6/Perché Dio ha voluto prolungare per tanti secoli le preparazioni dell'Incarnazione
Tutte le benedizioni di Dio su di noi hanno la loro sorgente nella scelta che ha fatto delle anime nostre, da tutta l'eternità, «per renderle sante ed immacolate davanti a sé» (Eph. I, 4). In questo divino decreto, pieno di amore, sono racchiusi e la nostra predestinazione adottiva di figli di Dio e tutto l'insieme dei favori che vi sono legati.
Ora, dice S. Paolo che «questa adozione ci è stata data per Gesù Cristo mandato da Dio nella pienezza dei tempi» (Galat. IV, 4-5).
Il disegno eterno di Dio «di mandare il proprio Figlio in questo mondo per riscattare il genere umano» (Ibid.) perduto per il peccato, restituirgli tutti i diritti, l'eredità dei figli e la beatitudine celeste; è il capolavoro della sua sapienza e del suo amore. Le vedute di Dio non sono le nostre; tutti i suoi pensieri trascendono i nostri come il cielo trascende la terra; ma è specialmente nell'opera dell'Incarnazione e della Redenzione che risplendono la sublimità e la grandezza delle vedute divine.
Tale opera è così elevata, così strettamente congiunta con la vita della Santissima Trinità, «che essa è rimasta nascosta, per secoli, nelle profondità dei secreti divini»: Sacramentum absconditum a saeculis in Deo (Eph. III, 9). Come sapete, Dio ha voluto preparare l'umanità alla rivelazione di questo mistero per lo spazio di più migliaia di anni. Perché mai Dio ha voluto ritardare per tanti secoli la venuta di suo Figlio fra noi? Perché un periodo così lungo? Noi, semplici creature, non possiamo renderci conto dell'ultimo perché delle condizioni nelle quali Dio compie l'opera sua, perché è l'Essere infinitamente sovrano «che non ha bisogno di consiglieri» (Cf. Rom. XI, 34). Sennonché, essendo anche «la stessa Sapienza che tutto regola con misura e equilibrio, con forza e dolcezza», (Sap. VIII, 1; cf. la grande antifona: O sapientia, 17 dic.) ci è consentito indagare umilmente qualcuna delle convenienze che fa risplendere nei suoi misteri.
Bisognava che gli uomini, che avevano peccato per orgoglio, Eritis sicut Dii, (Gen. III, 5) - fossero obbligati, con una esperienza prolungata della loro debolezza e della immensità della loro miseria, a riconoscere l'assoluta necessità di un Redentore e ad aspirare alla sua venuta con tutte le fibre del loro essere (Cf. S. Th. III, q. I, a. 5).
Tutta la religione dell'Antico Testamento si riassume infatti in questo grido che prorompeva senza posa dal cuore dei patriarchi e dei giusti: «Che i cieli ci piovano la rugiada! Che la terra si apra e germi il Salvatore!» (Is. XLV, 8.). L'idea di questo venturo Redentore riempie tutta l'antica Legge; tutti i simboli, tutti i riti e i sacrifici lo figurano: Haec omnia in figura contingebant illis (I Cor X, 11); tutti i voti, tutti i desideri si concentrano verso di lui. Come bellamente si esprime un autore dei primi secoli, l'Antico Testamento portava nei suoi fianchi Cristo: Lex Christo gravida erat... (Appendice delle opere di S. Agostino, Sermone CXCVI) La religione di Israele non era che l'attesa del Messia liberatore.
Inoltre, la grandezza del mistero dell'Incarnazione e la maestà del Redentore esigevano che questa rivelazione al genere umano avvenisse gradatamente. L'uomo, dopo la sua caduta, non era né degno di accogliere né capace di ricevere la manifestazione piena dell'UomoDio. Perciò, per una economia piena insieme di sapienza e di misericordia, Dio non ha voluto svelare questo mistero ineffabile che poco alla volta, per bocca dei profeti. Quando poi l'umanità sarà abbastanza preparata, il Verbo, tante volte annunziato, promesso tante volte, verrebbe egli stesso sulla terra ad istruirci.
(Hebr. I, 1).12 Vi mostrerò alcuni tratti di queste preparazioni divine all'Incarnazione. Noi ammireremo con quale sapienza Dio ha disposto il genere umano a ricevere la salute, e ciò sarà per noi un'occasione di rendere «al Padre della misericordia» (II Cor I, 3) fervide azioni di grazie per averci fatto vivere «nella pienezza dei tempi» - perché essa dura ancora - in cui ha concesso agli uomini il dono inestimabile del Figlio suo.
I. In qual modo l'eterna sapienza, richiamando e precisando, con la voce dei profeti, la promessa primitiva d'un Redentore, ha preparato le anime dei giusti dell'Antico Testamento alla venuta dell'Uomo-Dio sulla terra.
Voi sapete che all'indomani stesso del peccato dei nostri pro genitori, alla culla stessa del genere umano di già prevaricatore, Dio cominciò la rivelazione del mistero dell'Incarnazione. Adamo ed Eva, prostrati al cospetto del loro Creatore, nella vergogna e nella disperazione della loro caduta, più non osano guardare il cielo. Ed ecco che prima ancora di pronunziare la sentenza della loro cacciata dal Paradiso terrestre, Dio fa loro intendere le prime parole di perdono e di speranza.
Invece di essere maledetti e scacciati per sempre dalla presenza del loro Dio, come lo furono gli angeli ribelli, avranno un Redentore, colui che spezzerà la potenza acquistata su loro dal demonio. E siccome la loro caduta è cominciata per la prevaricazione della donna, così la redenzione verrà operata dal figlio di una donna (Gen III, 15). E' stato chiamato, questo, il Protoevangelo: la prima parola di salvezza. E' la prima promessa di redenzione, l'alba delle misericordie divine alla terra peccatrice, il primo raggio di quella luce che deve un giorno vivificare il mondo, la prima manifestazione del mistero nascosto in Dio da tutta l'eternità.
Da questa promessa in poi, tutta la religione del genere umano, e, più tardi, tutta la religione del popolo eletto, si concentrerà intorno a questo «rampollo della donna», a questo semen mulieris che deve liberare gli uomini.
A misura che passano gli anni e che s'avanzano i secoli, Dio delinea meglio la sua promessa recando, nel ripeterla, maggior solennità. Assicura ai patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe che il rampollo benedetto uscirà dalla loro famiglia: Et benedicentur in semine tuo omnes gentes terrae; (Gen. XXII, 18; cf. Gal. III, 16.) a Giacobbe moribondo mostra che dalla tribù di Giuda sorgerà «colui che deve venire, l'oggetto di tutti i sospiri dei popoli»: Donec veniat qui mittendus est, et ipse erit expectatio gentium (Gen. XLIX, 10).
Ma ecco che i popoli, dimentichi delle rivelazioni primitive, si sprofondano insensibilmente nell'errore. Dio allora si elegge un popolo che sarà il custode delle sue promesse, e ad esso, per la durata di secoli, ricorderà quelle promesse, le rinnoverà, le renderà più chiare, più copiose: e sarà questo il periodo dei profeti. Se scorrete gli oracoli sacri dei profeti d'Israele, osserverete che le caratteristiche con le quali Dio designa la persona del Messia venturo e precisa i caratteri della Sua missione, sono talora così opposti che sembra che non possano riunirsi nel1a stessa persona. Ora i profeti attribuiscono al Redentore delle prerogative che non possono convenire che a un Dio, ora predicono a questo Messia un cumulo di umiliazioni, di contraddizioni, d'infermità, di dolori, di cui appena l'ultimo degli uomini potrebbe essere meritevole.
Osserverete costantemente questo impressionante contrasto. Per esempio, ecco David, il re caro al cuore di Dio. Il Signore gli fa giuramento di prosperare sempre la sua stirpe: il Messia dovrà essere della famiglia di David. Dio lo fa vedere a David «come suo figlio e suo Signore»; (Ps. CIX, 1; cfr. Matth. XXII, 41-45) suo figlio per l'umanità che assumerà un giorno da una vergine della sua famiglia, suo Signore per la divinità. David lo contempla «in mezzo ai santi splendori, generato eternamente prima che si levi l'aurora; pontefice supremo secondo l'ordine di Melchisedech, (Ps. CIX, 3-4) consacrato per regnare su noi con dolcezza, verità e giustizia»; (Ibid. XLIV, 5) in una parola, «Figlio di Dio, al quale tutte le nazioni sono state date in eredità» (Ibid. II, 7-8.). S. Paolo fa notare agli Ebrei che siffatte prerogative non possono convenire che a un Dio (Hebr. I, 13).
Se non che, David contempla ancora «le sue mani e i suoi piedi forati, i suoi abiti messi a sorte e divisi; (Ps. XXI, 17-19) lo vede abbeverato di fiele e di aceto» (Ibid. LXVIII, 22). Quindi riappariscono gli attributi divini; «Egli non sarà attaccato dalla corruzione della tomba, ma, vincitore della morte, siederà alla destra di Dio» (Ibid. XV, 10).
Questo contrasto non è meno notevole in Isaia, il grande veggente, cosi preciso e cosi copioso che si può chiamare il quinto evangelista; si direbbe che racconti dei fatti compiuti, anzi che profetizzare avvenimenti futuri.
Il profeta, trasportato nei cieli, proclama «ineffabile» la generazione di questo Messia (Is. LIII, 8) Gli dà nomi mai portati da alcun uomo; «Si chiamerà l'Ammirabile, il Dio forte, il Padre dei secoli futuri, il Principe della pace» ; (Ibid. IX, 6) - «partorito da una vergine sarà chiamato Dio con noi, Emmanuel» (Ibid. VII, 14). Isaia lo descrive «sorgente come un'aurora, risplendente come una face»; (Ibid. LXII, 1) lo vede «restituire la vista ai ciechi, l'udito ai sordi, far parlare i muti e camminare gli zoppi» ; (Ibid. XXXV, 5-6) lo mostra «costituito capo e maestro delle nazioni pagane», (Ibid. LV, 5) vede «gli idoli crollare davanti a lui», (Ibid. II, 14-18) e ascolta Dio che promette con giuramento che «davanti a questo Salvatore ogni ginocchio si piegherà, e ogni lingua confesserà la sua potenza» (Ibid. XLV, 23).
Eppure questo Redentore, di cui il profeta esalta cosi la gloria, sarà colpito da tali dolori, coperto da tali umiliazioni, che sarà considerato «come l'ultimo degli uomini, come un lebbroso, percosso da Dio e schiacciato sotto gli obbrobri; condotto alla morte come un agnello al macello, messo nel numero degli scellerati, perché Dio l'ha voluto schiacciare nell'infermità» (Ibid. LIII, 3 seq.).
Voi potete cogliere nella maggior parte dei profeti questo contrasto di caratteristiche con le quali descrivono gli abbassamenti e la grandezza, le debolezze e la potenza, le sofferenze e la gloria del Messia.
Voi vedrete con quale condiscendente sapienza Dio preparava gli spiriti alla rivelazione del mistero ineffabile dell'Uomo-Dio che è, nello stesso tempo, Signore supremo adorato da tutte le nazioni, e vittima per i peccati del mondo.
L'economia della divina misericordia è, come sapete, esclusivamente basata sulla fede; essendo questa «il fondamento, la radice di ogni giustificazione». Senza questa fede la stessa presenza materiale di Gesù Cristo nelle anime non potrebbe produrre la pienezza dei suoi frutti. Ora la fede ci viene comunicata per l'azione interiore dello Spirito Santo che accompagna l'esposizione delle divine verità fatta dai profeti e dai predicatori; Fides ex auditu (Rom. X, 7). Richiamando cosi spesso le sue primitive promesse, rivelando, poco a poco, con la voce dei profeti, i lineamenti del Redentore venturo, Dio voleva produrre nei cuori dei giusti dell'Antico Testamento, le disposizioni richieste perché riuscisse loro salutare la venuta del Messia.
Quanto più i giusti dell'Antica Alleanza erano pieni di fede e di confidenza nelle promesse annunziate dai loro profeti, tanto più bruciavano dal desiderio di vederle realizzate e più e meglio si preparavano a ricevere l'abbondanza delle grazie che il Salvatore doveva portare nel mondo. La Vergine Maria, Zaccaria, Elisabetta, Simeone, Anna e le altre anime fedeli che vivevano al momento della venuta di Cristo lo hanno riconosciuto immediatamente ricevendone subito abbondanza di privilegi e favori.
Voi vedete in qual modo Dio si è compiaciuto di preparare gli uomini alla venuta del Figlio suo sulla terra. S. Pietro poteva dire veramente agli Ebrei che erano «i figli dei profeti», (Act. III, 25) e S. Paolo poteva scrivere agli Ebrei «che prima di istruirli col suo Figlio in persona, Dio aveva parlato ai loro padri con la voce dei profeti, a più riprese, e in forme diverse» (Hebr. I, 1).
Anche i Giudei fedeli erano costantemente nell'attesa del Messia. La loro fede vedeva nella persona di questo Redentore un inviato divino, un re, un Dio, che doveva mettere fine alle loro miserie e liberarli dal peso delle loro colpe. Non hanno che un voto: «Inviate, Signore, colui che deve venire»; non hanno che un desiderio: contemplare coi loro occhi i lineamenti del Salvatore d'Israele. Il Messia promesso era l'oggetto verso il quale convergevano tutti i sospiri, tutte le volontà, tutto il culto, tutta la religione dell'Antica Alleanza; tutto l'Antico Testamento è un Avvento prolungato, le cui preghiere si riassumono in questo appello d'Isaia: (Hebr. XVI, l) «Mandate, o Signore, l'Agnello che deve regnare su tutta la terra; che i cieli piovano la loro rugiada e ci diano il Giusto»; «Che la terra si apra e germini il Salvatore» (Ibid. XLV, 8)
II. S. Giovanni Battista, Precursore del Verbo Incarnato, riassume e sorpassa tutti i profeti.
Abbiamo ammirato come siano profonde le vie della Sapienza divina nelle preparazioni al mistero della venuta dell'Uomo-Dio; ma questo non è tutto. Attraverso una serie di maraviglie, la Sapienza eterna serba intatte, presso il popolo eletto, le promesse primitive, e le conferma e le sviluppa senza tregua con delle profezie; fa servire le stesse successive schiavitù del popolo giudeo, divenuto talvolta infedele, per diffondere la conoscenza di queste promesse fino alle nazioni straniere, e regola allo stesso modo i destini di queste nazioni.
Voi sapete in qual modo, durante questo lungo periodo di quaranta secoli, Dio, che «tiene in mano i cuori dei re» (Cf. Prov XXI, 1) e la cui potenza eguaglia la saggezza, abbia fondato e rovesciato l'uno dopo l'altro gli imperi più vasti. All'impero di Ninive, che si estende fino all'Egitto, fa succedere quello di Babilonia; quindi, come predisse Isaia, «chiama il suo servo Ciro» (Is. XLV, 1) re dei Persiani e mette nelle sue mani lo scettro di Nabucodonosor; dopo Ciro costituisce Alessandro padrone delle nazioni; e trasporta l'impero del mondo a Roma, impero la cui unità e pace serviranno, nei disegni di Dio, alla diffusione del Vangelo.
Ora, la «pienezza dei tempi» (Galat. IV, 4) è arrivata: il peccato e l'errore inondano l'universo; l'uomo sente la debolezza in cui lo tiene il suo orgoglio, e tutti i popoli tendono le braccia verso questo liberatore tante volte promesso e atteso per tanto tempo: Et veniet desideratus cunctis gentibus (Agg. II, 8).
Giunta questa pienezza, Dio suggella tutte le sue preparazioni con l'invio di S. Giovanni Battista, l'ultimo dei profeti, ma che renderà più grande di Abramo, più grande di Mosè, più grande di tutti, come lo dichiarerà lui stesso: Non surrexit inter natos mulierum major Joanne Baptista (Matth. XI, 11Luc. VII, 28). E' Gesù Cristo che lo dice. E perché? Perché Dio vuol fare di lui l'araldo per eccellenza, il precursore del suo Figlio diletto: Propheta Altissimi vocaberis (Luc. I 76). Per accrescere ancora la gloria di questo Figlio, che finalmente egli introduce nel mondo, dopo averlo tante volte promesso, Dio si compiace di mettere in rilievo la dignità del Precursore, il quale deve testimoniare che la luce e la verità sono apparsi finalmente sulla terra (Joan. I, 8). Dio lo vuole grande perché la sua missione è grande, perché egli è stato eletto per precedere da vicino colui che deve venire. Per Iddio la grandezza dei Santi si misura dalla vicinanza che hanno con suo Figlio Gesù. Osservate in qual modo esalta il Precursore, allo scopo di mostrare ancor una volta, con l'eccellenza dell'ultimo profeta, quale è la dignità del suo Verbo. Egli lo elegge da una stirpe particolarmente santa, ne fa da un angelo annunziare la nascita, prescrive il nome che deve portare, rivela l'estensione e la grandezza della sua missione, lo santifica nel seno della madre, fa risplendere prodigi intorno alla sua culla tanto che i felici testimoni di queste meraviglie si domandano meravigliati: «Che diverrà questo bimbo?» (Luc. I, 66).
Più tardi, la santità di Giovanni apparirà così grande che i Giudei verranno a domandargli se è lui il Cristo aspettato. Ma egli, sebbene prevenuto dai celesti favori, protesta che non è inviato che per essere la voce che grida: «Preparate la via al Signore, perché egli deve venire» (Joan. I, 23).
Gli altri profeti non hanno visto il Messia che da lontano; egli lo indicherà col dito e con sì chiare parole che tutti i cuori sinceri le comprenderanno: «Ecco l'Agnello di Dio», ecco colui che è l'oggetto di tutti i desideri del genere umano, perché deve cancellare i peccati del mondo: Ecce Agnus Dei (Ibid. I, 29). «Voi non lo conoscete ancora sebbene egli sia tra voi»: Medius autem vestrum stetit quem vos nesciflis; «egli è più grande di me perché era prima di me, egli è sì grande che io non sono degno di legare le correggi e dei suoi calzari; sì grande che io ho visto lo Spirito discendere dal cielo come una colomba e posarsi su di lui; io l'ho visto e rendo testimonianza che è lui il Figlio di Dio» (Ibid. I, 26-27, 32, 34). Che cosa ancora dirà? «Egli viene dal cielo; egli è al di sopra di tutti, e rende testimonianza di ciò che ha visto ed inteso; colui che Dio ha mandato parla parole di Dio, ché Iddio non gli dà lo spirito con misura; il Padre ama il Figlio e ha poste tutte le cose in sua mano. Chi crede nel Figlio ha la vita eterna, colui che non crede al Figlio, non vedrà la vita; che anzi l'ira di Dio rimane su lui» (Ibid, III 31 seq).
Sono queste le ultime parole del Precursore con le quali terminerà di preparare le anime a ricevere il Messia. Quando infatti il Verbo Incarnato che, solo, può dire la parola dall'alto, perché egli è ognora in sinu Patris, (Ibid. I, 18) darà principio alla sua missione pubblica di Salvatore, Giovanni sparirà e non renderà più testimonianza alle verità che col suo sangue.
Cristo, che egli ha precorso, è alfine venuto, è lui la luce alla quale Giovanni rendeva testimonianza e tutti coloro che credono a questa luce avranno la vita eterna. Ormai a lui solo converrà dire: «Signore, da chi andremo noi? Voi solo possedete parole di vita eterna» (Joan. VI, 69).
III. Sebbene noi viviamo «nella pienezza dei tempi». lo Spirito Santo vuole che la Chiesa ci richiami ogni anno il ricordo di queste divine preparazioni; triplice ragione di questa economia spirituale.
Noi abbiamo la felicità di credere a questa luce che deve ormai illuminare ogni uomo che viene in questo mondo; noi viviamo ancora nella «felice pienezza dei tempi», né siamo, come i Patriarchi, impediti di vedere il regno del Messia. Se non siamo del numero di quelli che hanno veduto Cristo in persona, intese le sue parole, che l'hanno visto passare facendo ovunque del bene, tuttavia abbiamo la insigne fortuna di appartenere «a quelle nazioni di cui David ha cantato che saranno l'eredità di Cristo».
Lo Spirito Santo che governa la Chiesa ed è l'artefice primo della nostra santificazione, vuole tuttavia che ogni anno la Chiesa consacri un periodo di quattro settimane a richiamare il ricordo della meravigliosa durata delle preparazioni divine, e tutto mette in opera per determinare nelle anime nostre quelle disposizioni interiori in cui si trovavano quei giusti tra i Giudei nell'attesa della venuta del Messia. Forse voi mi direte: «Questa preparazione alla venuta di Cristo, questi desideri, questa attesa, tutto questo era certo cosa eccellente per le anime dei giusti che vivevano nell'Antico Testamento, ma ora che il Cristo è venuto, perché questo atteggiamento che non sembra corrispondere alla verità?».
Diverse sono le ragioni.
Prima di tutto Dio vuole essere lodato e benedetto in tutte le sue opere. Tutte, infatti, recano l'impronta della sua sapienza infinita: Omnia in sapientia fecisti; (Ps. CII, 24) tutte sono ammirabili non meno nelle loro preparazioni che nel loro compimento. E ciò è vero specialmente di quelle opere che hanno per scopo diretto la gloria del Figlio suo, poiché «la volontà del Padre è che il Figlio sia sempre esaltato» (Cf. Joan. XII, 28). Dio vuole che noi ammiriamo le sue opere, che gli rendiamo azioni di grazie per aver preparato con tanta sapienza e potenza il regno del Figlio suo tra noi: e noi entriamo in questi pensieri divini quando ricordiamo le profezie e le promesse dell'Antica Alleanza.
Inoltre Dio vuole che troviamo in queste preparazioni una conferma alla nostra fede.
Se egli ha dato tanti contrassegni, diversi e precisi, e delle profezie copiose e chiare, lo ha fatto perché riconoscessimo che suo Figlio è veramente colui che le ha adempiute nella sua persona.
Osservate in qual modo, nel Vangelo, nostro Signore stesso incitava i suoi discepoli a questa contemplazione: «Scrutamini Scripturas, (Joan. V, 39) Scrutate le sante Scritture» diceva loro, - «le Scritture» erano allora i libri dell'Antico Testamento; - scrutatele e le vedrete piene del mio nome; poiché è necessario «che s'adempia tutto ciò che è stato scritto di me nei Salmi e nei profeti» (Luc. XXIV, 44). Noi lo ascoltiamo ancora, all'indomani della sua resurrezione, spiegare ai discepoli di Emmaus, per confermare la loro fede e per dissipare la loro tristezza, tutto ciò che le Scritture dicevano di lui «cominciando da Mosè e percorrendo tutti i profeti» (Ibid. 27). Quando leggiamo le profezie che la Chiesa ci propone durante l'Avvento, nella pienezza della nostra fede, come i primi discepoli di Gesù, dobbiamo dire: «Noi abbiamo trovato colui che i profeti hanno annunziato» (Joan. I, 45). Dunque allora ripetiamo queste parole a Gesù Cristo medesimo: «Sì, voi siete veramente colui che deve venire; noi lo crediamo e vi adoriamo, voi che per salvare il mondo vi siete degnato d'incarnarvi nel seno di una vergine» (Inno Te Deum).
Questa professione di fede è oltremodo accetta al Signore; non dimentichiamo quindi di ripeterla spesso. Come ai suoi discepoli, nostro Signore potrà dire anche a noi: «Mio Padre vi ama poiché avete creduto che io sono l'inviato» (Joan. XVI. 27).
Vi è infine una terza ragione più profonda e più intima. Cristo non è venuto soltanto per gli abitanti della Giudea, suoi contemporanei, ma per noi tutti, per tutti gli uomini, di tutte le nazioni e di tutti i tempi; non cantiamo noi nel Credo: Propter NOS et propter NOSTRAM salutem descendit de caelis? La «pienezza dei tempi» non è chiusa ancora: essa durerà finché vi saranno degli eletti.
Dopo la sua Ascensione è soltanto alla Chiesa che Gesù Cristo ha lasciato la missione di generare tale pienezza nelle anime. «Voi siete i miei piccoli figli, diceva S. Paolo, l'apostolo di Gesù Cristo tra le nazioni, io vi porto nuovamente nel seno fino a tanto che sia formato in voi Cristo» (Galat. IV, 9). La Chiesa, guidata in questo dallo Spirito Santo che è lo Spirito di Gesù, lavora a quest'opera col farci contemplare ogni anno il mistero del suo Sposo divino. Perché, ve l'ho già detto nel dar principio a queste conferenze, tutti i misteri di Cristo sono viventi, poiché essi non sono unicamente una realtà storica di cui richiamiamo il ricordo, ma una solennità che contiene in se stessa una grazia propria, una virtù speciale, che deve farci vivere della vita stessa di Cristo di cui noi siamo le membra, col renderei partecipi di tutti i suoi stati.
Ora la Chiesa celebra a Natale la natività del suo Sposo celeste (Ps. XVIII, 6); ed essa vuole prepararci, con le settimane dell'Avvento, alle grazie della venuta di Cristo in noi. E' un avvenimento del tutto interiore, misterioso, che si compie nella fede, ma pieno di fecondità.
E' vero; Cristo si trova già in noi con la grazia santificante che ei fa nascere figli di Dio; ma la Chiesa vuole che questa grazia si rinnovi e che noi viviamo di una vita novella, più affrancata dal peccato, più svincolata da imperfezioni, più libera da attaccamenti con noi stessi e con le creature (Preghiera della festa di Natale) essa intende sopratutto farci comprendere che Cristo, in cambio dell'umanità che ci prende in prestito, ci farà parte della sua divinità, e opererà in noi una presa di possesso più completa, più intera e più perfetta: sarà insomma come la grazia di una nuova nascita divina in noi (Secreta della messa di mezzanotte).
E' questa grazia che il Verbo Incarnato ci ha meritato con la sua nascita a Bethlehem, ma se è vero il dire che egli è nato, vissuto e morto per noi tutti (II Cor V, 15), è vero anche l'aggiungere che l'applicazione dei suoi meriti e il conferimento delle sue grazie non si compie in ciascuna anima che nella misura delle sue disposizioni.
Noi non parteciperemo alle grazie copiosissime della natività di Cristo che in proporzione delle nostre disposizioni. - La Chiesa lo sa perfettamente e per questo niente trascura per produrre nelle nostre anime quella disposizione interiore che rende possibile in esse la venuta di Cristo. Non solo la Chiesa ci dice per bocca del Precursore: «Preparate le vie al Signore», - «poiché egli è vicino» (Invitatorio del Mattutino della 3a Domenica); ma essa stessa, come una sposa attenta ai desideri dello sposo, come una madre premurosa del bene dei suoi figli, ci suggerisce e ci fornisce i mezzi di compiere questa preparazione necessaria. Essa ci trasporta, per così dire, al tempo dell'Antica Alleanza affinché ci possiamo appropriare, ma in un senso del tutto soprannaturale, i sentimenti di quei giusti che sospiravano la venuta del Messia.
Se ci lasciamo dirigere da lei, le nostre disposizioni saranno perfette, e la solennità della nascita di Gesù produrrà in noi tutti i suoi frutti di grazia, di luce e di vita.
IV. Disposizioni che bisogna avere perché la venuta di Cristo produca nelle anime nostre la pienezza dei suoi frutti: purezza di cuore, umiltà, fiducia e santi desideri. - Unirci ai sentimenti della Vergine Maria, madre di Gesù.
Quali sono queste disposizioni? Possono ridursi a quattro: La purezza del cuore. - Osservate: chi era meglio disposto alla venuta del Verbo sulla terra? Senza alcun dubbio la Vergine Maria. Quando il Verbo venne in questo mondo, trovò il cuore di questa Vergine perfettamente preparato e capace di ricevere le larghezze divine di cui la voleva colmare. E quali erano le disposizioni di quest'anima?
Senza dubbio le possedeva tutte in un modo perfetto; ma una brilla, tra queste, di particolare splendore: la verginità e la purezza. Maria é vergine; la sua verginità è per lei cosi preziosa che non può a meno di fare un'osservazione all'angelo quando questi le propone il mistero della maternità divina. Non solo ella è vergine, ma la sua anima è senza macchia. La liturgia ci rivela che il disegno proprio di Dio, accordando a Maria il privilegio unico dell'immacolata Concezione, era «di preparare al suo Verbo una dimora degna di lui» (Preghiera della festa dell'Immacolata Concezione). Maria doveva essere la Madre di Dio; e questa eminente dignità esigeva che fosse non solo vergine, ma che la sua purità sorpassasse quella degli angeli e fosse un riflesso degli splendori santi nei quali l'eterno Padre genera il Figlio (Ps, CIX, 3). Dio é santo, tre volte santo, gli angeli, gli arcangeli, i serafini cantano questa infinita purezza (Is. VI. 3). Il seno di Dio, di uno splendore immacolato, é la dimora naturale del Figlio unico di Dio; il Verbo è ognora in sinu Patris; ma, incarnandosi, egli ha voluto essere altresì, per una ineffabile condiscendenza, in sinu Virginis Matris; occorreva che il tabernacolo che le offriva la Vergine gli rammentasse, con la sua incomparabile purezza, l'indefettibile chiarezza della luce eterna ove, come Dio, egli vive sempre (Serm. XII in app. alle Opere di S. Ambrogio).
Ecco la prima disposizione che attira Gesù: una grande purezza. Ma noi siamo peccatori, noi non possiamo offrire al Verbo, a Cristo Gesù, questa purezza immacolata che egli tanto ama. Come potrà essere sostituita in noi? Dall'umiltà.
Dio possiede nel suo seno il Figlio delle sue compiacenze; ma egli stringe sul suo cuore anche un altro figlio, - il figliuol prodigo. Lo stesso nostro Signore ce lo assicura. Quando, dopo i suoi errori, il prodigo ritorna a suo padre, si umilia nella polvere, si riconosce un miserabile, un indegno; e allora, il padre suo, immediatamente lo riceve tra le braccia della sua misericordia
(Luc. XV, 20). Non dimentichiamoci che il Figlio non vuole se non ciò che vuole suo Padre; se egli si incarna ed appare sulla terra lo fa per cercare i peccatori e condurli al Padre (Matth. IX, 13; Marc. II, 17; Luc. V, 32). Questo è cosi vero che nostro Signore ostenterà, più tardi, con grande scandalo dei Farisei, di trovarsi in compagnia dei peccatori, di sedersi alla loro medesima tavola, e permetterà alla Maddalena di baciargli i piedi e di bagnarglieli di lacrime.
Se noi non abbiamo la purezza della Vergine Maria, domandiamo almeno l'umiltà della Maddalena, l'amore del pentimento e della penitenza. «O Cristo Gesù, io non sono degno che voi entriate in me; il mio cuore non sarà per voi un soggiorno di purezza perché la miseria vi ha sua dimora; ma questa miseria io la riconosco; la confesso; venite a liberarmene voi che siete la stessa misericordia e la stessa potenza!» Questa preghiera, in unione con lo spirito di penitenza, attira Gesù, perché l'umiltà che s'abbassa nel suo niente rende omaggio con ciò stesso alla bontà e alla potenza di Gesù. (cfr. Joan. VI, 37).
La considerazione della nostra infermità non deve dunque sgomentare il nostro coraggio: Dio ce ne guardi! Più sentiamo anzi la nostra debolezza, più dobbiamo aprire l'anima alla confidenza perché la salute non viene che da Cristo.
«Voi che avete il cuore turbato, prendete coraggio, non temete; ecco Dio, il nostro Dio che è per venire e che ci salverà» (Communio della 3a Domenica dell'Avvento; cf. Is. XXXV, 4). Osservate la confidenza dei Giudei nel Messia. Per essi, il Messia era tutto, riassumeva tutte le aspirazioni d'Israele, tutti i voti del popolo, tutte le speranze della nazione; il solo contemplarlo doveva placare ogni ambizione, l'assistere alla fondazione del suo regno doveva colmare tutti i desideri. I voti dei Giudei si facevano fiduciosi e impazienti: «Venite, Signore, non tardate»; (Alleluja della 4.a Domenica dell'Avvento) - «mostrateci solo la vostra faccia e avremo la salvezza!». (Ps. LXXIX, 4) Oh quanto più questo si verifica per noi che possediamo Cristo Gesù, vero Dio e vero uomo! Oh se ben comprendessimo che cos'è la santa umanità di Gesù, avremmo in essa una confidenza incrollabile; perché in essa risiedono tutti i tesori di sapienza e di scienza, in essa dimora la stessa divinità, e quest'Uomo-Dio che viene a noi è l'Emmanuel, «Dio con noi», è il nostro fratello maggiore. Il Verbo ha sposato la nostra natura, ha preso su di sé le nostre infermità per provare che cos'è il dolore; egli viene a noi per farci parte della sua vita divina e per darci tutte le grazie che noi possiamo sperare possedendone egli la pienezza.
Le promesse che, per la voce dei profeti, Dio faceva al suo popolo per eccitare il suo desiderio del Messia, sono magnifiche. Ma molti Giudei intendevano queste promesse in senso materiale e grossolano, d'un regno materiale e politico. I beni promessi ai giusti che aspettavano il Salvatore non erano che la figura delle ricchezze soprannaturali che noi troviamo nel Cristo. I più degli Israeliti vivevano di simboli terreni, mentre noi viviamo di una divina realtà, cioè a dire della grazia di Gesù. La liturgia dell'Avvento ci parla continuamente di misericordia, di redenzione, di salute, di liberazione, di luce, di abbondanza, di gioia, di pace. «Ecco che il Signore e per venire; nel giorno della sua nascita il mondo sarà inondato di luce (Antif. delle Laudi della 1.a Dom. dell'Avv.); esulta dunque di gioia, o Gerusalemme, poiché il tuo Salvatore è per venire» (Antif. delle Laudi della 3.a Dom. dell'Avv.), - «la pace riempirà la terra quando egli si mostrerà» (Resp. del Matt. della 3.a Dom. dell'Avv.). Tutte le benedizioni che possono colmare un'anima, Cristo le porta con sé (Rom. VIII, 32).
Abbandoniamo dunque i nostri cuori ad una assoluta confidenza in colui che deve venire. Credere che suo Figlio Gesù può tutto per la santificazione delle anime nostre è lo stesso che rendersi accettissimi al Padre perché questo vale lo stesso che proclamare essere Gesù eguale a lui e il Padre «tutto avergli donato». Questa confidenza non può essere delusa. Nella messa della prima domenica dell'Avvento, la Chiesa ce ne dà recisa assicurazione per ben tre volte: «Coloro che vi aspettano, Signore, non saranno confusi».
Questa fiducia si esprimerà specialmente in ardenti desideri di vedere il Cristo venire in noi per regnarvi sempre più: Adveniat regnum tuum!
Questi desideri ce li formula la liturgia. Nel medesimo tempo che essa mette sotto i nostri occhi e ci fa rileggere le profezie, specialmente quelle d'Isaia, la Chiesa mette sulle nostre labbra le aspirazioni e i sospiri degli antichi giusti. Essa vuole vederci preparati alla venuta di Cristo nelle anime nostre come Dio voleva che i Giudei fossero disposti a ricevere suo Figlio: «Inviate, Signore, colui che voi avete promesso (Gen. XLIX, 8). Venite, Signore, venite a rimettere i peccati del vostro popolo! (Alleluia della 4.a Dom. dell' Avv.) Signore, manifestate la vostra misericordia e fate apparire l'autore della nostra salute! (Offertorio della 2.a Dom. dell'Avv.). Venite a liberarci, Signore, Dio onnipotente! Eccitate la vostra potenza e venite!» (Preghiera della 4.a Dom. dell'Avv.).
La Chiesa incessantemente ci fa ripetere queste aspirazioni; facciamole nostre, appropriamocele con fede, e Gesù Cristo ci arricchirà di grazie.
Senza dubbio, voi lo sapete, Dio è padrone dei suoi doni; è sovranamente libero e nessuno gli può domandar conto delle sue preferenze, ma, ordinariamente, la sua Provvidenza è «attenta alle suppliche degli umili che le espongono i loro desideri» (Ps. IX, 17). Cristo si dona nella misura del desiderio che noi abbiamo di riceverlo; poiché: «i desideri accrescono la capacità dell'anima che li formula» (Ps. LXXX, 11).
Se vogliamo dunque che la celebrazione della Natività di Cristo procuri una grande gloria alla Santissima Trinità, che sia di conforto al cuore del Verbo Incarnato, e una sorgente di grazie abbondanti per la Chiesa e per noi, cerchiamo di purificare i nostri cuori, conserviamo un'umiltà piena di confidenza, e, sopra tutto, dilatiamo l'anime nostre con l'ampiezza e la veemenza dei nostri desideri.
Domandiamo anche alla Vergine Maria di farci partecipare ai sentimenti che l'animavano nei giorni benedetti che precedettero la nascita di Gesù.
La Chiesa ha voluto - (qual cosa d'altronde più giusta?) - che il suo pensiero riempisse la liturgia dell'Avvento; per cui incessantemente ci fa cantare la «divina fecondità di una Vergine, mirabile fecondità che riempie di stupore la natura» (Antif. Alma Redemptoris Mater).
Il seno verginale di Maria era un immacolato sacrario donde ella faceva salire il purissimo incenso della sua adorazione e dei suoi omaggi.
La vita interiore della Vergine, in quei giorni, era qualche cosa di ineffabile. - Ella viveva in intima unione col Figlio di Dio che portava nel seno. L'anima di Gesù era immersa, per la visione beatifica, nella luce divina: questa luce raggiava sulla madre, per cui, agli occhi degli angeli, Maria appariva come «la donna vestita di sole» (Apoc. XII, 1), tutta irradiata di celesti chiarezze, tutta scintillante dei raggi della luce del Figlio suo. Oh come i suoi sentimenti erano all'altezza della sua fede! Oh come essa riassumeva in se stessa (ma superandoli conferendo loro, con la purezza e l'intensità dei movimenti della sua anima, un valore non mai conosciuto), tutte le aspirazioni, tutti gli slanci, tutti i voti dell'umanità aspettante il suo Salvatore e il suo Dio!
Quale santo ardore nei suoi desideri! Quale incrollabile sicurezza nella sua confidenza! Quale intensità nel suo amore!
Essa è, questa Vergine umile, la regina dei patriarchi, poiché essa appartiene alla loro stirpe santa, e perché il fanciullo che essa deve mettere al mondo è il figlio che riassume nella sua persona tutta la magnificenza delle antiche promesse.
Essa è altresì la regina dei profeti, perché partorirà il Verbo di cui tutti i profeti parlavano, poiché suo Figlio adempirà ogni profezia e annunzierà egli stesso a tutti i popoli «la buona novella della redenzione» (Luc. IV, 19).
Chiediamole umilmente di farci partecipare alle sue disposizioni. Ella esaudirà la nostra preghiera; e noi avremo la gioia immensa di vedere Cristo nascere di nuovo nei nostri cuori con la comunicazione di una grazia più abbondante, e noi potremo, come la Vergine, per quanto in più tenue misura, gustare la verità di queste parole di San Giovanni: «Il Verbo era Dio... E il Verbo si è fatto carne ed ha abitato tra noi; noi l'abbiamo visto pieno di grazia e dalla sua pienezza noi tutti abbiamo attinto, grazia su grazia» (Joan. I. 14, 16).