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Anche io li conosco

Bisogna riconoscerlo, a volte sono utili anche gli articoli di Massimo Introvigne. Per quello che vale, questa testimonianza sui Francescani dell’Immacolata non sarebbe stata scritta senza l’implicito invito contenuto in una delle encicliche che l’avvocato sociologo pubblica quasi quotidianamente sulla “Nuova Bussola”. Pochi giorni fa, a proposito del commissariamento dell’istituto fondato da padre Stefano Manelli, Introvigne si è lasciato sfuggire la maldestra insinuazione che le vere cause di quanto avvenuto le conoscerebbero solo lui e qualche altro iniziato alle segrete carte.

Tutti, o quasi, gli altri commentatori della vicenda avrebbero scritto a capocchia, senza sapere di che cosa si sta parlando, senza essere illuminati come lui. «Conosco anche i loro problemi» ha scritto dei Francescani dopo la solita lisciata di pelo che precede la coltellata «non sono certo che si possa dire lo stesso per tutti coloro che hanno commentato l’ultima vicenda». Per corroborare tanto zelo per la verità e la correttezza dell’informazione, per dare una mano nel mettere al loro posto tutti quei signori che osano scrivere a capocchia senza sapere ciò che Introvigne invece sa, vorrei rendere una testimonianza e raccontare qualche cosa su questi frati e dunque anche sulle suore che fanno parte della famiglia.

Niente di eclatante, si tratta di semplici fatti ai quali, però, si possono solo opporre altri fatti e non un sibillino “lasciate parlare me che conosco le segrete carte”. Scrivo una volta tanto in prima persona, senza l’ausilio di Mario Palmaro, che comunque, come usa dire oggi, ci legge in copia, perché le testimonianze vanno rese e verbalizzate singolarmente. Questa breve racconto inizia dal passato recentissimo. Domenica 4 agosto, mia figlia, che ha diciotto anni e si chiama Chiara, è tornata da un mese trascorso come missionaria in Nigeria con le suore francescane dell’Immacolata.

La missione nigeriana, come dovrebbero sapere tutti coloro che parlano di questo istituto e come Introvigne certamente sa, è a rischio di martirio quotidiano. Lì, ci sono figli e figlie di padre Manelli che ogni giorno rischiano la vita in nome di Gesù Cristo e, proprio per questo, prospera una delle imprese spirituali più fiorenti dell’istituto: quaranta aspiranti maschi e trenta aspiranti femmine in un Paese a maggioranza musulmana, dove le sette protestanti fanno di tutto per distruggere quanto costruiscono i cattolici, dove imperversano le chiese più impensate, dove i pagani che consumano i loro sacrifici umani poco lontano dai conventi lasciano i resti delle vittime per le strade in onore dei loro demoni, dove nelle giornate dei riti cannibali le donne non possono uscire di casa pena la morte. Nel mondo di “Apocalypto” prima dell’arrivo degli spagnoli.

Le suore non possono mai uscire da sole e, in certe occasioni, rischiano la vita solo a mostrarsi. Eppure, come i frati, continuano a portare Cristo là dove non c’è e a chi non lo conosce. Assieme ai frati, procurano battesimi, l’amministrazione dei sacramenti, la celebrazione di Messe, strappano letteralmente anime e corpi al demonio. Dopo ogni conversione tornano quotidianamente dai nuovi cristiani per evitare che la loro fede si intorpidisca e cada di nuovo preda delle false religioni e, quindi, della disperazione. Appena scesa dall’aereo, alla sua prima ora di missione, Chiara è stata portata al lebbrosario per pregare in ginocchio il Rosario davanti al letto di una malata che stava morendo, perché le anime vanno custodite fino in fondo e non basta riempire le pance.

La preghiera è stato il filo d’oro che ha segnato il cammino di mia figlia per tutto il mese: lo stesso che segna da anni la vita della missione perché è quello che segna la vita delle suore e dei frati francescani dell’Immacolata. Dopo, solo dopo, viene l’assistenza materiale, lì, nel mondo di “Apocalypto” dove, nonostante tutto, le suore e i frati vestiti di azzurro sono altrettante note di letizia. «Di notte» mi ha raccontato Chiara «mi veniva da piangere per ciò che vedevo di giorno. Avevo visto l’inferno mentre io mi sentivo in paradiso. Non è la povertà e non è la miseria a far piangere, ma la disperazione di un mondo senza Cristo. Di giorno sentivo le voci dei muezzin, di notte i tam tam dei riti pagani e ho toccato con mano che il demonio esiste davvero, ho provato sulla mia pelle che la religione vera è una sola ed è la nostra. Lo scudo più potente contro la presenza del demonio era il canto gregoriano dei frati e delle suore, il Rosario recitato continuamente, le veglie e le Messe celebrate come piace al Signore».

«Chiara, se vogliamo che la nostra missione diventi ancora più fiorente» ha detto una suora a mia figlia poco prima che partisse «bisogna che qualcuna di noi muoia e offra la sua vita perché non c’è niente di più fecondo del sangue offerto per Gesù. I frati sono già morti, ora tocca a noi». Sono poveri, piccoli fatti, piccoli frutti sperduti nell’Africa profonda che però mostrano di che pasta siano le radici dell’albero piantato nel saldo terreno della fede cattolica da padre Manelli nel 1970.

L’impronta in quelle suore e in quei frati che accettano il martirio per far fiorire la vita cristiana è la sua. Da anni, quest’uomo vive nella sofferenza come il suo padre spirituale San Pio da Pietrelcina. Qualche tempo fa, quando i medici non sapevano che cosa fare per guarirlo dal male che lo tormentava, un sacerdote che lo conosce bene mi disse «I dottori stanno tentando di tutto, ma non riescono a far niente perché non capiscono che quest’uomo sta offrendo le sue sofferenze per il bene della Chiesa. Ha scelto di portare sul suo corpo le piaghe del Corpo Mistico». Non serve teologizzare troppo. Basta stare cinque minuti davanti a padre Stefano per capire quanto la sofferenza gli sia intima, quanto la desideri pur temendola, e quanto ne offra i benefici e le benedizioni che ne discendono.

Due anni fa l’ho incontrato al santuario dello Zuccarello di Nembro, vicino a Bergamo, per la Messa in ricordo di sua mamma. Era seduto in sacrestia, piegato sulla sedia, in difficoltà anche solo a dar retta a chi lo salutava. «Come sta padre Stefano?». Ha allargato le braccio per quanto poteva e ha sussurrato «Si sta così, sulla croce». Con Mario Palmaro avevo appena scritto un libro su padre Pio, ma solo davanti a quel suo figlio spirituale ho finalmente provato un briciolo di vera compassione per la sofferenza che avevo descritto indegnamente con le parole.

Tre mesi fa l’ho rivisto, poco prima che scoppiasse la bomba del commissariamento. Era inquieto, ma più per le sorti della Chiesa che per quelle della sua fondazione. «Ormai, ci può salvare solo il trionfo del Cuore Immacolato di Maria. Siamo nel tempo che padre Pio diceva delle “quattro T”: tutte tenebre». «E che cosa possiamo fare, padre?». «Bisogna prepararsi, pregare e continuare la battaglia. E poi» ha aggiunto con il suo sorriso un po’ da vecchio e un po’ da bambino «ci sono le “quattro T” della luce: tutti Francescani dell’Immacolata».

Eravamo a Sassoferrato, nel seminario dell’ordine. Una costruzione enorme svuotata di vocazioni dai frati minori conventuali e riempita dai francescani dell’Immacolata. Un edificio in questi frati che salutano chiunque con lo splendido «Ave Maria» vivono fianco a fianco con madonna povertá. Nelle loro case, la povertà è quella vera, non è quella esibita all’obiettivo del fotografo e neanche quella predicata agli altri. È praticata in proprio e, letteralmente, la si respira appena si varca la soglia di un qualsiasi loro convento. Non nelle chiese, perché lì deve essere tutto il più splendido possibile per il Signore, come voleva il padre Francesco. Ma nelle loro case può abitarci solo chi decide e accetta di essere veramente povero.

La rinuncia a tutto, ma proprio tutto, quanto il mondo può offrire di appena confortevole, attanaglia alla gola: ti soffoca o ti santifica. «Se avessi voluto curarmi le unghie e avere l’acqua calda tutti i giorni» ha spiegato una suora di ventidue anni a mia moglie «sarei stata a casa mia». Mia figlia Chiara, in un mese di missione non si è mai guardata allo specchio, ne aveva solo uno piccolissimo per controllare se si era presa le pulci. L’unico specchio consentito alle suore francescane dell’Immacolata è il quadro della Madonna. Chi cerca l’oleografia e il pittoresco e pensa ai conventi del turismo spirituale che va di moda oggi, eviti con cura le case e i conventi dei francescani dell’Immacolata. Scambierebbe per incuria e abbandono la santa indifferenza che questi frati e queste suore nutrono per le cose del mondo.

Non capirebbe come uomini e donne del ventunesimo secolo possano vivere in mezzo a quello che un qualsiasi cristiano perbene chiamerebbe squallore. Perché è questa la cifra degli ambienti in cui i francescani dell’Immacolata vivono, pregano e si santificano. Dopo aver guardato la luce che brilla negli occhi di uno di questi frati o di una di queste suore, guardate i piedi e osservate come sono ridotti. Se gli occhi sono quelli chi scorge il Paradiso, i piedi sono quelli di chi sta piantato nella miseria del mondo e l’abbraccia. A me è capitato qualche tempo fa con padre Alessandro Apollonio, il braccio destro di padre Stefano. Dopo un’ora trascorsa a passeggiare sull’asfalto discutendo di massimi sistemi, mi è caduto l’occhio sulle unghie dei suoi piedi, completamente coperte dagli ematomi dovuti al gelo sopportato d’inverno. Allora ho guardato le mie scarpe e mi sono un pò vergognato. Ma, soprattutto, ho avuto compassione del mio sguardo, che non ha certo la letizia di quello di padre Alessandro.

Sono solo dei piccoli fatti, cose da niente che però, a chi abbia buoni occhi e occhi buoni, dicono ben più di tanti trattati di sociologia. E pure più di tante visite apostoliche condotte per posta elettronica inviando questionari da riempire e ricevere stando nel proprio ufficio invece che andare sul posto di persona. Se il visitatore che ha dato il via libera al commissariamento, come dice il nome del suo ufficio, avesse visitato le case dei francescani invece che affidarsi alle formidabili meraviglie informatiche, forse si sarebbe reso conto che il rancore di certi frati contro il loro fondatore non regge l’amore filiale che circonda la figura di padre Stefano. «Tieni, finisci tu il caffè» ha detto il padre al giovane frate che ci aveva portato qualcosa da bere quando l’ho incontrato due mesi fa. E, come faceva mio padre con me quando ero bambino, come facevo io con i miei figli quando erano piccoli e come mi piacerebbe fare ancora adesso che la più piccina va in missione in Nigeria, gli ha passato la tazzina dalla quale aveva bevuto lui.

Cosa dire d’altro? Che poi, quel giorno, padre Stefano si è alzato e se ne è andato verso la sua cella tenendo in mano tutti i libri che gli avevo portato in regalo. Non lo avevo mai visto così grande, così imponente. Forse sapeva già che sarebbe venuto il momento della prova.

 

Alessandro Gnocchi