O la Tradizione o il caos (l'importanza della Tradizione nell'ora presente)
L’epoca della sicurezza
Cento anni fa, nel maggio del 1914, governava la Chiesa san Pio X e regnava sul vasto Impero austroungarico l’imperatore Francesco Giuseppe.
Nelle cerimonie del venerdì santo si pregava per la Chiesa e per l’Impero: “Oremus et pro christianissimo Imperatore nostro ut Deus et Dominus noster subditas illi faciat omnes barbaras nationes, ad nostram perpetuam pacem” e si aggiungeva: “Onnipotens sempiterne Deus, in cuius manu sunt omnium potestates et omnium iura regnorum: respice ad Romanorum benignus Imperium; ut gentes, quae in sua feritate confidunt, potentiae tuae dextera comprimantur”.
In quel mese di maggio del 1914 san Pio X e l’Imperatore Francesco Giuseppe erano prossimi alla morte, ma soprattutto l’Europa era alla vigiia di un’immensa tragedia: la Prima Guerra Mondiale.
Il 28 giugno 1914, l’erede al trono imperiale Francesco Ferdinando fu assassinato a Sarajevo. I colpi di rivoltella che lo uccisero furono la scintilla che fce detonare la Prima Guerra mondiale.
La Prima Guerra mondiale, con i Trattati di Pace che ad essa seguirono, fu uno sconvolgimento geopolitico, perché l’Europa con la scomparsa dell’Impero asburgico perse il suo baricentro, ma fu soprattutto una Rivoluzione nella cultura e nella mentalità dell’uomo europeo. Fu la fine di un’epoca.
Bisognerebbe rileggere le pagine con cui si aprono le memorie dello scrittore austriaco di Stefen Zweig (1881-1942), Die Welt von Gestern, Il mondo di ieri (1941).
Scrive Zweig in questo libro: “Se tento di trovare una formula comoda per definire quel tempo che precedette la prima guerra mondiale, il tempo in cui sono cresciuto, credo di essere il più conciso possibile dicendo che fu l’età d’oro della sicurezza. Nella nostra monarchia austriaca quasi millenaria tutto pareva duraturo e lo Stato medesimo appariva il garante supremo di tale continuità.(…).La nostra moneta, la corona austriaca, circolava in pezzi d’oro e garantiva così la sua stabilità. Ognuno sapeva quanto possedeva o quanto gli era dovuto, quellp che era permesso e quello che era proibito; tutto aveva una sua norma, un peso e una misura precisi. (…) Ogni famiglia aeva un bilancio preciso, sapeva quanto potesse spendere per l’affitto e il vitto, per le vacanze e gli obblighi sociali, e vi era sempre una piccolo riserva per gli imprevisti, per le malattie e per il medico. Chi possedeva una casa la considerava asilo sicuro dei figli e dei nipoti; fattorie ed aziende passvano per eredità di generazione in generazione; appena un neonato era in culla, si metteva nel salvadanaio o si deponeva alla cassa di risparmio il primo obolo per il suo avvenire, una piccolo riserva per il suo cammino. Tutto nel saldo Impeo appariva saldo e inemovibile e al posto più alto stava il sovrano vegliardo; ma in caso di sua morte si sapeva (o si credeva di sapere) che un altro gli sarebbe succeduto senza che nulla si mutasse nell’ordine prestabiilto. Nessuno credeva a guerre, a rivoluzioni e sconvolgimenti. Ogni atto radicale, ogni violenza apparivano ormai impossibili nell’età della ragione. (…) era un mondo ordinato, con chiare stratificazioni e comodi passaggi, era un mondo senza fretta. (,,,) Anche nella mia più remota infanzia, quando mio padre non aveva ancora quarant’anni, non posso ramentarmi di averlo mai visto correre frettoloso su e giù per una scala o comunque fare qualcosa con visibile fretta”.
Questa atmosfera di sicurezza e di stabilità in cui era immerso non solo l’uomo austriaco, ma l’uomo europeo, presupponeva una visione del mondo; dietro le istituzioni stabili e apparentemente incrollabili su cui si fondava la società, dalla famiglia alla monarchia, c’era una concezione dell’uomo e della società fondata sull’idea di permanenza, e di stabilita; sul primato di ciò che è, di ciò che stà, su ciò che si trasforma e muta; sul primato dell’Essere sul divenire; sul primato, in una parola dei valori assoluti che bisogna conoscere per poterli vivere; il primato della contemplazione sull’azione.
L’epoca dell’incertezza
Cento anni dopo, se dovessimo caratterizzare la nostra epoca, la dovremmo definire come l’età dell’insicurezza e dell’instabilità.
La perdita della stabilità politica ed ideologica, il disordine economico, sociale, intellettuale, è stato il filo conduttore del XX secolo, il secolo delle rivoluzioni, delle guerre mondiali, dei totalitarismi delle guerre civili e dei genocidi. Il secolo più cruento della storia occidentale.. Un secolo che si è chiuso con il crollo parallelo del Muro di Berlino e delle Twin Towers simboli della apparente solidità dei due Imperi contrapposti: il russo e l’americano.
I sociologi, per definire la nostra epoca hanno parlato di “società dell’incertezza”. Oggi, scrive Zygmunt Bauman, in un libro che ha questo titolo, “pochi individui sono così potenti da essere sicuri che la loro casa, per quanto salda e resistente, non sia frequentata dallo spettro di un crollo imminente: nessuna occupazione è garantita, non c’è posizione che non possa indebolirsi, non c’è capacità o abilità la cui utilità sia in grado di durare a lungo”. Bauman parla anche di “società liquida”, in cui si dissolve ogni forma, anche elementare, di aggregazione sociale.
La “vita liquida” di cui scrive Baumann è la vita precaria ed effimera dell’uomo contemporaneo: una vita, priva di radici e di fondamenti, inevitabilmente consumistica, perché si vive solo nel presente, immersi nella liquefazione di ogni valore e di ogni istituzione. Tutto ciò che viene liquidato viene consumato o, potremmo dire, tutto ciò che viene consumato, viene liquidato: dai prodotti alimentari alle vite degli individui. La società liquida è quella in cui nulla è solido, nulla stà. Tutto è fluido, perché tutto scorre, tutto diviene.
Un futuro Stefan Zweig che volesse scrivere le memorie del nostro tempo, lo definirebbe come l’età dell’insicurezza e dell’instabilità. Nell’epoca in cui sono vissuto – scriverebbe il futuro storico – nulla era stabile. Le istituzioni politiche erano screditate e vacillanti; la famiglia era frantumata; per i giovani il possesso di una casa, la prospettiva di un lavoro, la possibilità del risparmio, apparivano miraggi. Sposarsi, mettere al modo dei figli creare una famiglia, costituiva un’impresa talvolta eroica. Ma soprattutto i giovani erano privi, o meglio privati, di certezze e di ideali. Tutto veniva messo in discussione; ogni valore era dissacrato. Nubi di incertezza e di preoccupazione avvolgevano il futuro dell’umanità. Ovunque era confusione e squilibrio. Questo era lo stato del mondo all’inizio del XXI secolo.
Ebbene, questo orizzonte di rovine, che è il nostro orizzonte, non è un dato irreversibile, come ci vogliono far credere i sociologi. Non è un processo: è un progetto. E’ il sogno deforme di un mondo all’insegna del caos, elaborato dalle società di pensiero che vorebbero ricreare il mondo. Dietro l’instabilità sociale e prima di tutto psicologica che caratterizza il nostro tempo c’è una concezione del mondo opposta all’antica: la realtà è fluida, la società è liquida, perché esiste un progetto politico e culturale di liquefazione della società, di dissoluzione della Civiltà cristiana, di attacco alla Chiesa, che è il vero e ultimo nemico perché rappresenta il luogo per eccellenza delle verità immutabili e delle certezze assolute.
Le radici di questo progetto ideologico sono remote, ma quelle prossime, nel ventesimo secolo, rimontano alla Prima Guerra mondiale e alla Rivoluzione russa che si scatena al suo interno, ad opera dei discepoli di Marx e di Engels.
Ciò che caratterizza la filosofia tradizionale della storia, il pensiero classico e poi quello cristiano che lo perfeziona, è la ricerca della verità come fondamento del reale. Secondo la filosofia tradizionale esiste un ordine oggettivo di verità e di valori morali anteriore alla nostra ragione ed è compito della ragione conoscerlo, per poi conformare a quest’ordine il comportamento. Per Marx e per i suoi discepoli non esiste invece una verità assoluta che possa essere oggetto di conoscenza, neppure la materia, a cui i marxisti riducono tutta la realtà. Il cuore del marxismo, più ancora del materialismo, è la filosofia hegeliana del divenire, capovolta di segno in materialismo dialettico. L’universo è materia in evoluzione e il compito degli intellettuali è quello di partecipare a questa trasformazione del mondo, accelerandola. Comprendere non solo il divenire del mondo, ma il mondo come divenire.
Nella seconda tesi su Feuerbach (1845), Karl Marx afferma che l’uomo deve trovare la verità del suo pensiero nella prassi e nell’undicesima tesi sostiene che il compito dei filosofi non è quello di interpretare il mondo, ma di trasformarlo. La verità è nella prassi. Il filosofo è sostituito dal rivoluzionario e il rivoluzionario deve dimostrare nell’azione, la potenza e l’efficacia del suo pensiero. Sotto questo aspetto Lenin fu il rivoluzionario-filosofo che nel 1917 attuò nella prassi la teoria comunista. Con Lenin la filosofia si fece mondo. La filosofia della prassi non è pragmatismo, attivismo, vitalismo, irrazionalismo. E’ il tentativo di portare alla sua radicale coerenza il processo di secolarizzazione iniziato dall’umanesimo e dal protestantesimo; un processo che ha il suo evento fondatore nella Rivoluzione francese: madre di tutte le tragedie che si sviluppano nei secoli successivi, a cominciare dal comunismo e dal nazionalsocialismo.
“Filosofia della prassi”è il nome che Antonio Gramsci dà a questo processo storico.“La filosofia della prassi - scrive nei suoi Quaderni dal carcere - presuppone la rinascita e la Riforma, la filosofia tedesca e la Rivoluzione francese, il calvinismo e l’economia classica inglese, il liberalismo laico e lo storicismo che è alla base di tutta la concezione moderna della vita. La filosofia della praxis è il coronamento di tutto questo movimento di riforma intellettuale e morale; (...) essa corrisponde al nesso Riforma protestante + Rivoluzione francese”. Noi diamo il nome di Rivoluzione a questo processo e non conosco autore che lo abbia meglio descritto di Plinio Correa de Oliveira.
L’essenza di questo processo rivoluzionario non è in ciò che crea, ma in ciò che distrugge e nega. Engels riassume queste negazioni nel suo volumetto su L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. La famiglia, la proprietà privata e lo Stato sono negate in radice perché non esistono istituzioni sociali radicate nella natura: tutto è prodotto della storia. L’uomo stesso è privo di una sua natura: è materia amorfa, malleabile a piacere. La teoria del gender è in nuce nel marxleninismo e si inserisce in quella visione evolutiva, per la quale l’uomo non ha un’essenza propria: proviene dalle bestie e si divinizza nella materia eterna, da cui tutto viene e a cui tutto ritorna.
La natura dice san Tommaso, è “l’essenza della cosa in quanto ordinata al proprio fine” (essentiam rei secundum quod habet ordinem ad propriam operationem). La natura è ciò che costituisce un essere e che gli permette di agire secondo il suo fine. La natura contiene in sé un limite: è impossibile ad un essere diventare altri da ciò che esso è. Nella misura in cui l’uomo intende superare o negare i limiti del proprio essere e della propria natura, egli abbandona la capacità di realizzare il fine che gli è proprio. Quando l’uomo perde di vista il proprio fine, tende a diventare ciò che non è: tende verso il vuoto, è risucchiato dal nulla. Il nichilismo è l’esito inevitabile della negazione della legge naturale.
Il nichilismo non è una mèta dichiarata è un esito, un risultato. E’ la conseguenza teorica e pratica non della negazione dell’essere, ma della negazione del fine, che è anche la negazione della causa, perché il fine è il principio, la causa da cui tutto proviene e a cui tutto è ordinato. Il nucleo teoretico ed esistenziale del nichilismo secondo il padre Cornelio Fabro è la mancanza di uno scopo, di un fine: manca la risposta alla domanda del “perché”.
Nella mente del bambino in cui si dischiude la ragione, affiorano le prime domande, espresse dalla parola perché. C’è una profonda umiltà in questo domandarsi il perché di ogni cosa: questa domanda esprime in maniera spontanea e irriflessa la constatazione che il mondo non è una costruzione del nostro io, ma una realtà oggettiva a cui l’intelligenza deve sottomettersi. Nel bambino una innocenza quasi angelica convive con una logica implacabile. Il suo perché proclama che “tutto ciò che esiste ha un fine, ha una causa, ha un significato". Tutto ciò che esiste ha un significato: in questa formula si racchiude il segreto dell’universo. Tutto ciò che esiste ha un senso, ha una ragione d’essere, ha un significato, in una parola, è ordinato: l’universo è armonia, ordine non incrinato neppure dalla presenza del male, dall’azione del demonio.
Il bene dell’uomo, della società e della storia consiste nel sottomettersi e ordinarsi alla propria causa e al proprio fine, cioè nel riconoscere Dio come Creatore e come legislatore supremo, nel tendere verso di lui, nel lottare per affermare la sua sovranità nella storia e nella società. Il primo nome di Dio è l’Essere perché solo Lui è l’Essere per essenza, l’Atto di Essere allo stato puro, colui che non ha limiti nel tempo né confini nello spazio: l’infinito, l’eterno, l’immenso. Tutto ciò che esiste, esiste perché ha un grado di essere. Ogni perfezione della realtà si riduce ad un grado di essere, che rimanda ad un Essere assoluto, senza limiti e senza condizioni.
L’unica alternativa alla Rivoluzione nichilista che ci aggredisce è il ritrovamento della pienezza dell’Essere, in tutte le sue forme, che è anche il ritrovamento della stabilità e dell’equilibrio interiore e dell’ordine politico e sociale. Alla concezione liquida del mondo, fondata sul primato del divenire, dobbiamo contrapporre una visione assiologica dell’universo, fondata sul primato dell’Essere.
L’assiologia è la scienza dei valori. Il valore è propriamente “ciò per cui una cosa vale”. Il valore è dunque ciò che dà significato alla cosa è, in certo senso, il suo significato. In questo senso il valore scaturisce dall’essere stesso della cosa, è il significato più profondo della realtà, il fine che le è proprio, la perfezione della realtà. I valori sono principi che radicano la propria perfezione nel principio supremo di tutto il reale. Al di sopra di tutti i princìpi c’è un principio universale, centro e sorgente di tutte le leggi, senza alcuna eccezione. E’ Dio, il principio primo, la legge eterna, senza principio, senza mutamento, senza fine, su cui si fondano i princìpi ultimi, i valori assoluti, le verità universali.
La vita e la morte dei valori non è legata alla loro accettazione o al loro rifiuto da parte dell’uomo. Essi non sono mai in crisi; vivono anche nella coscienza di chi li rifiuta. I valori autentici sono metastorici, perché non sono un prodotto della coscienza e della storia, si situano al di fuori della storia, la giudicano e non sono giudicati da essa; sonotrascendenti e non immanenti il mondo; sono permanenti, perché non mutano; sono universali, perchè sono validi per ogni uomo, in ogni epoca dell’umanità.
O esistono dei valori, dei princìpi, delle verità che trascendono la storia e la giudicano, oppure questi valori non sono assoluti, ma relativi, prodotti dal divenire storico che è parte della più ampia evoluzione del cosmo. Alla visione assiologica si contrappone ua visione evolutiva che oggi è penetrata all’interno del mondo ecclesiastico. Il cardinale Martini l’ha espresso quando ha affermato che la Chiesa è duecento anni indietro alla storia. La Chiesa dunque non giudicherebbe la storia e il mondo, ma riceverebbe da esso e non da Gesù Cristo la sua verità, il suo criterio di giudizio.
La Chiesa è stata fondata da Gesù Cristo per annunciare la sua verità al mondo e convertirlo. Essa ha una dottrina e una legge, assoluta e immutabile, riflesso della legge eterna, che è Dio. Questa dottrina e questa legge sono contenute nella Sacra Scrittura e nella Tradizione e il Magistero ha la missione di custodirla e di trasmetterla. Neppure uno iota di questi princìpi può essere mutato. Nel corso della storia è capitato che i cristiani nella loro vita personale si allontanassero dalle verità e dai precetti della Chiesa. Sono le epoche di decadenza, che esigono una profonda riforma, overo un ritorno all’osservanza dei princìpi abbandonati. Se così non accade, c’è la tentazione di trasformare i comportamenti immorali in principi opposti alle verità cristiane- Questa tentazione è penetrata nella Chiesa e ci viene proposta attraverso la formula della prassi pastorale. La dottrina della Chiesa – ci viene detto – non cambia: cambia il modo con cui questa dottrina ci vene comunicata; cambia la prassi pastorale.
Questa tesi è implicita nella Gaudium et spes ed è in nuce nel discorso Gaudet mater Ecclesiae, con cui l’11 ottobre 1962 Giovanni XXIII inaugurò il Concilio Vaticano II. In quel solenne discorso Giovanni XXIII attribuì al Concilio che si apriva una nota specifica: la sua pastoralità. Nel Vaticano II la pastoralità non fu solo la naturale esplicazione del contenuto dogmatico del Concilio e la applicazione dei suoi decreti, come era sempre stato. La “pastoralità” fu invece elevata a principio alternativo alla “dogmaticità. La specificità del concilio Vaticano II è stato il primato della pastorale, sulla dottrina, l’assorbimento della dottrina nella pastorale, la trasformazione della pastorale in ideologia. Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro hanno descritto questo processo in La Bella addormentata ed Enrico Maria Radaelli in Il domani del dogma.
C’è una verità indiscutibile: le idee hanno conseguenze. Le idee non vivono in un olimpo celeste, ma hanno un rapporto stretto e diretto con la realtà. Le idee generano fatti. I grandi eventi storici sono conseguenze di idee. Non si può spiegare la Rivoluzione francese senza l’Illuminismo o la Rivoluzione russa senza le opere teoriche di Marx e di Lenin. Tuttavia, se è vero che le idee hanno conseguenze sul piano dei fatti, è vero anche il contrario. I fatti producono conseguenze sul piano delle idee. La Rivoluzione francese è un fatto storico che discende dall’illuminismo, ma è a sua volta causa di nuove idee e di nuovi fatti. Il mondo si cambia con le idee e con i fatti e, come ha intuito Plinio Correa de Oliveira, dietro le idee e i fatti ci sono le tendenze profonde dell’animo umano, i sentimenti e le passioni.
La filosofia tradizionale, a partire da Aristotele, ha sempre affermato il primato delle idee sui fatti, della contemplazione sull’azione, della teoria sulla prassi. Ma la filosofia tradizionale, mentre affermava il principio secondo cui agere sequitur esse, non ha ignorato l’influenza dell’agire sull’essere, della prassi sulla teoria.
La frase con cui Paul Bourget conclude il suo romanzo Le démon du midi lo esprime bene: “Bisogna vivere come si pensa se non si vuole finire di pensare come si vive”. Bourget afferma il primato della conoscenza, perché bisogna conformare la vita alle idee; ma nello stesso tempo sottolinea la capacità che ha la vita di influenzare e perfino di capovolgere le idee. Se la vita contraddice il pensiero, lo trasformerà profondamente.
Ciò vale nella vita degli uomini, ma anche nella vita dei popoli e nella stessa vita della Chiesa. Possiamo citare un esempio illuminante.
Nei primi cinque secoli, la Chiesa di Occidente e quella di Oriente professarono l’indissolubilità del matrimonio, senza eccezioni. Ma nel VI secolo, mentre la Chiesa di Roma contrappone la sua dottrina matrimoniale alle pratiche dei popoli barbarici che invadevano l’Occidente, il Patriarchi di Costantinopoli assumono un atteggiamento remissivo nei confronti di Giustiniano e dei suoi successori, che introducono il divorzio nelle leggi civili dell’Impero. In una prima fase storica la Chiesa d’Oriente continuò a professare l’indissolubilità, ma cessò di applicare i canoni disciplinari contro chi la trasgrediva. La Chiesa di Costantinopoli tollera nei fatti ciò che condanna sul piano dei princìpi. La prassi pastorale iniziò a divenire una regola, finché, dopo lo scisma d’Oriente del 1054, il patriarca Alessio e i suoi successori elevarono questa prassi a principio, legittimando ufficialmente il divorzio.
In quegli anni il divorzio è prassi anche in Occidente, in seguito alla grave crisi morale in cui è immersa la Chiesa. Ma mentre in Oriente la Chiesa asseconda la decadenza morale, in Occidente parte da Cluny una profonda riforma morale che avrà il suo campione in san Gregorio VII. San Gregorio VII, san Pier Damiani e i monaci di Cluny reagiscono con vigore contro il divorzio, la simonia, il concubinati dei preti, avviando una profonda rinascita morale della società.
La Chiesa d’Oriente, nel corso dei secoli, ha adeguato i suoi principi alla prassi, la Chiesa romana ha conformato la prassi ai princìpi.
Che cosa accade quando si propone di mutare la prassi pastorale senza toccare i princìpi? Accade che la prassi contraddice di fatto la dottrina e questa contraddizione tra la vita e la verità porta inesorabilmente alla alterazione della verità, alla trasformazione della dottrina non per via dogmatica, dall’alto, ma per via fattuale, dal basso. E’ quanto ha proposto il card. Kasper a tutta la Chiesa, nel suo rapporto introduttivo al Concistoro straordinario sulla famiglia del 20 febbraio.
Con il suo testo Kasper ha proposto al Sinodo dei vescovi e al Papa di legittimare sul piano canonico e dottrinale la prassi diffusa dell’amministrazione della comunione ai divorziati risposati, con la logica conseguenza del riconoscimento delle loro seconde o terze nozze. Tutto il suo discorso è costruito sull'assunto secondo cui “tra la dottrina della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia e le convinzioni vissute di molti cristiani si è creato un abisso”.
Da una parte la dottrina della chiesa che proclama l’indissolubilità del matrimonio, dall’altra non il comportamento, si badi, ma le convinzioni vissute; convinzioni, cioè idee, che però nascono da una pratica che contraddice la dottrina della Chiesa: La vita vissuta, la prassi, diviene il metro di valore e poiché la vita di molti cristiani è immersa nel peccato, al punto che oggi non lo si ritiene più tale, la Chiesa dovrà adeguare la sua dottrina a queste convinzioni vissute, a questa prassi morale.
Il card. Kasper, nella sua relazione, non si è chiesto come è nata e come si è sviluppata, negli ultimi decenni, questa prassi antitetica alla dottrina della Chiesa; non si è domandato quali sono le idee che l’hanno provocata e gli uomini che l’hanno promossa. Egli riduce la storia a un flusso impersonale di eventi e sembra credere che nel rapporto antagonistico tra la Chiesa e la società, la Chiesa debba inseguire le trasformazioni della società secolarizzata, piuttosto che cercare di convertirla.
L’ideale di una società integralmente cristiana è abbandonata, perché la fede, privata dei suoi preamboli razionali è ridotta a lievito sentimentale di un mondo che si auto-costruisce indipendentemente dalla filosofia del Vangelo. Il ruolo della Chiesa è dunque di benedire tutto ciò che emerge dalla realtà sociologica, a cominciare dalle convivenze extramatrimoniali. Il pastore-sociologo riduce le concezioni del mondo a espressioni della situazione storico-sociale. E’ la vision di chi afferma il primate della prassi sulla dottrina, del divenire sull’essere, dell’azione sulla contemplazione.
Trasponendo sul piano religioso la II tesi di Marx su Feuerbach dovremmo affermare che è nella prassi pastorale che i vescovi e i teologi devono verificare la verità della loro dottrina, perché il compito dei pastori e dei teologi non è di insegnare la dottrina, ma di adeguarla al mondo, non è di insegnare la verità, ma di apprenderla dalla storia.
La Tradizione nella Chiesa
A questa visione del mondo prassista e sociologista dobbiamo contrapporre una visione del mondo assiologica. Questa visione del mondo è racchiusa nella parola Tradizione.
La tradizione è lo sviluppo ordinato, nel tempo, di un principio o di un nucleo di princìpi che in quanto tali sono immutabili, non possono mutare.
La Tradizione nella Chiesa è, come la Sacra Scrittura, una fonte della Rivelazione, divinamente assistita dallo Spirito Santo[15]. La Tradizione è la Parola di Gesù Cristo che insegnò ai suoi Apostoli prima e dopo la sua Passione, morte e Risurrezione. Nei 40 giorni tra la Risurrezione e la Ascensione egli apparve spesso a sua Madre e agli apostoli e chiarì bene, fin nei dettagli, il senso della missione della Chiesa da lui fondata, il significato profondo dell’ultima Cena, il significato del Divin Sacrificio che essi avrebbero dovuto perpetuare. La prima Messa, celebrata da san Pietro, seguì meticolosamente le indicazioni di Cristo e fu ritrasmessa da quel rito che chiamiamo tradizionale.
Sappiamo che la Divina Rivelazione si concluse con morte dell’ultimo apostolo San Giovanni. Ma questa Rivelazione non è contenuta solo nei quattro Vangeli e nella Sacra Scrittura, ma anche negli insegnamenti che gli Apostoli ricevettero dalla bocca stessa di Gesù. Si può immaginare fino a che punto la Madonna conservò, memorizzò nel suo Cuore purissimo tutte queste veritàe questi riti e con quanta fedeltà li trasmise poi agli Apostoli. E san Giovanni non fu solo l’ultimo a ritrasmettere di persona le parole che aveva udito, ma per la sua intimità con la Madonna, fu forse quello che ebbe in maggior misura la luce della Tradizione. Morì alla fine del I secolo e già pochi anni dopo la sua morte, la lex orandi e la lex credendi della Chiesa erano immutabilmente definite.
La Chiesa nel corso dei secoli avebbe esplicitato, chiarito e definito queste verità, ma non le avrebbe mai innovate o trasformate. La missione della Chiesa è custodire, trasmettere e difendere la Tradizione.
Il sensus fidei che abbiamo ricevuto col sacramento del battesimo ci impone la fedeltà a quella Tradizione che solo i Pastori hanno il diritto di chiarire e di insegnare, ma che tutti i battezzati hanno il diritto di custodire e di trasmettere come l'hanno ricevuta.
La Tradizione non è solo la regula fidei della Chiesa, è anche il fondamento della società. La Chiesa infatti è maestra non solo di fede, ma anche di morale. La morale di una società si esprime in usi, costumi, abitudini, in una parola in una tradizione storica e concreta, che riflette quella divina e naturale. Una Tradizione che è giudizio sulla storia in nome non della storia stessa ma di verità che la trascendono. La tradizione storica è rappresentata dai costumi di un popolo che non sono altro che le disposizioni morali di una società. Questa tradizione è custodita dalle famiglie, dalle élites sociali, da chiunque ne senta riecheggiare la voce nel cuore. Abbimo bisogno di uomini della Tradizione, di cattolici inegri e integrali nella vita e nella dottrina e, con l’aiuto di dio, abbiamo bisogno di santi. Abbiamo bisogno di protettori in Cielo.
Abbiamo bisogno di protettori della Tradizione e tra i possibili patroni, vorrei ricordare santa Teresa la Grande. Quella santa Teresa che diceva che avrebbe dato la vita per la più piccola cerimonia della Chiesa. Quante vite avrebbe dato, quanto sangue avrebbe versato santa Teresa, di fronte alla devastazione degli altari, alla eversione dei riti, al seppellimento delle cerimonie nel clima di furore iconoclasta e di odio alla tradizione che ci circonda?
Santa Teresa scriveva anche delle parole che ci devono confortare nei giorni difficili della nostra vita e della nostra storia.
"Nulla ti turbi, nulla ti spaventi. Chi ha Dio di nulla manca. Tutto passa, solo Dio non muta” . Queste parole sono un manifesto della Tradizione.
Ebbene, la frase di Santa Teresa, solo Dio non muta, significa che solo ciò che riflette la legge naturale e divina vive e merita di vivere nella storia; ciò che è innaturale, ciò che si allontana dall’ordine divino è destinato a cadere e a corrompersi.
In questo mondo, che si tratti della vita morale o della vita fisica, ci sono le cose che passano e le cose che restano. La Tradizione è l’elemento incorruttibile immutabile della società. La Tradizione è ciò che non passa. E solo nella Tradizione è possibile il progresso, perché noi non possiamo progredire e perfezionarci nelle cose che passano, ma possiamo farlo solo in quelle che restano. La Tradizione è ciò che del passato vive nel presente ciò che deve vivere perché il nostro presente abbia un futuro.
Robespierre nel suo odio distruttore di ogni Tradizione diceva “Cosa c’è di comune tra ciò che è e ciò che fu?”. Noi rispondiamo che se nulla ci fosse di comune tra ciò che è e ciò che fu, tra il presente e il passato, non sarebbe possibile né presente né futuro, ma il presente sarebbe destinato ad essere inghiottito nel nulla, perché tutto ciò che è trae la sua origine da un principio, ogni frutto ha un albero e ogni albero ha una radice. E la radice ultima di tutto ciò che è e di ciò che sarà, è Dio stesso, in cui passato, presente e futuro, si fondano in unico infinito atto di essere.
Il cuore della tradizione è in Dio stesso, essere per essenza, immutabile eterno. E' in Dio, e solo in Lui, e in Colei che di Lui è l’eco perfetta, la Santissima Vergine Maria, che i difensori della fede e della Tradizione possono trovare la forza soprannaturale necessaria ad affrontare il nostro tempo di crisi. La Tradizione è ciò che è stabile nel perenne divenire delle cose, è ciò che è immutabile nel mondo che muta, e lo è perché ha in sé un riflesso di eternità.
E' per questo che le parole di Santa Teresa risuonano nei nostri cuori come un manifesto, un motto della Tradizione:"Tutto passa, solo Dio non muta".
Sì, solo Dio non muta, solo ciò che in Dio si fonda e si riposa merita di essere conservato, trasmesso, custodito. E nell’epoca di Rivoluzione attuale, dove potrebbero gli uomini e i popoli cercare la stabilità e la pace se non in Colui che ha detto. “Il Cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (Mc, 13, 31).
Roberto de Mattei
(Relazione tenuta alla "Giornata della buona stampa cattolica" - Linarolo, 1 maggio 2014 - by UNAFIDES33.blogspot.it)