Ritorno al realismo
“È ridicolo andare in cerca di ragioni contro chi, rifiutando il valore della ragione, non vuol ragionare” (Aristotele, Metafisica, IV, 4).
Il male di cui soffre il mondo moderno – diceva san Pio X – è soprattutto “un male dell’intelligenza: l’agnosticismo”, secondo il quale, il trascendente può anche esistere, ma è assolutamente inconoscibile. Se vogliamo guarire da tale male dobbiamo ritornare al realismo della conoscenza.
L’intelletto umano è capace di conoscere la realtà; è un fatto evidente a tutti gli uomini forniti di retta ragione ed onestà intellettuale e morale. Spesso l’errore intellettuale ha un’origine pratica o morale, ossia ci si vuol sbagliare e non si vuol ammettere la realtà per non dover cambiar vita.
Il pensiero moderno è impregnato di soggettivismo, relativismo, agnosticismo. In breve è caratterizzato da una “contro-filosofia”, che nega o relativizza al massimo la possibilità della ragione umana di conoscere la realtà, giungere alla verità e vivere da vero uomo, ossia da “animale razionale” (Aristotele), il quale deve “fare il bene e fuggire il male: questo è tutto l’uomo” (Sal., XXXIV, 15).
Non si può dubitare di tutto. Infatti nel momento in cui dico di dubitare, implicitamente affermo che son certo almeno di una cosa: della mia asserzione di dubitare di tutto.
La filosofia realista eleva il buon senso, comune a tutti gli uomini capaci di intendere e volere, a scienza filosofica, la quale si basa sulla convinzione che esiste una realtà oggettiva indipendente dal pensiero dell’uomo, il quale ha un’intelligenza che non lo inganna, ma coglie il suo oggetto senza deformarlo, anche se non lo conosce totalmente e perfettamente.
Perciò la verità esiste e consiste nell’adeguamento dell’intelletto alla realtà. L’idealismo, la sofistica, l’agnosticismo, lo scetticismo (che negano la capacità umana di conoscere la realtà) si servono pur sempre della ragione per criticare la ragione umana come se l’unica ragione ragionevole fosse la loro.
Come si vede, vi sono sostanzialmente due correnti filosofiche. La prima sostiene – secondo il buon senso e la retta ragione – che esiste una realtà oggettiva e che la si può conoscere in quanto esiste in sé ed è posta davanti al soggetto conoscente. La seconda è sostanzialmente una (irrealismo) e accidentalmente composita: o crede che sia il pensiero umano a porre in essere la realtà (idealismo) o che l’uomo non abbia la capacità di conoscere la realtà (agnosticismo) o che debba dubitare di tutto (scetticismo).
Tutta la vita normalmente vissuta di ogni uomo presuppone la concezione realistica della conoscenza. Infatti ogni uomo dotato di sanità mentale ritiene che esistano più soggetti conoscenti e non uno solo (‘monismo’), più oggetti e non uno solo (‘panteismo’). Inoltre l’uomo normale sa che le cose reali esistono fuori del suo pensiero e indipendentemente da esso e che le conosce come sono in se stesse e non applicando loro una propria forma soggettiva (come vorrebbe Kant).
Ciò vale per gli stessi filosofi idealisti almeno nella vita pratica. Essi in teoria propugnano l’idealismo o il soggettivismo della conoscenza, ma in pratica agiscono, e quindi pensano, da realisti. Lo scettico Pirrone “per coerenza si sforzava di non badare ai precipizi, ma, assalito da un cane, si impaurì, ben distinguendo un cane da un agnello” (Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi, IX, 2). Onde “lo scettico coerente dovrebbe chiudersi nel mutismo assoluto, perché parlare vuol dire avere ed esprimere certezze. Quindi Cratilo finì col tacere e muoveva solamente il dito” (Aristotele, Metafisica, IV, 5, 1010 a).
Aristotele scriveva a proposito di costoro: “Eraclito dice di negare il principio di non contraddizione, ma allora perché va a Megara e non se ne sta tranquillo a casa pensando di camminare? E perché non si getta nel pozzo, ma si guarda bene dal farlo proprio come se pensasse che cadere non è lo stesso che non cadere?” (Metafisica, IV, 4, 1008 b).
Gli astronomi sono convinti di studiare delle realtà che son fuori di qualsiasi coscienza o soggetto pensante e così i fisici, i chimici, i geografi.
Tutti gli storici considerano Giulio Cesare e il pugnale di Bruto come realtà oggettive e non come prodotti del loro pensiero.
In breve ogni uomo fuori della discussione filosofica è immancabilmente realista e per l’idealista nell’atto di filosofare vale sempre ciò che scriveva Aristotele riguardo ai sofisti del suo tempo: “non si crede a tutto ciò che si dice” (Metafisica, IV, 3, 1005 b).
Nel filosofo idealista o sofista si realizza immancabilmente una frattura tra la teoria e la pratica. Come uomo nella vita comune e pratica pensa ed agisce da realista, mentre come filosofo, quando sale in cattedra, la pensa da idealista e nega la realtà oggettiva del soggetto conoscente e dell’oggetto conosciuto.
Ora se per fare il filosofo bisogna cessare di esser uomo è meglio smettere di fare il filosofo.
Per esempio Kant filosofeggiando dice che l’uomo non conosce la cosa in sé, ma la conosce come gli appare avendo applicato ad essa una sua categoria o forma soggettiva. Tuttavia per arrivare a dire ciò, prima egli ha indagato su quella cosa in sé che è la conoscenza umana e che è il soggetto conoscente, ossia Kant in sé e non come ci appare. Se si negasse ciò, si arriverebbe a dire che ogni teoria filosofica non ha nessun valore, che è del tutto soggettiva e relativa.
Inoltre il realismo di cui abbiamo parlato sin qui è pre-filosofico, naturale, spontaneo; invece non esiste un idealismo naturale, pre-filosofico e spontaneo. Infatti solo il realismo corrisponde alla convinzione spontanea della natura umana sulla conoscenza.
Invece l’idealista deve dimostrare che il realismo è falso, ma per far ciò deve dimostrare che la conoscenza naturale, spontanea, pre-filosofica di ogni uomo funziona male, è intrinsecamente corrotta. Ma, siccome per filosofare dobbiamo servirci della nostra capacità conoscitiva, bisognerebbe smettere di filosofare e dichiarare il fallimento di ogni filosofia come di ogni capacità di conoscere.
L’uomo comune e il filosofo realista sanno che esistono e che vi sono oggetti reali al di fuori di loro. Per esempio, mentre sto scrivendo, so perfettamente che le mie mani sono appoggiate alla tastiera del computer, i piedi sono appoggiati sul pavimento, i libri sono davanti a me. Quindi sono convinto pre-filosoficamente che esistono oggetti reali distinti da me, al di fuori del mio pensiero e distinti tra loro. S. Tommaso d’Aquino scrive che “sono stolti e insinceri i dubbi sui fatti della più ovvia esistenza / Dubitationes istae stultae sunt” (Commento alla Metafisica di Aristotele, lezione XV, n. 709).
La scrivania resta ferma al suo posto anche se io mi alzo ed esco, perciò io e il tavolo siamo due realtà oggettivamente e realmente distinte e il tavolo non dipende dal mio pensiero.
È un fatto indubitato che esistono più realtà tra loro distinte. Quindi il monismo, che identifica in un solo ente ogni cosa, è falso. Parimenti il mio io è distinto da tutta la realtà, che non dipende dal mio ‘ego’.
Gli oggetti reali e i soggetti conoscenti distinti da me non consistono nell’essere pensati da me (come vorrebbe l’idealismo). Le cose esistono indipendentemente dal mio pensiero, il mio pensiero non le pone, ma le suppone e poi le conosce (cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, IX, 9, 1170 a 30-35; L’Anima, III, 4, 429 b 7-9; Metafisica, XII, 9, 1074 b 34; S. Tommaso d’Aquino, De Veritate, 10, 8, Commento su L’Anima di Aristotele, III, 4, lezione 9; S. Th., I-II, q. 94, a. 2).
Perciò conoscere significa apprendere una realtà posta davanti a me, che è indipendente dalla mia conoscenza.
Conoscere significa apprendere qualcosa come un oggetto il quale sta davanti a me indipendentemente dal mio pensiero (ob-jacet). Non sono io che produco col mio pensiero questo oggetto che giace (jacet) davanti (ob) a me.
Dunque conoscere significa apprendere una realtà posta davanti a me come soggetto conoscente, realtà che la mia conoscenza presuppone e non pone in essere, quindi realtà indipendente dalla conoscenza.
Conoscere presuppone un oggetto, un qualcosa di reale. Infatti conoscere nulla significa non conoscere. Quindi c’è un oggetto reale che io come soggetto pensante posso conoscere. Lo si chiama oggetto (ob-jacere) poiché sta (jacet) davanti a me (ob). Questo oggetto è una res, qualcosa.
Ogni uomo normale si rende conto che non è il suo pensiero che produce questa realtà, ma si tratta di una realtà già costituita ontologicamente in se stessa prima che io la conosca.
Conoscere, perciò, significa apprendere tale realtà e farla entrare logicamente o psichicamente in me, di modo che, nell’istante in cui conosco un ente o una res, essa, che ontologicamente o fisicamente era già costituita in se stessa, viene psichicamente o logicamente nel mio intelletto.
L’idealismo, invece, presume che l’oggetto esiste ontologicamente perché prima è prodotto psicologicamente dal mio pensiero. Ma il cerchio non è rotondo perché io lo penso così, ma lo penso rotondo perché esso realmente lo è; 2 + 2 = 4 non perché io credo così, ma perché in realtà è così e io debbo conformare il mio pensiero alla realtà.
In breve conosco l’essere perché esso esiste e non viceversa. Aristotele insegna: “non perché io ti reputo bianco tu sei bianco davvero, ma all’incontrario siccome tu sei bianco io penso il vero se ammetto che tu sei bianco” (Metafisica, IX, 10, 1051 b). Così i primi princìpi evidenti e per sé noti sono innanzi tutto leggi dell’essere e quindi leggi del pensare. Un ente non può nello stesso tempo e sotto lo stesso rapporto essere qualcosa (cerchio) e non esserlo (quadrato) perché io penso che sia così, ma è così in realtà e dunque debbo adeguare il mio pensiero alla realtà (cfr. Aristotele, Metafisica, IV, 4, 1006 a; IV, 6, 1011 a; XI, 6, 10063 b).
Nella conoscenza ogni tanto mi trovo davanti all’evidenza dei fatti (“il treno corre”, “il cielo è azzurro”) o dei princìpi (“il tutto è maggiore della parte”, “ogni effetto ha una causa”), ossia a qualcosa che si impone irresistibilmente al mio pensiero e, per quanti sforzi io faccia, non posso sfuggire all’evidenza dei fatti e dei princìpi: per farlo dovrei negare l’evidenza e quindi contraddirmi. Per esempio, mentre scrivo debbo riconoscere inevitabilmente che sto scrivendo e non sto correndo, così debbo ammettere che 2 + 2 fa 4, che il sì è sì, il no è no e il sì non è il no.
L’imposizione dell’evidenza viene dal di fuori e non da me, è una realtà oggettiva che mi si impone necessariamente dal di fuori e che io, volente o nolente, debbo accettare sotto pena di contraddizione o di assurdità (per esempio, “il cerchio è quadrato”, “la parte è maggiore del tutto”, “il sì è il no”).
Tutto ciò porta alla conclusione che l’essere precede il conoscere e che la conoscenza umana presuppone una realtà oggettiva e l’apprende. Inoltre per il principio di non contraddizione “ciò che non è non può conoscere (agere sequitur esse) né essere conosciuto (ex nihilo nihil fit)”. Dunque non c’è l’essere perché c’è la conoscenza, ma si può conoscere perché c’è l’essere. Negare la priorità dell’essere sul conoscere significa porre come punto di partenza il nulla. “nulla è ancora e tuttavia lo si conosce e conoscendolo gli si dà l’essere”.
Don Curzio Nitoglia
(Fonte: DONCURZIONITOGLIA.net)