Nuova Pentecoste o Pentecoste interrotta?
1. QUELLA DOMANDA INSIDIOSA
Buona parte del mio tempo la trascorro tra il confessionale e gli spazi privati in cui si svolgono gli incontri di direzione spirituale, dove con frequenza sempre più crescente mi capita di sanare le ferite sanguinanti di confratelli sacerdoti, ma anche di seminaristi partiti con tutta la purezza generata delle migliori speranze cristiane, spesso disilluse, peggio, a volte tradite. [...]
Un seminarista, studente di teologia presso una pontificia università romana, mi ha rivolto una domanda interessante ma anche complessa; a dire il vero anche insidiosa. [...]
Questa la domanda rivolta: «Il periodo del post-concilio è stato celebrato come l’era della “nuova pentecoste” annunciata da Giovanni XXIII. In realtà ha visto manifestarsi una crisi come forse mai prima la Chiesa dovette affrontare. Come spiegare una così radicale devastazione e un così lungo periodo di cecità e di silenzio da parte di chi avrebbe il dovere di custodire la fede e di guidare il gregge?». Ho risposto con delle considerazioni teologico-pastorali incentrate sulla “ermeneutica della continuità” e sulla “ermeneutica della discontinuità”.
Negli anni del post Concilio presero vita due ermeneutiche contrarie, a tratti antitetiche. L’ermeneutica della discontinuità e della rottura, che ha fatto ampia breccia sui mass-media grazie alla prolifica opera di molti esponenti della teologia moderna; e l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità. L’ermeneutica della discontinuità porta a una rottura inevitabile tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare, con tutto ciò che di pericoloso ne consegue.
Credo che il Signore Gesù sia stato chiaro nell’affermare «Io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo». E spiega anche come mai fosse «utile per voi che io me ne vada; perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore. Ma, se me ne vado, io ve lo manderò». E ci rassicura: «Il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto». L’evento della Pentecoste cominciato nel cenacolo dello Spirito Santo non ha mai avuto fine e da allora fermenta in un processo di ininterrotta continuità, con buona pace dei padri della Scuola di Bologna: Giuseppe Dossetti e Giuseppe Alberigo e della cosiddetta ermeneutica della discontinuità prodotta a loro dire dal Vaticano II. Teoria sulla quale suonano — mi si passi il termine affatto insolente ma solo giocondo — flautini e controfagotti come certi nostri laici cattolici italiani, da Alberto Melloni a Enzo Bianchi, circondati da un riverente coro secolare d’atei devoti assisi dentro e fuori dal Cortile dei Gentili del Cardinale Gianfranco Ravasi; e che da troppo tempo pontificano senza possibilità d’ortodosso contraddittorio dottrinale alcuno. Presenze a tratti assolute sulle televisioni pubbliche e private, promossi dalla stampa anticattolica e dalla grande editoria italiana, incluse purtroppo stampa ed editoria cattolica, a partire da quella gestita da congregazioni religiose come la Società San Paolo, o persino dalla Conferenza Episcopale Italiana, come nel caso di Avvenire, organo ufficiale dei Vescovi d’Italia, da sempre vetrina e tribuna per svariati di questi personaggi noti per la loro discutibile dottrina.
2. QUELLA DITTATURA DISTRUTTIVA DEI MAESTRI DEL «PIÙ DIALOGO, PIÙ COLLEGIALITÀ PIÙ DEMOCRAZIA NELLA CHIESA»
Nel senso più squisitamente gramsciano del termine, flautini e controfagotti hanno da troppo tempo egemonizzato l’intera scena pubblica sul piano storico, teologico e pastorale, ponendo in atto un pericoloso processo che de facto esclude ogni voce contraria, ma soprattutto ogni voce autenticamente cattolica. Un fenomeno giunto ormai al tumore con metastasi diffuse nelle nostre chiese del Nord Europa, dove da decenni s’ha persino l’ardire di chiamare il tutto: “Più dialogo … più collegialità … più democrazia”, mentre sempre più numerose sono le chiese antiche dei grandi centri storici urbani ormai vuote da alcuni decenni e per questo messe in vendita dalle diocesi, per essere acquistate da privati o da società e dalle stesse trasformate in eleganti ristoranti o in negozi di lusso. Credo che affiggere su questi stabili lapidi alla memoria del Padre Edward Cornelis Florentius Alfonsus Schillebeeckx O.P. o del Padre Karl Rahner S.J, per celebrare e tramandare ai posteri i concreti risultati della loro evidente opera e di quella ancora peggiore dei loro “nipotini” socio-politici camuffati da teologi, più che ironia sarebbe solo pura e semplice onestà intellettuale ed ecclesiale, proprio ciò che oggi pare mancare più che mai, in basso e in alto.
3. LE PERLE: BRUNO FORTE E IL “PAPATO COLLEGIALE”, IL PORTAVOCE DELLA SALA STAMPA VATICANA ED ENZO BIANCHI CHE “REINVENTA LA CHIESA”
Di recente, poco dopo l’elezione del nuovo Romano Pontefice, S.E. Mons. Bruno Forte, responsabile della dottrina della fede della Conferenza Episcopale Italiana — di cui s’è occupato in recente passato il presbitero e teologo Brunero Gherardini, senza che ciò producesse i frutti da pochi o da molti sperati — è tornato a deliziarci coniando un nuovo istituto ecclesiale in un’intervista rilasciata nel marzo 2013 a uno Speciale di Rai Uno: il «Papato collegiale». Nei giorni successivi, a noi presbiteri che viviamo a contatto con le membra vive del Popolo di Dio, non è stato facile rispondere a quanti hanno domandato spiegazioni a tal riguardo. Ciò non tanto per la perla ecclesiologica in sé, ma per l’autorevole bocca che via etere l’ha fatta giungere alle orecchie di milioni di telespettatori.
Simile modo mi piacerebbe sorvolare — ma per cattolica onestà pastorale e teologica non lo posso fare — sul pubblico discorso fatto dal portavoce ufficiale della Sala Stampa Vaticana in occasione del 70° genetliaco del “priore” di Bose, ossia quella deliziosa persona di Enzo Bianchi che «ci aiuta a reinventare la Chiesa». Un termine, quello di «reinventare la Chiesa» o di «reinventare la fede», olezzante vecchia naftalina anni Settanta, tra fumosi comitati di base dove si giocava a fare sul serio quando si discuteva su “la sintesi dialettica dell’alternanza ideologica” e nei quali l’effige di nostro Signore Gesù Cristo veniva rischiosamente confusa con quella di Ernesto Guevara, noto come el Che. E se nel 2013, al riverbero delle candeline poste sulla torta di compleanno di un settantenne, presente come illustre relatore anche il portavoce ufficiale di Sua Santità, ci si trastulla ancora su questo «reinventare», francamente non ci resta che implorare: miserere nostri, Domine, miserere nostri. In te, Domine, speravi: non confundar in aeternum. E infine confidare: quoniam in aeternum misericordia eius.
4. NON SI GIOCA CON LE PAROLE: L’EVENTO DELLA PENTECOSTE È NEGAZIONE DELLA ERMENEUTICA DELLA ROTTURA
L’evento storico e reale della Pentecoste è la negazione cristologica e pneumatologica dell’ermeneutica della rottura, per non parlare di certe ricostruzioni che nascono dopo devastanti decostruzioni sulle ceneri delle quali si cerca poi di reinventare la Chiesa di Cristo. Nell’esperienza cristologica noi siamo chiamati a scoprire e accogliere il Verbo Incarnato e a viverlo in unione di mutua trasformazione, non certo a porlo sul tavolo delle autopsie esegetiche per smembrarlo e per poi ricucirlo a nostro modernistico piacimento, prendendo del corpo di Cristo ciò che ci piace e nel modo in cui ci piace. O per meglio dire: «Si è affermato un cattolicesimo à la carte, in cui ciascuno sceglie la porzione che preferisce e respinge il piatto che ritiene indigesto».
L’invito a essere «perfetti nell’unità» implica come suffisso l’armonica continuità, affinché «il mondo creda che tu mi ha mandato». Affermazioni, quelle giovannee, che delineano un inizio e una continuità incessante, sino alla parusia. Dalla Pentecoste nasce e prende avvio la storia della Chiesa e cominciano gli “Atti degli apostoli. La Chiesa è dunque frutto vivo di un inizio che non ha mai avuto fine e da sempre è missionaria e pellegrina sulla terra. Forse, con l’espressione «nuova Pentecoste», s’intendeva riferirsi in modo più accattivante che teologico, o forse meglio poetico-mediatico, non tanto a una nuova discesa dello Spirito Santo sul Cenacolo, quanto all’opera incessante sulla Chiesa del Donum Dei altissimi che Gesù ci ha promesso sino alla fine dei tempi. Perché se la Chiesa non fosse di fatto governata dallo Spirito Santo di Dio, al presente noi non saremo qua; saremo solo oggetto di studi antropologici, alla stessa stregua in cui oggi sono studiate le antiche ed estinte credenze religiose di egizi, etruschi, greci…
La teologia ha però un proprio linguaggio, diretto e preciso, basti pensare al problema teologico della Persona di Gesù che scuote i primi otto secoli di storia della Chiesa, tra eresie e problemi semantici a non finire tra Oriente e Occidente. E oggi, mentre ci avviamo sul finire di questo anno 2013, la mancanza di chiarezza e le affermazioni ambigue sembrano spesso farla da padrone in seno alla Chiesa, con uno smarrimento da parte dei fedeli cattolici che non s’era mai visto prima, tanto quanto mai, prima d’oggi, s’erano viste orde di anti-cattolici militanti e di atei devoti celebrare la liquida simpatia mediatica della persona umana in sé e fine a sé, anziché il solido ministero petrino edificato su una roccia che per mistero di grazia non dovrebbe mai essere scissa dalla persona che la incarna, posto che il Principe degli Apostoli cessa di essere Simone per diventare Pietro, la pietra sulla quale il Cristo ha edificato la sua Chiesa.
Oggi, in che misura al pescatore Simone è chiaro di essere l’universale pastore Pietro e in che misura all’universale pastore Pietro è chiaro che non può proseguire a essere il pescatore Simone perso per le periferie esistenziali dei villaggi dei pescatori della Giudea?
La buona e sana teologia e per logica conseguenza il migliore e sano ministero pastorale, non contempla espressioni estemporanee o cosiddette comunicazioni “a braccio”, stile “mozioni” da carismatici-animisti o “risonanze” da neocatecumenali-pentecostali, ma parole chiare e precise, non circonlocuzioni che possono voler dire tutto ma volendo anche l’esatto contrario, secondo la logica delle “parole nuove” rivelatasi nel corso dell’ultimo mezzo secolo tragicamente fallimentare.
A tal proposito è sufficiente ricordare che il mistero di quel «Verbo che si fece carne» che «era in principio ed era presso Dio», era a tal punto grande che non esistevano neppure parole sul vocabolario per poterlo definire. Per questo abbiamo dovuto creare anzitutto le parole, prese perlopiù a prestito e modulate dal pensiero filosofico greco, basti pensare al concetto di ipostasi che indica la natura umana e la natura divina del Verbo fatto carne che abitano la stessa persona. Siamo di fronte a un’architettura teologica, a un impianto di ingegneria costruito al millimetro nel corso dei secoli. E, proprio da questo, nascono certi problemi: taluni filoni dell’ultimo concilio hanno insinuato diverse ambiguità nell’assisa, poi esplose in modo virulento nel post concilio, fino a creare l’idea di per sé ecclesialmente aberrante di ermeneutica della discontinuità, sfociata infine — e ciò con tutte le più drammatiche ed evidenti conseguenze — nella vera e propria dittatura del relativismo di coloro che per alcuni decenni hanno giocato con “parole nuove”. E oggi, da una cattedra teologica all’altra, alcuni insegnano come superdogmatica “verità” di “fede” che il Concilio avrebbe rotto con la precedente tradizione. Quel che poi è peggio e che costoro parlino della “precedente” Chiesa come se, in tutto e per tutto, fosse veramente un’altra Chiesa …
5. LE ERESIE PEGGIORI COMINCIANO SEMPRE GIOCANDO SULLE PAROLE
[...] E il parlare ambiguo, oltre ad essere un non-parlare-teologico, sortisce sempre l’effetto di un parlare pericoloso, tanto più grave quanto più autorevoli sono le labbra dalle quali le ambiguità fuoriescono. Facciamo un chiaro esempio a tal proposito: eliminare dal lessico eucaristico la parola transubstantiatione e sostituirla col termine più socio-accattivante di transignificazione e transfinalizzazione, come insegnano certi pericolosi e mediocri nipotini della Nouvelle Théologie alla Pontificia Università Gregoriana o presso quel covo di filo-protestanti che tale notoriamente è il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, non è un semplice svecchiamento della metafisica tomista, ma qualche cosa che porta alla inevitabile allegorizzazione, all’Eucaristia come mero simbolo, non più al divino mistero della presenza reale del Cristo vivo e vero.
Chi pretende di oltrepassare la metafisica deve farlo producendo un altro pensiero che sia di rigore superiore. San Tommaso d’Aquino può essere anche superato, volendo pure sostituito, in fondo è solo un santo dottore della Chiesa, non è certo la parola incarnata di Dio, oltre a non essere esente, come tutti i mortali, da svariate imperfezioni. Dubito però che questo superamento e questa sostituzione possano avvenire attraverso l’equivoca filosofia religiosa dell’Aquinate dei gesuiti degli anni Sessanta, Karl Rahner, che pretende di oltrepassare la metafisica classica rischiando nella maggior parte dei casi di riassumerne, a volte senza averne alcuna coscienza e profonda preparazione, la confusa caratteristica di fondo, tendente com’è ad articolare certe sue speculazioni muovendo dalla neo scolastica decadente con l’uso del metro di Francisco Suarez, che partendo dall’aristotelismo scolastico tomista elaborò dottrine teologiche e filosofiche per così dire originali. Di fatto Karl Rahner, geniale, lo è senza dubbio, sicuro! È il genio della tuttologia-confuso-teologico-filosofica-sociologica, che come tale spazia dalla dogmatica alla patrologia alla ecclesiologia alla scolastica, senza conoscere bene e a fondo le une e le altre, riducendo tutto a una socio-filosofia religiosa che alcuni si ostinano tutt’oggi a chiamare: scuola teologica rahneriana. È mezzo secolo che nelle nostre bocche spesso ricolme d’aria rimestiamo il concetto di “parole nuove”, dimenticando sempre più e sempre con maggiore pericolosità quella Parola viva, eterna e senza tempo che nasce dal mistero del Verbo Incarnato. È Dio ch’è parola vivente, ed è solo Dio che può dare un «cuore nuovo» a noi, non siamo certo noi che possiamo dare un cuore nuovo a Dio con certe nostre frivole “parole nuove”.
[...] La Chiesa non nasce dalla pastoralità del Vaticano II, meno che mai dal post concilio dei teologi interpreti che hanno mutato le proprie elucubrazioni in un vero e proprio super dogma sfociato oggi in vera e propria dittatura. Dichiarare la rottura e la discontinuità con la precedente tradizione vuol dire mutare la Chiesa in altro e rompere l’unione con la continuità ininterrotta del Cenacolo. Come se d’improvviso lo Spirito Santo discendesse nella sua Chiesa per la prima volta attorno alla metà del XX secolo, pel sommo gaudio di tutti gli alti notabili della Nouvelle Théologie, o della New Theology, della Teologia della Liberazione, della Teologia Sincretista, infine della Teologia Indigenista che ha mutato la “precedente Chiesa” in una via di mezzo tra una serva al soldo dei colonizzatori e una pericolosa nemica.
6 LA TRADIZIONE SONO I PILONI CHE REGGONO L’ANTICO PONTE CHE UNISCE L’UMANO E IL DIVINO, IL DIVINO E L’UMANO. I VESCOVI CHE HANNO PARTECIPATO AL SINODO, SI RICONOSCONO NEL DOCUMENTO FINALE DELLA EVANGELII GAUDIUM?
La “radicale devastazione” che oggi abbiamo sotto gli occhi nasce dal fatto che invece di “rinnovare” la Chiesa nel rispetto e nel rafforzamento della tradizione e del dogma, molti sono andati a intaccarne i delicati equilibri che hanno preso vita e che si sono poi solidificati a partire dalla prima epoca apostolica, rafforzandosi attraverso i grandi concili dogmatici e l’opera dei grandi padri della Chiesa. Con la stagione del post concilio si è aperta la grande crisi del dogma, ed alle verità divine ed eterne hanno finito col sostituirsi le dogmatizzazioni dei pensieri umani, perché quando l’uomo non crede più alle verità fondamentali, finisce per credere in tutto, lanciandosi allo sbaraglio attraverso parole ambigue nascoste dietro alle immancabili “parole nuove” dei peggiori arruffapopoli: i falsi profeti.
La tradizione sono i piloni che reggono l’antico ponte che unisce l’umano e il divino, il divino e l’umano. All’epoca che quel ponte fu costruito, appresso ampliato e rafforzato nel tempo, non esistevano le automobili, si viaggiava a piedi o coi cavalli. È chiaro che a un certo punto l’antico ponte doveva essere reso idoneo anche per il transito delle automobili. Purtroppo però, alcuni “teologi ragazzini”, quelli che discutevano nei bar e nelle osterie di Roma coi giornalisti sulle strategie da portare nell’assemblea conciliare, sono andati a intaccare proprio i piloni. E oggi ci ritroviamo con un ponte pericolante e inagibile, grazie ai vari Giuseppe Ruggieri e ai vari Andrea Grillo lasciati incoscientemente dai nostri vescovi a insegnare negli studi teologici, per avvelenare alla radice le menti dei nostri futuri sacerdoti preposti poi a confondere e scandalizzare il Popolo di Dio nella dottrina della fede e nella sacra liturgia, giudicando impietosamente e aggressivamente coloro che si dichiarano scandalizzati dalle loro parole, dei “cattolici infantili” e “immaturi” non divenuti ancora dei veri “cristiani adulti” sotto il vento della nuova Pentecoste grazie alla quale nel XX secolo è nata finalmente la Chiesa, dopo che per XIX secoli abbiamo solo scherzato.
Non so che cosa intenda fare chi per alto e ineffabile ministero è chiamato a custodire la fede e a guidare il gregge, ciò che so è che egli è il ponte, anzi secondo l’etimo di pontem facere, un costruttore di ponti. Il termine di pontefice prende vita nella prima epoca romana dall’antico Pons Sublicius. Così era infatti chiamato il gran sacerdote dell’antica religio, pontifex maximus, che assiso su quel ponte vigilava sui movimenti delle acque e sul volo degli uccelli, oltre a compiere vari altri riti. Oggi, il nostro Sommo Pontefice, rischia di ritrovarsi coi cieli sovrastanti il ponte coperti da stormi d’avvoltoi, ai quali speriamo di tutto cuore che non funga da involontario e inconsapevole richiamo. A maggior ragione confidiamo in lui per vedere di nuovo le rondini volare nei cieli e riportare la primavera di sempre, quella del cenacolo degli apostoli. La sola e vera primavera nata dallo Spirito Santo di Dio, cominciata in quel cenacolo apostolico e da allora mai tramontata, malgrado l’impegno, forte e incessante nei secoli di molti uomini, di far calare il sipario delle tenebre, ora attraverso “parole nuove” pronunciate sul cadavere disteso sopra al lettino delle autopsie dell’anatomopatologo, ora con la “ermeneutica della discontinuità” … Per questo ritengo ragionevole affermare che dal cenacolo dello Spirito Santo sino alla parusia non è possibile giungere al «Suo regno che non avrà fine» attraverso la discontinuità e le ambigue “parole nuove”, specie quelle dei falsi profeti che “reinventano la Chiesa”, ma solo attraverso quella continuità perfetta e di quelle parole precise di cui l’uomo, per quanto fallibile e imperfetto, è chiamato a essere fedele strumento, perché tempio privilegiato dell’azione di grazia di Dio sin dall’alba dei tempi.
Questo il motivo per il quale, letta l’esortazione post sinodale Evangelii Gaudium mi sono rinchiuso nel silenzio, consapevole di quanto in certi momenti, l’efficacia della preghiera cristiana che nasce dalla vera fede, giovi molto più alla Chiesa di quanto non le giovi invece il prendere la rincorsa per andare a battere la testa sopra a un muro di gomma, mossi da una disperazione tutta quanta umana e forse anche poco cristiana.
La risposta a questo documento non posso certo darla io che sono l’ultimo presbitero dell’orbe cattolica, dovrebbero darla però i vescovi, in particolare coloro che a quel sinodo hanno partecipato, rispondendo a quesito semplice e ovvio: si riconoscono, in modo libero e collegiale, nella liquida mancanza di chiarezza delle parole a tratti ambigue che caratterizzano quel documento conclusivo che pare ora dire tutto e poco dopo forse il suo esatto contrario?
Con dolore e smarrimento posso solo dire che quel documento sembra un assurdo: non si sa a chi parla né che cosa vuole. Non è né teologia né omiletica ma retorica con non poche punte di ambiguità. Non si dice “si” e non si dice “no”, si dice che forse potrebbe essere un po’ no e forse un po’ si. Sembra tutto quanto dettato da quei teologi progressisti ormai al potere che mirano a “reinventare la Chiesa” con le loro rovinose “parole nuove”.
E che lo Spirito Santo di Dio assista la sua Chiesa e assista tutti noi suoi servi fedeli e devoti.
Don Ariel S. Levi di Gualdo (CONCILIOVATICANOSECONDO.it)