7/Il mistero dell'Incarnazione si riduce a un mirabile scambio tra la divinità e l'umanità
La venuta del Figlio di Dio sulla terra è un avvenimento così capitale che Dio ha voluto prepararlo attraverso lunghi secoli; riti e sacrifici, figure e simboli, tutto facendo convergere verso Cristo; egli lo predice, lo preannuncia per bocca dei profeti che si susseguono di generazione in generazione.
Ecco ora il Figlio stesso di Dio che viene a istruirci (Hebr. I, 1-2). Cristo infatti non è nato soltanto per i Giudei che vivevano al tempo suo, ma per tutti noi, per tutti gli uomini è disceso dal cielo. Egli vuole distribuire a tutte le anime la grazia da lui meritata con la sua natività.
Per questo la Chiesa, guidata dallo Spirito Santo, si è appropriata per metterli sulle nostre labbra e colmarne il nostro cuore, i sospiri dei patriarchi, le aspirazioni degli antichi giusti, i voti del popolo eletto: vuole prepararci alla venuta di Cristo come se questa natività fosse per rinnovellarsi sotto i nostri occhi.
Così voi vedete, quando essa commemora la venuta del suo Sposo divino sulla terra, in qual modo dispiega lo splendore delle sue pompe, e la magnificenza delle sue luci per celebrare la nascita del «Principe della Pace», (Is. IX, 6) del Sole di giustizia, (Malach. IV, 2) che si alza «in mezzo alle nostre tenebre per illuminare ogni uomo» (Joan. l, 5, 9) che viene in questo mondo; essa concede ai suoi sacerdoti il privilegio, pressoché unico nell'anno, di offrire tre volte il sacrificio della Messa.
Queste feste sono magnifiche e piene veramente d'incanto: la Chiesa evoca il ricordo degli angeli che cantano, volando, la gloria del neonato; il ricordo dei pastori, anime semplici che vengono ad adorarlo nella grotta; il ricordo dei magi che accorrono dall'Oriente per rendergli le loro adorazioni e offrirgli ricchi doni.
Tuttavia, come ogni festa di questo mondo, anche questa solennità, anche col prolungamento della sua ottava, è una solennità effimera, e passa. E' dunque per una festa di un giorno, per quanto splendida possa essere, che la Chiesa esige da noi una preparazione così lunga? No, certamente! - E allora perché? Perché sa che la contemplazione di questo mistero contiene per le anime nostre una grazia di elezione.
Vi ho già detto nel dar principio a queste conferenze, che ogni mistero di Cristo non costituisce soltanto un fatto storico che si è realizzato nel tempo, ma contiene anche una grazia propria di cui le anime nostre debbono nutrirsi per vivere.
Ora qual è l'intima grazia del mistero della natività? Qual è questa grazia al ricevimento della quale la Chiesa ha tanta cura di disporci? Qual è il frutto che dobbiamo raccogliere dalla contemplazione di Cristo fanciullo?
La Chiesa stessa ce lo insegna nella prima messa di mezzanotte. Dopo aver offerto il pane e il vino che, di lì a pochi istanti, saranno cambiati dalla consacrazione nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo, riassume i suoi voti in questa preghiera: «Degnatevi accettare, Signore, l'offerta che noi vi presentiamo nella solennità di questo giorno e fate, colla vostra grazia, che per mezzo di questi sacrosanti commerci, noi diveniamo partecipi di quella divinità alla quale, per mezzo del Verbo, è unita la nostra sostanza» (Secreta della messa di mezzanotte). Noi insomma domandiamo di prender parte a quella divinità alla quale è unita la nostra umana natura.
Questo pensiero, così conciso nella forma, è espresso più esplicitamente nel medesimo luogo della seconda messa: «Fate, Signore, che le nostre offerte siano conformi ai misteri della natività che oggi celebriamo, affinché, come il Figlio che oggi sta per nascere nella natura umana si manifesta ugualmente Dio, così questa sostanza terrestre (che egli si unisce) ci comunichi ciò che è divino in lui» (Secreta della messa dell'aurora).
Divenire partecipi della divinità alla quale è unita la nostra umanità nella persona del Verbo, e ricevere questo dono divino per mezzo di questa stessa umanità, tale è la grazia annessa alla celebrazione del mistero di questo giorno.
Voi lo vedete: è veramente un commercio umano-divino: il bambino che oggi nasce è nello stesso tempo Dio, e la natura umana che Dio assume da noi gli deve servire di strumento per comunicarci la sua divinità. Le nostre offerte saranno «conformi ai misteri significati dalla nascita di questo giorno» se, per mezzo della contemplazione dell'opera divina a Bethlehem e ricevendo il sacramento eucaristico, noi veniamo a partecipare alla vita eterna che Cristo vuole comunicarci con la sua umanità.
«O mirabile commercio, canteremo noi nel giorno dell'ottava, il Creatore del genere umano, assumendo un corpo e un'anima, si è degnato nascere da una vergine, e, comparendo quaggiù come uomo, ci ha fatto parte della sua divinità» (Antifona dell'Ottava di Natale).
Fermiamoci un poco ad ammirare, con la Chiesa, questo commercio: tra la creatura e il Creatore, tra il cielo e la terra, commercio che costituisce il substrato della natività. Vediamo quali ne sono gli atti e la materia e sotto qual forma si adempie per vedere in seguito quali frutti ne derivino per noi e quali impegni veniamo a contrarre.
I. Primo atto dello scambio: Il Verbo eterno ci domanda una natura umana per unirsela in unione personale: Creator... animatum corpus sumens.
Trasferiamoci alla grotta di Bethlehem e contempliamo il fanciullo adagiato nella mangiatoia. Che cosa sarebbe agli occhi di un profano, di un abitante della piccola città che il caso conducesse là, dopo la nascita di Gesù? Non sarebbe altro che un bambino appena nato, che ha avuto l'esistenza da una donna di Nazareth; un figlio di Adamo come noi, perché i suoi genitori si sono fatti iscrivere sui registri del censimento; ed è possibile seguire i particolari della sua genealogia da Abramo a David, da David a Giuseppe e alla madre sua. Ma non è che un uomo, o meglio diventerà un uomo, perché ora non è che un bambino, un debole bambino, a cui un po' di latte conserva la vita.
Ecco quello che appare ai sensi questo piccolo essere, steso sulla paglia. Molti Giudei infatti non hanno visto altra cosa. Voi ascolterete più tardi i suoi compatriotti, stupiti della sua Sapienza, domandarsi dove l'ha potuta attingere; poiché ai loro occhi, non è mai stato altro che «il figlio del fabbro»! (Matth. XIII, 55; cf. Marc. VI, 3; Luc. IV, 22).
Se non che agli occhi della fede, una vita molto più alta della vita umana, anima questo bambino: egli possiede la vita divina. Che ci dice infatti la fede su questo punto? Quale rivelazione ci fa? La fede ci dice, con una sola parola, che questo fanciullo è il Figlio di Dio. Il Verbo, la seconda persona dell'adorabile Trinità, è il Figlio che riceve da suo Padre la vita divina per una comunicazione ineffabile (Joan. V, 26). Egli possiede la natura divina con tutte le sue perfezioni infinite. Negli splendori dei cieli (Ps. CIX. 3), Dio genera questo Figlio con una eterna generazione. A questa figliazione divina di Cristo nel seno del Padre s'indirizza prima di tutto la nostra adorazione; è proprio questo che noi esaltiamo nella messa di mezzanotte. All'alba il santo sacrificio celebrerà la natività di Cristo secondo la carne, la sua nascita, a Bethlehem, dalla Vergine Maria; infine la terza messa onorerà la venuta di Cristo nelle anime nostre. La messa della notte, tutta avviluppata di mistero, comincia con queste parole piene di gravità (Introito alla messa di mezzanotte). E' questo il grido che prorompe dall'anima di Cristo unita alla persona del Verbo e che rivela alla terra per la prima volta ciò che ascoltano i cieli da tutta l'eternità: «Il Signore m'ha detto: Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato». Quest'«oggi» non è altro che il giorno dell'eternità, giorno senza aurora e senza tramonto.
Il Padre celeste contempla ora suo Figlio incarnato. Il Verbo, per essersi fatto uomo, non resta meno Dio, ma, pur divenuto Figlio dell'uomo, rimane Figlio di Dio. Il primo sguardo che si affissa sul Cristo, il primo amore onde esso è fatto segno è lo sguardo e l'amore del Padre suo (Joan. XV, 9). Quale contemplazione e quale amore! Cristo è il Figlio unico del Padre ed è in questo la sua gloria essenziale; egli è eguale e «consostanziale al Padre, Dio da Dio, luce da luce». «Per lui tutte le cose sono state fatte e niente è stato fatto senza di lui». «Per mezzo di lui i secoli sono stati creati; egli conserva ogni cosa con la potenza della sua parola. Egli fu che, da principio, creò la terra; i cieli sono il lavoro delle sue mani; questi invecchieranno come un vestito e saranno cambiati come si cambia un manto; ma egli è sempre lo stesso e gli anni suoi sono eterni» (Hebr. I, Epistola della messa del giorno).
E questo Verbo s'è fatto carne. Adoriamo questo Verbo incarnato per noi (Invit. del Mattutino di Natale). Un Dio assume da noi l'umanità: concepito per l'operazione misteriosa dello Spirito Santo nel seno di Maria, Cristo è generato con la più pura sostanza del sangue della Vergine per cui la vita che riceve da lei lo rende simile a noi.
Ecco che cosa ci dice la fede: questo fanciullo è il Verbo di Dio incarnato: è il Creatore del genere umano divenuto uomo. Se gli bisogna un po' di latte per nutrirsi, tuttavia la sua mano è quella che fornisce l'alimento agli uccelli (Inno delle Laudi di Natale).
Contemplate questo bambino adagiato nella grotta: con gli occhi chiusi, egli dorme e non manifesta affatto al di fuori quello che è; apparentemente, egli somiglia a tutti gli altri bambini; e tuttavia anche in questo momento, in quanto Dio, in quanto Verbo eterno, egli giudicava le anime che gli comparivano davanti. «Come uomo egli è adagiato sulla paglia; come Dio sostiene l'universo e regna nei cieli» (XII responso del Mattutino della Domenica dell'Ottava di Natale). Questo bambino che comincia a crescere (Luc. II, 40, 52), è colui che è eterno e la cui natura divina non conosce mutazioni. Colui che è nato nel tempo è colui che è prima di tutti i tempi, colui che si manifesta ai pastori di Bethlehem è colui che dal niente ha creato le nazioni «che dinanzi a lui sono come se non fossero» (Is. 40, 17)
Palamque fit pastoribus - Pastor creator omnium. (Inno delle Laudi di Natale)
Così, voi lo vedete, agli occhi della fede vi sono due vite in questo fanciullo; due vite indissolubilmente unite in una maniera ineffabile, perché la natura umana appartiene al Verbo con tale legame che non vi è che una sola persona, quella del Verbo, che sostiene, con la sua propria esistenza divina, la natura umana. Indubbiamente questa natura umana è perfetta: perfectus homo, (Simbolo attribuito a S. Atanasio) poiché niente di quanto spetta all'essenza le manca. Questo fanciullo ha un'anima come la nostra; un corpo simile al nostro; delle facoltà: intelligenza, volontà, immaginazione, sensibilità, come le nostre; è egli insomma uno dei nostri la cui esistenza per trentatré anni si rivelerà autenticamente umana. Soltanto il peccato gli sarà sconosciuto (Hebr. II, 17; Ibid. IV, 15). Perfetta, in se stessa, questa natura umana conserverà la sua propria attività, il suo splendore nativo. Tra queste due vite di Cristo, la divina ch'egli sempre possiede per la sua nascita eterna nel seno del Padre; e l'umana che egli ha cominciato a possedere nel tempo con la sua incarnazione nel seno di una Vergine, non vi è né mescolanza né confusione.
Il Verbo, divenendo uomo, resta quello che è; ciò che non era lo assume dalla nostra schiatta; ma il divino in lui non assorbe l'umano e l'umano non diminuisce il divino. L'unione è tale che non vi è, come è stato già detto, che una sola persona la persona divina e che la natura umana appartiene al Verbo ed è l'umanità propria del Verbo (Cfr. Antifona delle Laudi dell'Ottava di Natale).
II. Secondo atto di questo scambio: incarnandosi, il Verbo ci porta, in cambio, una partecipazione alla sua divinità: Largitus est nobis suam deitatem.
Ecco dunque, se posso così esprimermi, uno degli atti di questo commercio: Dio assume la nostra natura per unirsela in una unione personale. E l'altro atto qual è? Che casa ci offre Dio in cambio? Siccome egli fa ogni cosa con sapienza, certamente non ha potuto assumere la nostra natura senza un motivo perfettamente degno di sé. Ciò che in cambio il Verbo Incarnato offre all'umanità, è un dono ineffabile; è una partecipazione reale ed intima alla sua natura divina: Largitus est nobis suam deitatem (Piccolo Off. della B. M. V., l Ant. alle Lodi). In cambio dell'umanità che assume da noi il Verbo Incarnato ci costituisce partecipi della sua divinità. Si compie il commercio più mirabile che lingua umana possa mai celebrare.
Senza dubbio, come sapete questa partecipazione era già stata offerta e concessa, fin dalla creazione, ad Adamo, e il dono della grazia, con tutto lo splendido corteo dei suoi privilegi, lo rendeva simile a Dio. Se non che il peccato del primo uomo, capo del genere umano, distrusse e rese impossibile da parte della creatura questa inaudita partecipazione.
Per ristabilirla il Verbo si è incarnato, per riaprirci la via del cielo e farci parte dell'eterna vita Dio s'è fatto uomo. Perché questo Figlio, essendo il vero Figlio di Dio, è in possesso della vita divina allo stesso modo del Padre e insieme con lui; in questo Figlio abita «la pienezza della divinità» (Col. II, 9) e «tutti i tesori di questa sono accumulati in lui» (Cf. ibid. 3). Ma egli non possiede solo per sé: egli desidera infinitamente di comunicarci la vita divina in suo possesso: Ego sum vita, (Joan. XIV, 6) e per questo è venuto: Ego veni UT vitam habeant (Ibid. X, 10) Sì, è per noi che un pargolo è nato e che un figlio ci è stato largito: Puer natus est nobis et filius datus est NOBIS. (Introito della messa del giorno). Facendoci partecipare alla sua qualità di Figlio, ci renderà figli di Dio. «Quando la pienezza dei tempi è venuta, Dio ci ha inviato suo Figlio, formato da una donna, per poterci conferire l'adozione divina» (Galat. IV, 4-5). Ciò che Cristo è per natura, cioè Figlio di Dio, noi lo diventiamo per grazia, ed il Verbo Incarnato, Figlio di Dio fatto uomo, sarà l'artefice di questa divina generazione: Natus hodie Salvator mundi, DIVINAE NOBIS GENERATIONIS EST AUCTOR (Postcommunio della messa del giorno di Natale). Sebbene sia il Figlio unico, diventerà il primogenito di una moltitudine di fratelli: Ut sit IPSE PRIMOGENITUS in multis fratribus (Rom. VIII, 29).
Tali sono i due atti del mirabile commercio che Dio realizza tra noi e se stesso: egli assume la nostra natura per comunicarci la sua divinità, assume una natura umana per farci partecipi della sua vita divina, si fa uomo per far ci iddii: Factus est Deus homo ut homo fieret Deus, (Sermone di S. Agostino) per cui la sua nascita diventa il mezzo della nostra nascita alla vita divina. Anche in noi vi saranno ormai due vite: una naturale che abbiamo dalla nascita secondo la carne, e che agli occhi di Dio, in seguito alla colpa originale, è non solo senza merito, ma anche, prima del battesimo, contaminata; per cui siamo nemici di Dio e meritevoli della sua giustizia, nascendo noi filii irae; (Eph. II, 3) l'altra soprannaturale, infinitamente al di sopra dei diritti e delle esigenze della nostra natura. E' quella che Dio ci comunica con la sua grazia, segno che il Verbo Incarnato ce l'ha meritata.
Dio ci genera a questa vita col suo Verbo e con il suo Spirito nel fonte battesimale (Jac. I, 18). Per lavacrum regenerationis et renovationis Spiritus Sancti, (Tit. III, 5), per cui una vita novella si sovraggiunge, superandola e coronandola, alla vita naturale (II Cor. V, 17; Galat. VI, 15). Essa ci rende figli di Dio, fratelli di Gesù Cristo, degni di partecipare un giorno alla sua beatitudine e alla sua gloria. Di queste due vite, in noi come nel Cristo, è sempre la vita divina che deve dominare per quanto in Cristo fanciullo non ancora si manifesti e per quanto essa rimanga in noi velata ognora sotto le apparenze grossolane della vita ordinaria. E' sempre la vita divina della grazia che deve reggere e governare e anche rendere accetta al Signore tutta la nostra attività naturale divinizzata così dalle sue radici.
Oh se la contemplazione della nascita di Gesù e la partecipazione a questo mistero che avviene nel ricevere il pane di vita, ci spingessero a finirla una buona volta con tutto ciò che distrugge o sminuisce in noi la vita divina, a farla finita col peccato da cui Cristo viene a liberarci; (Postcommunio della messa dell'aurora) a farla una buona volta finita con tutte le infedeltà, con tutte le imperfezioni e tutti gli attaccamenti alle creature e con le preoccupazioni eccessive delle cose che passano, (Tit. II, 12. Epistola della messa di mezzanotte) e con tutte le altre meschine preoccupazioni del nostro vano amor proprio!...
Se queste riflessioni ci spronassero a darci a Dio interamente, come l'abbiamo promesso nel giorno del Battesimo, quando nascemmo alla vita divina, se ci spronassero ad abbandonarci interamente alla sua volontà come faceva il Verbo Incarnato venendo in questo mondo (Hebr. X. 7); ad abbondare in quelle opere buone che ci rendano accetti a Dio (Tit. II. 14), allora la vita divina portata da Cristo con la sua nascita non incontrerebbe più ostacoli e si svolgerebbe liberamente per la gloria del nostro Padre dei cieli; allora «faremmo risplendere nella nostra condotta gli insegnamenti di cui la luce novella del Verbo Incarnato inonda la nostra fede» (Orazione della messa dell'aurora), «allora con tutte le nostre opere nate dalla grazia, la nostra celebrazione della natività di Cristo risponderebbe degnamente alla grandezza del mistero e al dono ineffabile che ci viene fatto con esso» (Secreta della messa dell'aurora).
III. Questo scambio ci appare più ammirabile ancora per la maniera con cui si produce. L'Incarnazione rende Dio visibile perché noi possiamo ascoltarlo e imitarlo.
Se non che ciò che mette il colmo alle meraviglie di questo commercio è il modo con cui si realizza la forma nella quale si effettua. Come si compie? Come questo fanciullo, che è il Verbo Incarnato, ci rende partecipi della sua vita divina? Con la sua umanità. L'umanità che il Verbo assume da noi gli serve di strumento per comunicarci la sua divinità: e questo per una duplice ragione in cui risplende infinitamente l'eterna sapienza; l'umanità rende Dio visibile; essa rende Dio passibile.
Essa lo rende visibile.
La Chiesa canta con compiacenza, prendendo le parole in imprestito da S. Paolo, questa «apparizione» di Dio per noi. (Tit. II, 11. Epistola della messa di mezzanotte) «la grazia di Dio nostro Salvatore è apparsa agli uomini tutti»: (Tit. III, 4. Epistola della messa dell'aurora) «la benignità e l'umanità di Dio Salvatore nostro sono apparse» (Introito della messa dell'aurora). «La luce risplenderà oggi su noi perché ci è nato il Signore; «Il Verbo si è fatto carne ed ha abitato tra noi».
L'Incarnazione realizza questa meraviglia inaudita: gli uomini hanno visto Dio stesso vivere in mezzo a loro.
Anche S. Giovanni si compiace di mettere in evidenza questo lato del mistero: «Il Verbo di vita era prima di tutte le cose; noi l'abbiamo inteso, noi l'abbiamo visto coi nostri occhi, noi l'abbiamo contemplato e le nostre mani l'hanno toccato. Colui il quale nel seno del Padre è la stessa vita si è manifestato a noi e noi gli rendiamo testimonianza. E noi vi annunziamo ciò che abbiamo visto ed inteso affinché la vostra gioia sia piena» (Joan. I, 1-4).
Quale gioia di fatti, vedere Iddio che si manifesta a noi, non nella gloria smagliante della sua onnipotenza, e neppure nella gloria ineffabile della sua sovranità; ma sotto il velo di un'umile umanità, di una umanità povera e debole che noi potremo vedere e toccare!
Noi avremmo potuto rimanere spaventati dalla terribile maestà di Dio: gli Israeliti si prostravano nella polvere, pieni di timore e terrore quando Dio parlava a Mosè sul Sinai, nel folto dei lampi. Noi invece, siamo attirati dagli incanti di un Dio divenuto fanciullo. Il bimbo della mangiatoia sembra direi: «Come? voi avete paura di Dio? Avete torto!» (Joan. XIV, 9). Non andate dietro alla vostra immaginazione, non vogliate costruirvi un Dio con le deduzioni della filosofia né domandare alla scienza di farvi conoscere le mie perfezioni. Il vero Dio onnipotente è Iddio che io rivelo e che io sono; il vero Dio sono io che vengo a voi nella povertà, nell'umiltà dell'infanzia, ma che darò un giorno per voi la mia vita. Io sono «lo splendore della gloria dell'eterno Padre, la forma della sua sostanza» (Hebr. I, 3), il suo Figlio unico, Dio come lui; in me voi imparerete a conoscere le sue perfezioni, la sua sapienza e la sua bontà, il suo amore verso gli uomini e la sua misericordia pei peccatori (II Cor IV, 6). «Venite a me, perché, per quanto sia Dio, ho voluto tuttavia essere uomo come voi e non respingo coloro che si avvicinano a me con fiducia».
Mi domanderete: «Ma perché Dio si è degnato di rendersi visibile?».
Innanzi tutto per istruirci.
E' Dio che ormai ci parlerà per mezzo del proprio Figlio (Hebr. I, 2), per cui non avremo, che da ascoltare questo Figlio diletto per sapere quello che Dio vuole da noi. Lo stesso eterno Padre ce lo dice (Matth. XVII, 5), e Gesù ci dirà più volte che la sua dottrina è quella stessa del Padre suo (Joan. VII, 16). Inoltre il Verbo si rende visibile ai nostri occhi per diventare il nostro modello.
Non avremo da far altro che guardar crescere questo fanciullo, guardarlo vivere in mezzo a noi e come noi, come uomo, per conoscere come noi dobbiamo vivere dinanzi a Dio, da figli di Dio: poiché tutto ciò che farà sarà accetto a suo Padre (Ibid. VIII, 29).
E' la verità coi suoi insegnamenti, e ci indicherà la strada con i suoi esempi; se viviamo nella sua luce e camminiamo per questa via avremo la vita (Ibid. XIV, 6). In questo modo, conoscendo Dio che si è manifestato tra noi, siamo trascinati verso i beni invisibili (Prefazio di Natale).
IV. Essa rende Dio passibile, capace di espiare i nostri peccati con le sue sofferenze e di guarirci con i suoi abbassamenti.
L'umanità di Cristo rende Iddio visibile; ma soprattutto, e in ciò la divina sapienza si palesa «ammirabile», lo rende passibile.
Il peccato che ha distrutto la vita divina in noi esigeva una soddisfazione, una espiazione, senza la quale era impossibile che la vita divina ci fosse restituita. Semplice creatura, l'uomo non poteva dare questa soddisfazione per una offesa di malizia infinita; e, d'altra parte, la divinità non può né soffrire né espiare. Dio non può comunicarci la sua vita se non quando sia cancellato il peccato e per un decreto immutabile dell'eterna sapienza il peccato non può essere cancellato se non viene espiato in un modo adeguato. Come si può risolvere questo problema?
L'Incarnazione ce ne dà la soluzione. Considerate il fanciullo di Bethlehem: è il Verbo fatto carne. L'umanità che il Verbo fa sua è palpabile ed essa soffrirà ed espierà. Queste sofferenze, queste espiazioni che sono opere sue e ben sue, apparterranno nondimeno, come tutta l'umanità, al Verbo per cui esse assumeranno dalla persona divina un valore infinito che basterà a riscattare il mondo, a distruggere il peccato e a far sovrabbondare la grazia nelle anime come un fiume impetuoso e fecondo (Ps. LXV, 5). O mirabile commercio! Non fermiamoci a indagare come Dio ha potuto compierlo, osserviamo invece in quale maniera l'abbia realizzato. Il Verbo ci domanda una natura umana per trovare in essa di che soffrire, espiare e meritare e di che arricchire noi stessi. Come per la carne l'uomo si è allontanato da Dio, così, facendosi carne, Dio libera l'uomo:
Beatus auctor saeculi - Servile corpus induit - Ut carne carnem liberans - Ne perderet quos condidit. (Inno delle Laudi di Natale) .
La carne che il Verbo di Dio assume diverrà per ogni carne lo strumento della salute. O ammirabile commercio!
Voi non ignorate che occorrerà aspettare l'immolazione del Calvario perché l'espiazione sia completa; ma, come ci ha insegnato S. Paolo, «è dal primo istante della sua Incarnazione che Cristo ha accettato di adempiere la volontà di suo Padre e di offrirsi vittima per il genere umano» (Hebr. X, 5, 7; cf. Ps. XXXIX, 8). «E' con questa offerta che Cristo comincia a santificarci» (Hebr. X, 10), è alla mangiatoia della grotta che inaugura quella esistenza di dolore che ha voluto vivere per la nostra salute e il cui termine è il Golgota e che deve, distruggendo il peccato, renderci l'amicizia del Padre suo. La mangiatoia non è che la prima tappa, ma contiene in germe tutte le altre. Ecco perché, nella solennità del Natale, la Chiesa attribuisce la nostra salute alla stessa nascita temporale del Figlio di Dio. «O Signore, che la nuova nascita del Figlio vostro secondo la carne possa liberarci dall'antica servitù che ci teneva prigionieri sotto il giogo del peccato» (Cfr. Orazione della messa del giorno). Ecco perché, fin da questo momento, si parlerà costantemente «di liberazione, di redenzione, di salvezza, di vita eterna». E' per la sua umanità che Cristo pontefice e mediatore ci riconduce a Dio ed è a Bethlehem che ci appare in questa umanità.
Osservate come fin dalla sua nascita egli realizzi la sua missione. Che cos'è infatti che ci fa perdere la vita divina? L'orgoglio. Per aver creduto che sarebbero divenuti simili a Dio, conoscendo la scienza del bene e del male, Adamo ed Eva hanno perduto per sé e pei loro discendenti la divina amicizia. Cristo, il nuovo Adamo, ci riscatta, ci riconduce a Dio con l'umiltà della sua Incarnazione. «Sebbene fosse Dio, si è annichilito, assumendo la condizione di creatura e rendendosi simile agli uomini; e si è manifestato come uomo in tutto ciò che è apparso di lui» (Philip. II, 6-7). Quale umiliazione! Più tardi, è vero, la Chiesa esalterà fino al più alto dei cieli la sua gloria sfolgorante di trionfatore del peccato e della morte, ma per ora Cristo non conosce che abbassamento e debolezza.
Quando i nostri sguardi si posano su questo piccolo fanciullo che in nessuna cosa si distingue dagli altri e riflettiamo nel medesimo tempo che è Dio, Dio infinito, in cui si nascondono tutti i tesori della sapienza e della scienza, ci sentiamo penetrare l'anima di commozione mentre il nostro orgoglio resta profondamente confuso davanti a tale abbassamento. Che cosa ci ha rovinati? Il nostro rifiuto di ubbidire. E se il Figlio di Dio ci dà l'esempio di una obbedienza ammirabile, abbandonandosi nelle mani dei genitori con la semplicità dei piccoli bimbi, lasciandosi toccare, prendere e portare come si vuole, e tutta la sua infanzia, tutta la sua adolescenza e tutta la sua giovinezza è riassunta dal Vangelo in queste sole parole: «Egli era sottomesso a Maria ed a Giuseppe» (Luc. II, 51).
Che cosa ancora ci ha rovinati? Le nostre cupidigie: «la concupiscenza degli occhi» (I Joan. II, 16), tutto ciò che appare, risplende, affascina e seduce; la vanità profonda degli effimeri oggetti che preferiamo a Dio. Il Verbo si è fatto carne; ma è nato nella povertà e nell'abiezione (II Cor VIII, 9). «Cristo si è fatto povero da ricco che era. Sebbene sia il re dei secoli» (I Tim I, 17), e colui che dal niente ha creato ogni cosa e non abbia che da «aprire la mano per colmare di benedizioni ogni essere vivente» (Ps. CXLIV, 16), tuttavia non è nato in un palazzo; sua madre, non avendo potuto trovar posto all'albergo, ha dovuto recarsi in una grotta: il Figlio di Dio, sapienza eterna, ha voluto nascere nella nudità e dormire sulla paglia.
Se contempliamo con fede e amore il fanciullo Gesù nella sua culla, constateremo in lui l'esempio divino di molte virtù, e se sapremo porger l'orecchio del cuore a ciò che ci dice, impareremo molte cose, e se passiamo in rassegna i particolari della sua nascita vedremo come l'umanità serva al Verbo di strumento, non solo per istruirci, ma anche per rialzarci, vivificarci, renderci accetti a suo Padre, staccarci dalle cose che passano, da noi stessi, per innalzarci fino a lui. «La divinità riveste la nostra carne mortale; e per il fatto stesso che Dio si abbassa a vivere una vita umana, l'uomo viene ad essere innalzato verso le cose divine» (S. Greg. Homil. I in Evang.).
V. Noi dobbiamo prender parte a questo commercio con la fede: «Coloro che hanno ricevuto il Verbo fatto carne, credendo in lui, hanno il potere di divenire figli di Dio.
Da qualsiasi parte noi esaminiamo con lo sguardo della fede questo commercio, quali che siano i particolari che formano l'oggetto del nostro studio, tale commercio ci appare mirabile.
Non è infatti mirabile questa nascita da una vergine? (Antifona dell'Ottava di Natale) «Una giovane madre ha generato il Re il cui nome è eterno: all'onore della verginità unisce le gioie della maternità; prima di lei non si era mai visto questo prodigio, e dopo di lei non si avrà mai nulla di somigliante» (Antifona delle Laudi di Natale). «Figlie di Gerusalemme, perché mi ammirate? Questo mistero che vedete in me è veramente divino» (Antifona della festa dell'Expectatio partus virginis, 18 dicembre).
Mirabile questa unione indissolubile, ma senza confusione della divinità con l'umanità nell'unica persona del Verbo. Mirabile questo commercio per i contrasti della sua realizzazione: Dio ci rende partecipi della sua divinità, ma l'umanità che assume da noi è una umanità sofferente «che conoscerà il dolore», (Cf. Is. LIII, 2) che subirà la morte e restituirà la vita. Mirabile questo commercio, nella sua sorgente, che non è altro che l'amore infinito di Dio per noi (Joan. III, 16). «Dio ha amato il mondo a tal punto da dargli il suo Figlio unigenito». Abbandoniamo dunque l'anima nostra alla gioia e cantiamo colla Chiesa: Parvulus natus est nobis et filius DATUS est NOBIS. In qual modo? «Nella somiglianza della carne del peccato». E' per questo che l'amore che ce lo offre così nella nostra umanità passibile, per espiare il peccato, è un amore incommensurabile (Antifona dell'Ottava di Natale).
Mirabile infine nei suoi frutti e nei suoi effetti. Per questo commercio, Dio ci rende la sua amicizia, ci rende il diritto di rientrare nel possesso dell'eterna eredità per cui viene di nuovo a guardare l'umanità con amore e compiacenza.
Così la gioia è tra i sentimenti più notevoli della celebrazione di questo mistero. La Chiesa ci invita continuamente a questa gioia, memore com'è delle parole dell'angelo ai pastori: «Ecco che vi dò una notizia che sarà per voi sorgente di grande gioia: vi è nato un Salvatore» (Luc. II, 10-11). E' la gioia della liberazione, dell'eredità riconquistata, della pace ritrovata e, sopratutto, della visione di Dio stesso concessa agli uomini (Is. VII, 14; cf. Matth. I, 23). Se non che questa gioia non ci sarà assicurata se non perseveriamo fermi nella grazia che ci viene dal Salvatore e rende noi suoi fratelli. «O cristiano», esclama S. Leone, in un sermone che la Chiesa legge nella santa notte, «riconosci la tua dignità. E reso partecipe della divinità guardati bene dal decadere da uno stato così sublime!» (Sermo I de Nativitate). «Se voi conosceste il dono di Dio» (Joan. IV, 10), diceva nostro Signore stesso, «se voi sapeste chi è questo Figlio che vi è donato!». Se sopratutto lo ricevessimo come dobbiamo riceverlo! Oh che non possa mai dirsi di noi (Vangelo della messa del giorno): «E' venuto nel suo regno e i suoi non l'hanno ricevuto!». Siamo tutti, per creazione, il dominio di Dio; noi gli apparteniamo; ma vi sono di quelli che non l'hanno ricevuto sulla terra. Quanti giudei, quanti pagani hanno rigettato il Cristo per essere apparso nell'umiltà di una carne passibile! Anime sprofondate nelle tenebre dell'orgoglio e dei sensi. E in qual modo dobbiamo riceverlo? Con la fede. E' proprio a coloro che credendo nella sua persona, nella sua parola, nelle sue opere hanno ricevuto questo fanciullo come Dio, che è stato concesso in cambio di divenire essi stessi figli di Dio.
Tale è, di fatti, la disposizione fondamentale che dobbiamo avere perché questo mirabile commercio produca i suoi frutti. Soltanto la fede ce ne fa conoscere i termini e il modo con cui può realizzarsi, soltanto la fede ci fa penetrare nelle profondità di questo mistero, soltanto essa ce ne fornisce una conoscenza veramente degna di Dio. Poiché vi sono vari modi e gradi di conoscenza. «Il bue e l'asino hanno conosciuto il loro Dio», scriveva Isaia (Cf. Is. I, 3), parlando di questo mistero. Essi vedevano il bambino adagiato nel presepio. Ma che cosa vedevano essi? Ciò che può vedere un animale: la forma, la grandezza, il colore, il movimento, conoscenza meramente materiale e rudimentale che non trascende i limiti della sensazione. Niente più.
I passeggeri, i curiosi che si sono avvicinati alla grotta hanno visto il bambino, ma per essi era simile a tutti gli altri. Essi non sono andati di là di questa conoscenza puramente materiale. Forse sono rimasti colpiti dalla bellezza del bimbo, forse hanno compianto la sua povertà. Ma questo sentimento non è durato e subito l'indifferenza ha prevalso. Vi sono dei pastori, cuori semplici, «illuminati da un raggio celeste» (Luc. II, 9). Essi hanno certamente compreso di più, hanno riconosciuto in questo fanciullo il promesso Messia, (Gen. XLIX, 10), gli hanno reso i loro omaggi e le loro anime per molto tempo sono state ricolme di gioia e di pace.
Gli angeli pure contemplavano il neonato Verbo Incarnato. Hanno visto in lui il loro Dio e questa conoscenza gettava quei puri spiriti nello stupore e nell'ammirazione di un abbassamento così incomprensibile: poiché egli non si è voluto unire alla loro natura (Hebr. II, 16).
E che cosa diremo della Vergine, quando contemplava Gesù? A quale profondità del mistero arrivava il suo sguardo puro, umile, tenero e così pieno di compiacenza? Certo non si saprebbe dire di quale bene l'anima di Gesù inondasse allora sua madre e quali sublimi adorazioni, quali omaggi perfetti Maria rendesse a suo Figlio, al suo Dio, a tutti i misteri di cui l'Incarnazione è il sustrato e il principio.
Vi è infine, ma questo è inesprimibile, lo sguardo del Padre che contempla suo Figlio, fatto carne per gli uomini. Il Padre celeste vedeva ciò che mai né uomo, né angelo, né Maria stessa comprenderanno: le perfezioni infinite della divinità che si nascondevano in un fanciullo... E questa contemplazione era la sorgente di un rapimento ineffabile: «Tu sei mio Figlio, il mio Figlio diletto in cui ho posto tutte le mie compiacenze...» (Marc. I, 11; Luc. III, 22).
Quando contempliamo a Bethlehem il Verbo Incarnato, eleviamoci al di sopra dei sensi per non guardare che con gli occhi della fede. La fede ci fa partecipare quaggiù della conoscenza che le divine persone hanno l'una dell'altra. In questo non vi è nulla di esagerato. La grazia santificante ci rende effettivamente partecipi della natura divina: ma l'attività della natura divina consiste nella conoscenza e nell'amore che le persone divine hanno l'una dell'altra e l'una per l'altra per cui noi veniamo a partecipare di questa conoscenza. - E come la grazia santificante sbocciando nella gloria ci darà il diritto di contemplare Iddio qual è, così, sulla terra, nelle ombre della fede, la grazia ci consente di guardare le profondità dei misteri con gli occhi di Dio (Prefazio di Natale).
Se la nostra fede è viva e perfetta, non ci fermiamo alla scorza, alla superficie del mistero, ma ne raggiungiamo l'intimità per contemplarlo cogli occhi di Dio; noi passiamo attraverso l'umanità per penetrare fino alla divinità che l'umanità nasconde e rivela ad un tempo, e così vediamo i misteri divini nella luce divina.
E rapita, stupefatta per un abbassamento così prodigioso, l'anima vivificata dalla fede si prostra, si abbandona completamente per procacciare la gloria di un Dio che vela in questa maniera per amore della sua creatura, lo splendore nativo delle sue perfezioni insondabili. Essa lo adora, essa si dona, non ha pace finché essa stessa non abbia tutto dato in cambio per perfezionare il commercio ch'egli vuole stabilire con essa, finché essa non abbia sottoposta la sua attività e tutta se stessa a «questo Re pacifico che viene con tanta magnificenza» (Antifona dei Vespri di Natale) per salvarla, santificarla e, a così dire, deificarla.
Avviciniamoci dunque al bambino Gesù con fede grande. Noi avremmo voluto essere a Bethlehem per riceverlo. Ecco che la comunione ce lo offre con la stessa realtà per quanto i nostri sensi ve lo scorgano ancora meno. Nel tabernacolo come al presepio, vi è il medesimo Dio pieno di potenza, il medesimo Salvatore pieno di bontà.
Se lo vogliamo, il mirabile commercio perdura ancora, perché è sempre pel tramite della sua umanità che alla mensa eucaristica Cristo ci infonde la vita divina, è sempre mangiando la sua carne e bevendo il suo sangue e unendo ci alla sua umanità che attingiamo alla sorgente stessa della vita eterna (Joan. VI, 55).
Così ogni giorno, si continua e si rinsalda l'unione stabilita tra l'uomo e Dio nell'Incarnazione. Donandosi nella comunione, Cristo aumenta nell'anima generosa e fedele la vita della grazia (Secreta della 4a Domenica dopo Pasqua), la fa sviluppare più liberamente e con maggiore intensità e le «conferisce altresì il pegno di quella immortalità beata di cui la grazia è il germe e in cui lo stesso Dio si comunicherà a noi in tutta la pienezza e senza velo» (Postcommunio della messa del giorno). E sarà questo il coronamento, la consumazione magnifica e gloriosa del commercio inaugurato a Bethlehem nella povertà e negli abbassamenti del presepio.