Excursus sul Vaticano II e le sue conseguenze
Ho letto con molto interesse il saggio di S.E. Athanasius Schneider pubblicato su LifeSiteNews lo scorso 1° giugno, tradotto poi da Chiesa e post concilio, dal titolo Non vi è volontà divina positiva né diritto naturale per la diversità delle religioni. Lo studio di Sua Eccellenza compendia, con la chiarezza che contraddistingue le parole di chi parla secondo Cristo, le obiezioni sulla presunta legittimità all’esercizio della libertà religiosa che il Concilio Vaticano II ha teorizzato contraddicendo la testimonianza della Sacra Scrittura, la voce della Tradizione e il Magistero cattolico che di entrambe è fedele custode.
Il merito di questo saggio risiede anzitutto nell’aver saputo cogliere il legame causale tra i principi enunciati o implicati dal Vaticano II e il loro conseguente e logico effetto nelle deviazioni dottrinali, morali, liturgiche e disciplinari sorte e progressivamente sviluppatesi fino ad oggi. Il monstrum generato nei circoli dei modernisti poteva all’inizio trarre in inganno, ma crescendo e rafforzandosi, oggi si mostra per quel che veramente è, nella sua indole eversiva e ribelle. La creatura, allora concepita, è sempre la medesima e sarebbe ingenuo pensare che la sua natura perversa potesse mutare. I tentativi di correzione degli eccessi conciliari – invocando l’ermeneutica della continuità – si sono rivelati fallimentari: Naturam expellas furca, tamen usque recurret (Orazio Epist. I,10,24). La Dichiarazione di Abu Dhabi e, come mons. Schneider giustamente osserva, i suoi prodromi del pantheon di Assisi, “è stata concepita nello spirito del Concilio Vaticano II” come conferma fieramente Bergoglio.
Questo “spirito del Concilio” è la patente di legittimità che i novatori oppongono ai critici, senza accorgersi che è proprio confessando quell’eredità che si conferma non solo l’erroneità delle dichiarazioni attuali, ma anche la matrice ereticale che dovrebbe giustificarli. A ben vedere, mai nella vita della Chiesa si è avuto un Concilio che rappresentasse un tale evento storico da renderlo diverso rispetto agli altri: non si è mai dato uno “spirito del Concilio di Nicea”, né lo “spirito del Concilio di Ferrara-Firenze”, e men che meno lo “spirito del Concilio di Trento”, così come non abbiamo mai avuto un “postconcilio” dopo il Lateranense IV o il Vaticano I.
Il motivo è evidente: quei Concili erano tutti, indistintamente, l’espressione della voce unisona di Santa Madre Chiesa, e per ciò stesso di Nostro Signore Gesù Cristo. Significativamente quanti sostengono la novità del Vaticano II aderiscono anche alla dottrina ereticale che vede contrapposto il Dio dell’Antico Testamento al Dio del Nuovo, quasi si potesse dare una contraddizione tra le Divine Persone della Santissima Trinità. Evidentemente questa contrapposizione quasi gnostica o cabalistica è funzionale alla legittimazione di un nuovo soggetto volutamente diverso e opposto rispetto alla Chiesa cattolica. Gli errori dottrinali quasi sempre tradiscono anche un’eresia trinitaria, ed è quindi ritornando alla proclamazione del dogma trinitario che si potranno sbaragliare le dottrine che vi si oppongono: ut in confessione veræ sempiternæque deitatis, et in Personis proprietas, et in essentia unitas, et in majestate adoretur æqualitas. Professando la vera e sempiterna divinità, adoriamo la proprietà delle divine Persone, l’unità nella loro essenza, l’uguaglianza nella loro maestà.
Mons. Schneider cita alcuni canoni dei Concili ecumenici che propongono, a Suo dire, dottrine oggi difficilmente accettabili, come ad esempio l’obbligo di riconoscimento dei Giudei nel vestiario, o il divieto per i Cristiani si esser servi di padroni maomettani o ebrei. Tra questi esempi vi è anche la necessità della traditio instrumentorum dichiarata dal Concilio di Firenze, poi corretta dalla costituzione apostolica Sacramentum Ordinis di Pio XII. Il vescovo Athanasius commenta: “Si può legittimamente sperare e credere che un futuro papa o concilio ecumenico corregga le affermazioni erronee pronunciate” dal Vaticano II. Questo mi pare un argomento che, pur con le migliori intenzioni, mina dalle fondamenta l’edificio cattolico. Se infatti ammettiamo che vi possano essere atti magisteriali che, per una mutata sensibilità, siano col passare del tempo suscettibili di abrogazione, di modifica o di differente interpretazione, cadiamo inesorabilmente sotto la condanna del Decreto Lamentabili, e finiamo per dar ragione a chi, recentemente, proprio sulla base di quell’erroneo assunto ha dichiarato “non conforme al Vangelo” la pena capitale, giungendo ad emendare il Catechismo della Chiesa cattolica. E in un certo modo potremmo, per lo stesso principio, ritenere che le parole del Beato Pio IX nella Quanta cura siano state in qualche maniera corrette proprio dal Vaticano II, così come Sua Eccellenza auspica possa avvenire per Dignitatis humanæ. Degli esempi da lui portati, nessuno è in sé gravemente erroneo né eretico: aver dichiarato necessaria la traditio instrumentorum per la validità dell’Ordine non ha in alcun modo compromesso il ministero sacerdotale nella Chiesa, portandola a conferire invalidamente gli Ordini. Né mi pare si possa affermare che questo aspetto, per quanto importante, abbia insinuato dottrine erronee nei fedeli, cosa che invece è avvenuta solo con l’ultimo Concilio. E quando nel corso della Storia si sono diffuse eresie, la Chiesa è sempre intervenuta prontamente a condannarle, com’è avvenuto al tempo del Conciliabolo di Pistoia del 1786, che del Vaticano II fu in qualche modo anticipatore specialmente dove esso abolì la Comunione fuori dalla Messa, introdusse la lingua vernacolare e abolì le preghiere submissa voce del Canone; ma ancor più quando esso teorizzò le basi della collegialità episcopale, confinando il primato del Pontefice a mera funzione ministeriale. Rileggere gli atti di quel Sinodo lascia stupiti per la formulazione pedissequa degli errori che ritroveremo poi, addirittura accresciuti, nel Concilio presieduto da Giovanni XXIII e Paolo VI. D’altra parte, come la Verità attinge da Dio, così l’errore si nutre ed alimenta nell’Avversario, che ha in odio la Chiesa di Cristo e il suo cuore, la Santa Messa e la Santissima Eucaristia.
Giunge un momento nella nostra vita in cui, per disposizione della Provvidenza, ci è posta dinanzi una scelta determinante per il futuro della Chiesa e per la nostra salvezza eterna. Parlo della scelta tra il comprendere l’errore in cui siamo caduti praticamente tutti, e quasi sempre senza cattive intenzioni, e il voler continuare a volgere altrove lo sguardo o giustificarci.
Abbiamo, tra gli altri errori, commesso anche quello di considerare i nostri interlocutori come persone che, pur nella diversità delle idee e della fede, fossero comunque animate da buone intenzioni, e che qualora riuscissero ad aprirsi alla nostra Fede, sarebbero stati disposti a correggere i loro errori. Insieme a numerosi Padri conciliari, abbiamo pensato l’ecumenismo come un processo, un invito che chiama all’unica Chiesa di Cristo i dissidenti; all’unico vero Dio gli idolatri e i pagani; al promesso Messia il popolo ebraico. Ma, ad iniziare dal momento in cui è stato teorizzato nelle Commissioni conciliari, esso è venuto configurandosi in netta opposizione alla dottrina sino ad allora espressa nel Magistero.
Abbiamo pensato che certi eccessi fossero solo un’esagerazione di chi si era lasciato prendere dall’entusiasmo della novità; abbiamo sinceramente creduto che vedere Giovanni Paolo II attorniato da santoni, bonzi, imam, rabbini, pastori protestanti e altri eretici desse prova della capacità della Chiesa di chiamare a raccolta i popoli per invocare a Dio la pace, mentre l’esempio autorevole di quel gesto diede l’inizio ad una sequela deviante di pantheon più o meno ufficiali, giunti addirittura a veder portato a spalle da alcuni Vescovi l’idolo immondo della pachamama, dissimulato sacrilegamente sotto la presunta apparenza di una sacra maternità. Ma se il simulacro di una divinità infernale è potuto entrare in San Pietro, ciò fa parte di un crescendo che lo spartito prevedeva sin dall’inizio. Numerosissimi cattolici praticanti, e forse anche gran parte degli stessi chierici, è oggi convinta che la fede cattolica non sia più necessaria per la salvezza eterna; si crede che il Dio Uno e Trino rivelatosi ai nostri padri sia lo stesso dio di Maometto. Lo si sentiva ripetere dai pulpiti e dalle cattedre vescovili già vent’anni fa, ma recentemente lo si sente affermare con enfasi anche dal più alto Soglio.
Sappiamo bene che, forti dell’adagio evangelico Littera enim occidit, spiritus autem vivificat, i progressisti e i modernisti hanno saputo astutamente nascondere nei testi conciliari quelle espressioni di equivocità, che all’epoca parevano innocue ai più ma che oggi si manifestano nella loro valenza eversiva. È il metodo del subsistit in: dire una mezza verità non tanto per non offendere l’interlocutore (ammesso che sia lecito tacere la verità di Dio per riguardo verso una Sua creatura), ma con lo scopo di poter usare il mezzo errore che la verità intera avrebbe dissipato istantaneamente. Così “Ecclesia Christi subsistit in Ecclesia Catholica” non specifica l’identità delle due, ma il sussistere dell’una nell’altra e, per coerenza, anche in altre chiese: ecco aperto il varco alle celebrazioni interconfessionali, alle preghiere ecumeniche, alla fine inesorabile della necessità della Chiesa in ordine alla salvezza, della sua unicità, della sua missionarietà.
Alcuni ricorderanno forse i primi incontri ecumenici si tenevano con gli scismatici d’Oriente, e molto prudentemente con alcune sette protestanti. A parte la Germania, l’Olanda e la Svizzera, i paesi di tradizione cattolica non avevano fin dall’inizio accolto le celebrazioni miste, con pastori e parroci insieme. Ricordo che all’epoca si discuteva di togliere la penultima dossologia del Veni Creator per non urtare gli Ortodossi, che non accettano il Filioque. Oggi sentiamo recitare le sure del Corano dai pulpiti delle nostre chiese, vediamo adorare da suore e frati un idolo di legno, sentiamo Vescovi sconfessare quelle che sino a ieri ci sembravano le scusanti più plausibili di tanti estremismi. Quello che il mondo vuole, su istigazione della massoneria e dei suoi infernali tentacoli, è creare una religione universale, umanitaria ed ecumenica, in cui sia bandito quel Dio geloso che noi adoriamo. E se questo è ciò che vuole il mondo, qualsiasi passo nella medesima direzione da parte della Chiesa è una scelta sciagurata, che si ritorcerà contro chi crede di poter prendersi gioco di Dio. Le speranze della Torre di Babele non possono essere riportate in vita da un piano mondialista che ha come scopo la cancellazione della Chiesa cattolica, per sostituirvi una confederazione di idolatri ed eretici accomunati dall’ambientalismo e dalla fratellanza umana. Non ci può essere nessuna fratellanza se non in Cristo, e solo in Cristo: qui non est mecum, contra me est.
Sconcerta che di questa corsa verso l’abisso siano consapevoli in pochi, e che pochi si rendano conto di quale sia la responsabilità dei vertici della Chiesa nell’assecondare queste ideologie anticristiane, quasi a volersi garantire uno spazio e un ruolo sul carro del pensiero unico. E stupisce che ancora ci si ostini a non voler indagare le cause prime della crisi presente, limitandosi a deplorare gli eccessi di oggi quasi non fossero la logica ed inevitabile conseguenza di un piano orchestrato decenni orsono. Se la pachamama ha potuto esser adorata in una chiesa, lo dobbiamo a Dignitatis humanae. Se abbiamo una liturgia protestantizzata e talvolta addirittura paganizzata, lo dobbiamo alle azioni rivoluzionare di Mons. Annibale Bugnini e alle riforme post-conciliari. Se si è firmato il Documento di Abu Dhabi, lo si deve a Nostra Aetate. Se si è giunti a delegare le decisioni alle Conferenze episcopali – anche in violazione gravissima del Concordato, com’è accaduto in Italia – lo dobbiamo alla collegialità, e alla sua versione aggiornata della sinodalità. Grazie alla quale ci siamo trovati con Amoris laetitia a dover cercare un modo per evitare che apparisse ciò che era evidente a tutti, e cioè che quel documento, preparato da una macchina organizzativa impressionante, doveva legittimare la Comunione ai divorziati e ai concubinari, così come Querida Amazonia verrà usata come legittimazione delle donne prete (recentissimo il caso di una “vicaria episcopale” a Friburgo) e dell’abolizione del sacro celibato. I prelati che hanno inviato i Dubia a Francesco, a mio parere hanno dimostrato la stessa pia ingenuità: pensare che dinanzi alla contestazione argomentata dell’errore, Bergoglio avrebbe compreso, corretto i punti eterodossi e chiesto perdono.
Il Concilio è stato utilizzato per legittimare, nel silenzio dell’Autorità, le deviazioni dottrinali più aberranti, le innovazioni liturgiche più ardite e gli abusi più spregiudicati. Questo Concilio è stato talmente esaltato da essere indicato come l’unico riferimento legittimo per i cattolici, chierici e vescovi, oscurando e connotando con un senso di spregio la dottrina che la Chiesa aveva sempre autorevolmente insegnato, e proibendo la perenne liturgia che per millenni aveva alimentato la fede di un’ininterrotta generazione di fedeli, martiri e santi. Tra l’altro, questo Concilio ha dato prova di essere l’unico che pone così tanti problemi interpretativi e così tante contraddizioni rispetto al Magistero precedente, mentre non ce n’è uno – dal Concilio di Gerusalemme al Vaticano I – che non si armonizzi perfettamente con l’intero Magistero e che necessiti di una qualche interpretazione.
Lo confesso con serenità e senza polemica: sono stato uno dei tanti che, pur con molte perplessità e timori, che oggi si rivelano assolutamente legittimi, hanno dato fiducia all’autorità della Gerarchia con un’obbedienza incondizionata. In realtà penso che molti, ed io tra questi, non abbiamo inizialmente considerato la possibilità di un conflitto tra l’obbedienza ad un ordine della Gerarchia e la fedeltà alla Chiesa stessa. A rendere tangibile la separazione innaturale, anzi, direi perversa, tra Gerarchia e Chiesa, tra obbedienza e fedeltà è stato certamente quest’ultimo pontificato.
Nella camera lacrimatoria adiacente la Sistina, mentre mons. Guido Marini predisponeva il rocchetto, la mozzetta e la stola per la prima apparizione del “neoeletto” Papa, Bergoglio esclamò: “Sono finite le carnevalate!”, ricusando con sdegno le insegne che tutti i Papi fino ad allora avevano umilmente accettato come distintive del Vicario di Cristo. Ma in quelle parole c’era qualcosa di vero, ancorché detto involontariamente: il 13 marzo 2013 cadeva la maschera dei congiurati, finalmente liberi della scomoda presenza di Benedetto XVI e sfrontatamente orgogliosi di esser finalmente riusciti a promuovere un Cardinale che incarnasse i loro ideali, il loro modo di rivoluzionare la Chiesa, di renderne preteribile la dottrina, adattabile la morale, adulterabile la liturgia, abrogabile la disciplina. E tutto questo è stato considerato, dagli stessi protagonisti della congiura, la logica conseguenza e la ovvia applicazione del Vaticano II, secondo loro indebolito proprio dalle criticità espresse dallo stesso Benedetto XVI. Massimo affronto di quel pontificato fu la liberalizzazione della veneranda liturgia tridentina, alla quale veniva finalmente riconosciuta legittimità, smentendo cinquant’anni di illegittimo ostracismo. Non a caso i sostenitori di Bergoglio sono gli stessi che vedono nel Concilio il primo evento di una nuova chiesa, prima della quale c’era una vecchia religione con una vecchia liturgia. Non a caso, appunto: quello che essi affermano impunemente, suscitando lo scandalo dei moderati, è quello che credono anche i cattolici, ossia che nonostante tutti i tentativi di ermeneutica della continuità miseramente naufragati al primo confronto con la realtà della crisi presente, è innegabile che dal Vaticano II in poi si sia costituita una chiesa parallela, sovrapposta e contrapposta alla vera Chiesa di Cristo. Essa ha progressivamente oscurato la divina istituzione fondata da Nostro Signore per sostituirla con un’entità spuria, corrispondente all’auspicata religione universale di cui fu prima teorizzatrice la Massoneria. Espressioni come nuovo umanesimo, fratellanza universale, dignità dell’uomo sono parole d’ordine dell’umanitarismo filantropico negatore del vero Dio, del solidarismo orizzontale di vaga ispirazione spiritualista e dell’irenismo ecumenico che la Chiesa condanna senza appello. “Nam et loquela tua manifestum te facit” (Mt 26, 73): questo ricorso frequentissimo, quasi ossessivo, allo stesso vocabolario del nemico tradisce l’adesione all’ideologia cui esso si ispira; viceversa, la rinuncia sistematica al linguaggio chiaro, inequivocabile e cristallino proprio della Chiesa conferma la volontà di distaccarsi non solo dalla forma cattolica, ma anche dalla sua sostanza.
Quello che da anni sentiamo enunciato, vagamente e senza chiari connotati, dal più alto Soglio, lo ritroviamo poi elaborato in un vero e proprio manifesto nei sostenitori dell’attuale Pontificato: la democratizzazione della Chiesa tramite non più la collegialità inventata dal Vaticano II, ma il synodal path inaugurato al Sinodo per la famiglia; la demolizione del sacerdozio ministeriale tramite il suo indebolimento con le deroghe al celibato ecclesiastico e l’introduzione di figure femminili con mansioni quasi-sacerdotali; il passaggio silenzioso dall’ecumenismo rivolto ai fratelli separati ad una forma di pan-ecumenismo che abbassa la Verità dell’unico Dio Uno e Trino al livello delle idolatrie e delle superstizioni più infernali; l’accettazione di un dialogo interreligioso che presuppone il relativismo religioso ed esclude l’annuncio missionario; la demitizzazione del papato, perseguita dallo stesso Bergoglio come cifra del Pontificato; la progressiva legittimazione del politically correct: teoria gender, sodomia, matrimoni omosessuali, dottrine malthusiane, ecologismo, immigrazionismo… Non riconoscere le radici di queste deviazioni nei principi posti dal Concilio rende impossibile qualsiasi cura: se la diagnosi si ostina contro l’evidenza ad escludere la patologia iniziale, non può formulare una terapia idonea.
Questa operazione di onestà intellettuale richiede una grande umiltà, anzitutto nel riconoscere di essere stati tratti in errore per decenni, in buona fede, da persone che, costituite in autorità, non hanno saputo vigilare e custodire il gregge di Cristo: chi per quieto vivere, chi per i troppi impegni, chi per convenienza, chi infine per malafede o addirittura per dolo. Questi ultimi, che hanno tradito la Chiesa devono essere identificati, ripresi, invitati ad emendarsi e, se non si ravvedono, cacciati dal sacro recinto. Così agisce un vero Pastore, che ha a cuore la salute delle pecore e che dà la vita per loro; di mercenari ne abbiamo avuti e ne abbiamo tuttora fin troppi, per i quali il consenso dei nemici di Cristo è più importante della fedeltà alla Sua Sposa.
Ecco, come onestamente e serenamente ho obbedito ad ordini opinabili sessant’anni fa credendo che rappresentassero l’amorevole voce della Chiesa, così oggi con altrettanta serenità e onestà riconosco di essermi lasciato ingannare. Essere coerente oggi perseverando nell’errore rappresenterebbe una scelta sciagurata e mi renderebbe complice di questa frode. Rivendicare una lucidità di giudizio sin dall’inizio non sarebbe onesto: sapevamo tutti che il Concilio avrebbe rappresentato più o meno una rivoluzione, ma non potevamo immaginare che essa si sarebbe rivelata così devastante, anche per l’operato di chi invece avrebbe dovuto impedirla. E se fino a Benedetto XVI potevamo ancora immaginare che il colpo di stato del Vaticano II (che il cardinale Suenens definì il 1789 della Chiesa) avesse conosciuto un rallentamento, in questi ultimi anni anche i più ingenui tra noi hanno compreso che il silenzio, per timore di suscitare uno scisma, il tentativo di aggiustare i documenti papali in senso cattolico per rimediare alla loro voluta equivocità, gli appelli e i dubia a Francesco rimasti eloquentemente senza risposta, sono una conferma della situazione di gravissima apostasia cui sono esposti i vertici della Gerarchia, mentre il popolo cristiano e il clero si sentono irrimediabilmente allontanati e considerati quasi con fastidio dall’Episcopato.
La Dichiarazione di Abu Dhabi è il manifesto ideologico di un’idea di pace e di cooperazione tra le religioni che può avere una qualche possibilità di tolleranza se viene da pagani, privi della luce della Fede e del fuoco della Carità. Ma chi ha la grazia di esser figlio di Dio, in virtù del Santo Battesimo, dovrebbe inorridire alla sola idea di poter costruire una blasfema Torre di Babele in versione moderna, cercando di mettere insieme l’unica vera Chiesa di Cristo, erede delle promesse del Popolo eletto, con i negatori del Messia e con quanti considerano blasfema la sola idea di un Dio Trino. L’amore di Dio non conosce misure e non tollera compromessi, altrimenti semplicemente non è Carità, senza la quale non è possibile rimanere in Lui: qui manet in caritate, in Deo manet, et Deus in eo. Conta poco che si tratti di una dichiarazione o di un documento magisteriale: sappiamo benissimo che la mens eversiva dei novatori gioca proprio su questi cavilli per diffondere l’errore. E sappiamo benissimo che lo scopo di queste iniziative ecumeniche ed interreligiose non è convertire a Cristo quanti sono lontani dall’unica Chiesa, ma sviare e corrompere quanti ancora conservano la Fede cattolica, portandoli a ritenere auspicabile una grande religione universale che accorpi “in un’unica casa” le tre grandi religioni abramitiche: questo è il trionfo del piano massonico in preparazione al regno dell’Anticristo! Che questo si concretizzi con una Bolla dogmatica, con una dichiarazione o con una intervista di Scalfari su Repubblica, conta poco, perché le parole di Bergoglio sono attese dai suoi sostenitori come un segnale, al quale rispondere con una serie di iniziative già predisposte e organizzate da tempo. E se Bergoglio non si atterrà alle indicazioni ricevute, schiere di teologi e chierici sono già pronte a lamentarsi della “solitudine di papa Francesco”, quale premessa per le sue dimissioni (penso ad esempio a Massimo Faggioli in un suo recente scritto). D’altra parte non sarebbe la prima volta che costoro usano il Papa quando asseconda i loro piani, e se ne liberano o lo attaccano appena se ne discosta.
La Chiesa ha celebrato domenica scorsa la Santissima Trinità, e ci propone nel Breviario la recita del Symbolum Athanasianum, ormai proscritto dalla liturgia conciliare e già confinato a due sole occasioni nella riforma del 1962. Di quel Simbolo ormai scomparso rimangono scolpite in lettere d’oro le prime parole: “Quicumque vult salvus esse, ante omnia opus est ut teneat Catholicam fidem; quam nisi quisque integram inviolatamque servaverit, absque dubio in aeternum peribit.”
S.E. Mons. Carlo Maria Viganò, Sant’Efrem, 9 giugno 2020 (Fonte: chiesaepostconcilio.blogspot.com/)