiate. Il tradizionalista è amico del popolo proprio perché si fa tutt’uno con quell’incedere liturgico, quei paramenti pregiati, quelle suppellettili preziose, le offre a Dio e quindi non chiede nulla in cambio agli uomini.
Così può curarsi dei corpi senza dimenticare che racchiudono delle anime. Come Santa Teresa di Gesù Bambino, anima felice di essere forma di un corpo malato. Un giorno, durante la malattia che la accompagnò alla morte, la piccola Teresa ebbe in dono dalle consorelle una rosa. Invece che deporla in un vaso, la sfogliò sul Crocifisso con pietà e amore, quasi a lenire le piaghe di Cristo. “Nel mese di settembre” disse accompagnando il suo gesto “la piccola Teresa sfoglia ancora una rosa di primavera”. E poi “En éffeuillant pour Toi la rose printanière, je voudrais essuyer tes pleurs!”. Sfogliando per Te la rosa primaverile, vorrei asciugarti le lacrime”. E, siccome i petali cascavano per terra e rischiavano di andare persi, ormai morente si affrettò a invitare le consorelle a non sprecare tanta bellezza: “Raccoglieteli sorelline mie, vi saranno utili per fare dei piaceri più tardi, non ne perdete nessuno…”. Era il settembre 1897. Nel settembre 1910, uno di quei petali guarì il vecchio Ferdinand Aubry da un cancro alla lingua.
Il tradizionalista ha tra le mani petali come questi e, se non vuole perdere se stesso, deve perennemente fare memoria che non sono suoi. Solo così potrà trovare un luogo, anche piccolo, in una di quelle scene sacre che ammaliarono Proust, dalle vetrate delle cattedrali in procinto di essere dissacrate dallo stato francese. Immagini così cattoliche da accogliere tutti: “Non soltanto la regina e il principe (…). O voi tutti, dalle vostre vetrate di Chartres, di Tours, di Bourges, di Sens, di Auxerre, di Troyes, di Clermont Ferrand, di Tolosa, bottai, pellai, speziali, pellegrini, bifolchi, armaioli, tessitori, tagliapietre, beccai, panierai, scarpari, cambiamonete, o voi, grande democrazia silenziosa, fedeli ostinati ad ascoltare l’uffizio, non smateriati ma più belli che ai giorni della vostra vita, nella gloria di cielo e di sangue della preziosa vetrata, non udrete più la Messa che vi eravate assicurata dando per l’edificazione della chiesa i vostri più limpidi scudi”. Il limpido scudo con cui il tradizionalista può assicurarsi un luogo tra questi fratelli è lucente di dottrina e liturgia, ma ha da ardere di carità.
Alessandro Gnocchi
(IL FOGLIO del 6/11/14)