15/La Chiesa chiama Santa la risurrezione di Gesù. Che cosa vuol dire?
Tutto il mistero di Cristo nel periodo della sua Passione può riassumersi in questa parola di S. Paolo (Philip. II, 8): «Egli si è umiliato, facendosi obbediente fino alla morte». Abbiamo veduto fino a qual punto Cristo si sia abbassato, come abbia toccato il fondo delle umiliazioni, come abbia scelta «la morte di un maledetto», come era stato scritto (Deut. XXI, 23; Galat. IIl, 13).
Se non che questi abissi d'ignominie e di dolori in cui Gesù si è voluto sprofondare erano parimenti abissi di amore e questo amore ci ha meritato la misericordia del Padre suo e tutte le grazie di salute e di benedizione. Se la parola «umiliazione» riassume il mistero della Passione, vi è una parola, dice similmente S. Paolo, che riepiloga per Cristo il mistero della sua risurrezione (Rom. VI, 10), «Egli vive per Iddio». Vivit: non vi è più ormai in lui che vita perfetta e gloriosa, senza infermità né prospettiva di morte (Ibid. 9), vita interamente dedicata a Dio e votata più che mai al Padre suo ed alla sua gloria.
Nelle sue litanie, la Chiesa applica denominazioni speciali ad alcuni dei misteri di Gesù. Cosi della sua risurrezione dice che è «santa». Che cosa vuol dire con questa parola? Non sono tutti santi i misteri di Gesù? Senza dubbio. Egli stesso è «il Santo per eccellenza»: Tu solus sanctus, noi cantiamo alla messa nell'inno del Gloria. E tutti i suoi misteri sono santi. «La sua nascita è santa» (Luc. I, 35) tutta la sua vita è santa; «egli ha sempre fatto quanto era gradito al Padre» (Joan. VIII, 29), né mai alcuna persona poté convincerlo di peccato (Cf. Joan. VIII, 46). Santa è la sua passione perché, sebbene muoia per i peccati degli uomini, santa tuttavia ed immacolata è la vittima e senza macchia l'agnello, ed è «santo, innocente, giusto, separato dai peccatori», (Hebr. VII, 26) il pontefice stesso che s'immola.
Perché dunque la risurrezione, a preferenza di tutti gli altri misteri, è dalla Chiesa chiamata santa? Perché sopratutto in questo mistero Gesù Cristo realizza le condizioni della santità; perché lo stesso mistero mette in particolare evidenza gli elementi che formalmente costituiscono la santità umana, la quale trova in Cristo e la sorgente e il modello; e finalmente perché se in tutta la sua vita Gesù Cristo è sempre la via (Joan. XIV, 6) e la luce, (Ibid. VIII, 12) dando sempre l'esempio di tutte le virtù compatibili con la sua divinità, sopratutto nella sua risurrezione è l'esemplare della santità.
Quali sono gli elementi costitutivi della santità? Questa può ridursi per noi a due elementi: l'allontanamento da ogni peccato, il distacco da ogni creatura; l'adesione totale e duratura a Dio. Ora ambedue questi caratteri s'incontrano specialmente nella risurrezione, come vedremo, e si incontrano a tale apogeo quale non si era visto prima che uscisse dalla tomba; sebbene Cristo sia sempre stato in tutta la vita il «santo» per eccellenza, tuttavia, sotto questo aspetto ci si rivela con sfolgorante chiarezza sopratutto nella sua risurrezione. Giustamente canta la Chiesa: Per sanctam resurrectionem tuam.
Contempliamo dunque questo mistero di Gesù che balza vivo e glorioso dal sepolcro. Vedremo come la risurrezione sia il mistero del trionfo della vita sulla morte, del celeste sul terrestre, del divino sull'umano e che realizza veramente, e in modo eminente, l'ideale di ogni santità.
I. Cristo risuscitato è esente da ogni infermità umana.
Che cosa era Gesù Cristo prima della sua risurrezione? Era Dio ed Uomo. Il Verbo stesso aveva assunta una natura appartenente a una razza peccatrice, e, quantunque questa umanità da lui assunta non abbia contratto il peccato, tuttavia è stata soggetta alle infermità corporee compatibili con la divinità e che in noi sono sovente conseguenza della colpa (Is. LIII, 4).
Guardate nostro Signore nella sua vita mortale. Nella grotta è un piccolo bimbo, debole, che ha bisogno del latte della madre sua per mantenersi la vita; più tardi provò la fatica e la stanchezza (Joan. IV, 6), una reale stanchezza che sentiva nelle sue membra; il sonno, perché un vero sonno chiuse tante volte le sue palpebre. Gli Apostoli dovettero svegliarlo quando la barca nella quale dormiva cominciò ad essere agitata dalle onde infuriate (Matth. VIII, 24-25; Marc. IV, 38; Luc. VIII, 23-24). Egli ha conosciuto pure la fame (Matth. IV, 2; Luc. IV, 2) la sete (Joan. XIX, 28); la sofferenza. Ha provato afflizioni interiori: nel giardino degli Ulivi, la paura, la noia, l'angoscia, la tristezza si abbatterono sull'anima sua (Matth. XXVI, 37-38; Marc. XIV, 33-34). Finalmente ha sostenuto la morte (Joan. XIX, 50).
Egli ha condivise le nostre debolezze, le nostre infermità, i nostri dolori; e soltanto il peccato e tutto ciò che è sorgente o conseguenza morale di esso è stato a lui sconosciuto (Hebr. 11,17; IV, 15).
Se non che dopo la risurrezione tutte queste infermità sono scomparse. Non si riscontra più in lui né sonno, né stanchezza, né infermità. Nostro Signore non prova più nulla di tutto questo, ed è separato ormai completamente da tutto quanto è debolezza. Il suo corpo non è più dunque reale? Certo, perché è il medesimo corpo che ha ricevuto da Maria e che ha sofferto la morte sulla croce. E osservate come Cristo ci tenga a manifestare il suo corpo per tale. La sera della sua risurrezione appare agli Apostoli. «Presi da stupore e da spavento essi credono di vedere uno spirito. Ma egli dice loro: Perché vi turbate e sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono ben io. Toccatemi e considerate che uno spirito non ha né carne né ossa come voi vedete che io ho. E mostrò loro le mani ed i piedi» (Luc. XXIV, 37-40). Tommaso era allora assente. Abbiamo visto il Signore, gli dicono al suo ritorno gli altri discepoli. Tommaso non vuol credere e resta scettico. Se non vedo, egli esclama, i fori dei chiodi nelle sue mani e se non metto il dito nel posto dei chiodi e la mano nel suo costato, non crederò. Otto giorni dopo Gesù appare loro di nuovo, e dopo aver loro augurata la pace dice a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e osserva le mie mani, appressa la tua mano e mettila nel mio costato e non esser più incredulo ma fedele» (Joan. XX, 24-27).
Gesù fa constatare personalmente agli Apostoli la realtà del suo corpo risuscitato. Ma questo corpo è ormai immune dalle infermità della terra, è un corpo agile che la materia non arresta, ed egli esce da una tomba scavata nella roccia il cui ingresso è chiuso da una pietra pesante e può presentarsi, a porte chiuse (Ibid. 26), nel luogo dove gli Apostoli erano raccolti. Se egli prende cibo con i suoi discepoli non lo fa perché abbia fame, ma perché intende con la sua misericordiosa condiscendenza confermare la realtà della sua risurrezione.
Questo corpo risuscitato è ormai immortale perché se è morto una volta (Rom. VI, 10), d'ora innanzi, dice S. Paolo, «Cristo risuscitato non muore più e la morte non ha più potere su lui»; il corpo di Cristo risuscitato non è più soggetto né alla morte né alle condizioni del tempo, ma è affrancato da ogni servitù e da ogni infermità già contratta nell'Incarnazione; è impassibile, spirituale, dotato di una vita soprannaturale, indipendente.
Questo è il primo elemento della santità in Cristo: la lontananza di tutto ciò che è morte, o terrestre o creatura, l'affrancamento da ogni debolezza, infermità e passibilità.
Nel giorno della sua risurrezione Gesù Cristo ha lasciato nella tomba i lenzuoli che sono il simbolo delle nostre infermità, delle nostre debolezze, delle nostre imperfezioni; esce trionfante dal sepolcro nella libertà più completa, animato da una vita intensa e perfetta che fa vibrare tutte le fibre del suo essere. In lui tutto ciò che è mortale è assorbito dalla Vita.
II. Meravigliosa pienezza della «Vita per Iddio» nel Cristo trionfante.
Indubbiamente vedremo il Cristo risuscitato toccare ancora la terra: l'amore per i suoi discepoli, la pietà della loro debolezza, lo spingeranno ancora a presentarsi ad essi, a parlare con essi e a sedere con loro a mensa; ma la sua vita è prima di tutto celeste: Vivit Deo.
Noi quasi nulla sappiamo di questa vita celeste di Gesù il giorno dopo la sua risurrezione, ma possiamo forse dubitare che non sia stata mirabile? Egli ha provato al Padre suo come l'amasse dando la sua vita per gli uomini; ora tutto è pagato, tutto è espiato, la giustizia soddisfatta non reclama più nulla, l'amicizia tra Dio e gli uomini è rinsaldata, è compiuta l'opera della redenzione. Se non che il culto di Gesù per il Padre suo continua più vivo e più completo che mai. Il Vangelo non ci dice nulla di questo omaggio di adorazione, di amore e di azioni di grazie che Cristo rendeva allora al Padre suo, ma S. Paolo tutto riassume dicendo: Vivit Deo, «egli vive per Iddio».
E' il secondo elemento della santità: l'adesione, l'appartenenza, la consacrazione a Dio.
Solo nel cielo sapremo con quale pienezza viveva Gesù per il Padre suo in quei santi giorni, ma è certo che visse con una perfezione che mandava in estasi gli angeli. Ora che la sua santa umanità è libera da ogni necessità, affrancata da ogni infermità o condizione terrestre, essa si consacra come non mai, alla gloria del Padre.
La vita di Cristo risuscitato diviene una sorgente infinita, di gloria per il Padre suo; non c'è più in lui nessuna debolezza; tutto in lui è luce, forza, bellezza e vita; tutto in lui canta un eterno cantico di lode.
Se l'uomo compendia in se stesso tutti i regni della creazione per riassumervi anche l'inno ai ogni creatura, come potremo farci un'idea del canto eterno che canta alla Trinità l'umanità di Cristo glorioso, pontefice supremo, vittorioso della morte?
Questo inno, espressione perfetta della vita divina che d'ora innanzi avvolge e penetra con tutta la sua potenza e tutto il suo splendore la natura umana di Gesù, è veramente ineffabile...
III. Il battesimo inizia in noi la grazia pasquale. Dottrina di S. Paolo. In qual modo il cristiano, col tenersi lontano da ogni peccato e col distacco da ogni creatura, deve imitare, in tutta la sua esistenza, la libertà spirituale di Cristo glorioso.
Tale la vita di Cristo risuscitato. E' il modello della nostra perché Cristo ha meritato per noi la grazia di vivere come lui per Iddio, e di associarci alla sua condizione di risuscitato.
Egli non ci ha meritato questo con la sua risurrezione, perché dal momento che Cristo ha reso l'ultimo respiro ha raggiunto l'ultimo termine della sua esistenza mortale e non può più meritare avendo ormai tutto conseguito per noi col suo sacrificio iniziato sì coll'Incarnazione e compiuto sulla croce. I suoi meriti però rimangono dopo la sua uscita gloriosa dalla tomba. Osservate come Gesù abbia voluto conservare le gloriose cicatrici delle sue piaghe per mostrarle al Padre suo in tutto il loro splendore come titoli alla comunicazione della sua grazia (Hebr. VII, 25).
Come sapete, noi partecipiamo fin dal battesimo a questa grazia della risurrezione. Lo afferma S. Paolo: «Per il battesimo siamo stati seppelliti con Cristo nella morte; perciò come Cristo è risuscitato per la potenza del Padre, così bisogna che camminiamo vivendo una nuova vita» (Rom. VI, 4).
L'acqua santa in cui fummo immersi nel battesimo è, secondo l'Apostolo, immagine del sepolcro, e uscendo da essa l'anima resta purificata di ogni colpa, di ogni sozzura, affrancata da ogni morte spirituale, e rivestita della grazia, principio di vita, al modo stesso che Cristo, uscendo dalla tomba, si è spogliato di ogni infermità per vivere una vita perfetta. Nella Chiesa primitiva il battesimo non era amministrato che nella notte pasquale o nella Pentecoste che chiude il periodo della santa Pasqua. Non capiremo quasi nulla della liturgia della settimana pasquale se non teniamo continuamente dinanzi ai nostri occhi il conferimento solenne che vi si faceva allora del battesimo. Noi dunque siamo risuscitati con Cristo e per Cristo che desidera infinitamente comunicarci la sua vita gloriosa. Che cosa è necessario per rispondere a questo divino desiderio e diventare simili a Gesù risuscitato? Bisogna che viviamo nello spirito del nostro battesimo. Bisogna che, rinunziando a tutto ciò che nella nostra vita è contaminato dal peccato, facciamo morire in noi «l'uomo vecchio» (Rom. VI, 6) e vi facciamo trionfare la grazia. Qui è tutta la santità: allontanarci dal peccato, dalle occasioni del peccato, dalle creature, da tutto ciò che è terrestre, per vivere in Dio, per Iddio, con la più grande pienezza e la maggiore stabilità possibile.
Quest'opera iniziatasi col battesimo continua durante la nostra esistenza terrena. Cristo non muore che una volta e ci ha reso possibile con ciò di morire a tutto quello che è peccato; ma noi dobbiamo «morire» ogni giorno perché conserviamo le radici del peccato e l'antico nemico lavora senza tregua per farle ripullulare. Distruggere in noi queste radici, guardarci da ogni infedeltà, da ogni creatura, amata per se medesima. eliminare dalle nostre azioni ogni movente non solo colpevole, ma anche meramente naturale, affrancarci da tutto ciò che è creato o terreno, tenere libero il cuore, in una spirituale libertà: ecco il primo elemento della nostra santità, quello stesso che Cristo ci mostra realizzato in lui in quella sovrana e mirabile indipendenza nella quale vive la sua umanità risuscitata. E' questo uno degli aspetti più notevoli della grazia pasquale.
S. Paolo l'ha messa in evidenza con parole quanto mai espressive. «Purificatevi del vecchio fermento, diceva, per diventare una nuova pasta. Da quando Gesù, nostro agnello pasquale, è stato immolato per noi, voi siete divenuti dei pani azimi. Solennizziamo pertanto la festa non col vecchio lievito, né col lievito della malizia e della malvagità, ma con gli azimi della verità e della purità» (I Cor V, 7-8). Questa viva esortazione dell'Apostolo costituisce l'epistola della messa di Pasqua. Essa sembrerà oscura a più d'un cristiano dei giorni nostri, eppure la Chiesa ha scelto tra tutti questo passo per riassumere la nostra condotta quando celebriamo il mistero della risurrezione. Perché questa scelta? Perché questo passo esprime con chiarezza non meno che con profondità il frutto che deve ricavare l'anima da questo mistero. Che significano dunque queste parole? Voi sapete che presso il popolo d'Israele, all'avvicinarsi della festa di Pasqua che agli Ebrei ricordava l'anniversario famoso del «passaggio dell'angelo sterminatore», (Pasqua significa passaggio. Cf. Exod XII, 26-27), vi era l'obbligo di far sparire dalle case ogni traccia di lievito; e il giorno della festa, dopo avere immolato l'agnello pasquale, lo si mangiava con dei pani azimi, cioè non fermentati (Ibid. XII, 8, 15).
Tutto ciò non era che «figura e simbolo» (I Cor. X, 6, 11) della vera Pasqua, della Pasqua cristiana. «Purificatevi di ogni vecchio lievito», «spogliatevi del vecchio uomo», (Eph. IV, 22; Col. III, 9) nato nel peccato, dalle sue cupidigie cui voi avete rinunziato con il battesimo; poiché in quel momento della rigenerazione battesimale avete partecipato alla morte di Cristo che faceva morire in voi il peccato; (Cf. Rom. VI, 2 seq) voi siete divenuti e dovete rimanere, per la grazia, una pasta nuova, cioè una «nuova creatura», (II Cor. V, 17) «un uomo nuovo», (Eph. IV, 24) sull'esempio di Cristo uscito glorioso dal sepolcro. Come i Giudei nel giorno di Pasqua si astenevano da ogni lievito per mangiare l'agnello pasquale, «anche voi, o cristiani, che volete prender parte al mistero della risurrezione e unirvi a Cristo, Agnello immolato e risuscitato per voi, non dovete più vivere nel peccato, ma guardarvi da tutti i cattivi desideri che sono come un lievito di malizia e di perversità» (Rom. VI, 12) e conservare in voi la grazia che vi farà vivere nella verità e nella sincerità della legge divina.
Ecco la dottrina che S. Paolo ci spiega il giorno stesso di Pasqua e che contrassegna il primo elemento della nostra santità: rinunciare al peccato, ad ogni umano movente che possa, come un vecchio lievito, corrompere le nostre azioni, vivere, rispetto al peccato e ad ogni essere creato, in quella libertà di spirito che risplende cosi vivamente nel Cristo risuscitato.
Noi chiediamo questa grazia a Gesù stesso in quella strofa che si ripete in ciascuno degli inni pasquali:
Quaesumus, auctor omnium,
In hoc paschali gaudio,
Ab omni mortis impetu
Tuum defende populum,
(Inno del Vespro, del Mattutino e delle Laudi [breviario monastico])
«Vi supplichiamo, o Dio, che siete l'autore di tutte le cose, di difendere il popolo vostro da ogni attacco di morte, in questi giorni pieni della gioia di Pasqua». Noi chiediamo a Cristo di preservare il popolo suo quel popolo «che si è guadagnato col suo sangue», (Act. XX, 28) dice S. Paolo, «affinché gli fosse accettabile» (Tit. II, 14) e da che cosa preservarlo? Da ogni attacco di morte spirituale, vale a dire da ogni peccato, da tutto ciò che conduce al peccato, o che tende a distruggere o a smorzare in noi la vita della grazia. Allora veramente potremo far parte di «quella società che Cristo vuole senza macchia, né ruga, ma santa ed immacolata» (Eph. V, 27).
IV. Completa appartenenza a Dio: Viventes Deo; sua realizzazione nell'anima.
L'altro elemento della santità, quello che conferisce al primo la sua ragione d'essere e il suo valore, è l'appartenenza a Dio, l'adesione a Dio, che S. Paolo chiama «vivere per Iddio»: Viventes Deo (Rom. VI, 11).
Questa vita per Iddio comprende una infinità di gradi. Essa implica anzitutto la separazione completa da ogni peccato mortale essendovi tra questo e la vita divina assoluta incompatibilità. Implica secondariamente la separazione dal peccato veniale, dalle radici del peccato e da ogni naturale motivo, il distacco da tutto ciò che è creato. Più è completa la separazione, più siamo spiritualmente liberi e più si sviluppa e si eleva in noi la vita divina: a misura che l'anima si libera dall'umano si apre al divino e gusta le cose celesti e vive della vita di Dio.
In questo stato felice l'anima non soltanto è libera da ogni peccato, ma non agisce più che sotto l'ispirazione della grazia e per motivi soprannaturali. E quando questo motivo si estende a tutte le azioni, quando l'anima, con un movimento di amore abituale e stabile, riferisce tutto a Dio, alla gloria di Cristo e a quella del Padre suo, in lei c'è la pienezza della vita e c'è la santità: Vivit Deo.
Voi osserverete che, nel tempo pasquale, la Chiesa ci parla sovente di vita non solo perché Cristo, con la sua risurrezione, ha vinto la morte, ma sopratutto perché ha riaperto alle anime le sorgenti della vita eterna. E' in Cristo che troviamo questa vita (Joan. XIV, 6). E la Chiesa con tanta frequenza ci fa rileggere in questi giorni benedetti la parabola della vite: «Io sono la vite, dice Gesù, voi siete i tralci, rimanete in me ed io in voi, perché senza di me voi non potete far niente» (Ibid. XV, 4-5).
Dobbiamo rimanere in Cristo e Cristo deve rimanere in noi affinché possiamo produrre frutti numerosi (Cf. XV, 5). In che modo? Con la sua grazia, con la fede che abbiamo in lui, con le virtù di cui è il modello e che noi imitiamo. Quando, avendo rinunziato al peccato, moriamo a noi stessi, «come il grano di frumento muore sotto terra prima di produrre le sue spighe feconde», (Joan. XIV, 25) quando più non operiamo che sotto l'ispirazione dello Spirito Santo e in conformità alle massime ed ai precetti del Vangelo di Gesù, allora la vita divina di Cristo vigoreggia nelle anime nostre, «è il Cristo che vive in noi» (Galat. II, 20). Ecco l'ideale della perfezione: Viventes Deo in Christo Jesu. Non vi possiamo arrivare in un giorno: la santità, iniziatasi al battesimo, non si realizza che a poco a poco, per tappe successive. Studiamoci di fare in modo che ciascuna Pasqua, ciascun giorno di questo periodo benedetto che si estende dalla Risurrezione alla Pentecoste, produca in noi una morte più completa al peccato, alle creature e uno sviluppo più vigoroso e più intenso della vita di Cristo.
E' necessario che Cristo regni nei nostri cuori e che tutto in noi gli sia sottomesso. Che cosa fa il Cristo dopo il giorno del suo trionfo? Vive e regna glorioso in Dio, nel seno del Padre: Vivit et regnat Deus. Cristo non vive che là dove regna e vive in noi in proporzione del suo regnarvi. Egli è re al modo stesso che pontefice. Quando Pilato gli domandò se fosse re, nostro Signore gli rispose: Tu lo dici che io sono re; (Joan. XVIII, 37) «io lo sono, ma il mio regno non è di questo mondo». «Il regno di Dio è in voi» (Luc. XVII, 21). E' necessario che questo regno di Dio si realizzi ogni giorno con maggiore pienezza: è quanto domandiamo a Dio: Adveniat regnum tuum! oh «che venga, o Signore, questo giorno in cui voi veramente regnerete in noi, col vostro Cristo!»
Perché questo regno non è ancora venuto? Perché tante cose, troppe cose in noi, la nostra volontà, l'amor proprio, la nostra naturale attività non sono ancora soggette a Cristo; perché non abbiamo ancora compiuto il desiderio del Padre (Ps. VIII, 8), «di porre cioè ogni cosa ai piedi di Cristo».
E' questa una parte di gloria che il Padre vuol dare ormai al Figlio suo (Philip. II, 9-10). Il Padre vuole glorificare Cristo perché Cristo è il Figlio suo, perché si è umiliato; vuole che ogni ginocchio si pieghi al nome di Gesù e che tutto nella creazione gli sia sottomesso, in cielo, sulla terra, nell'inferno, e tutto ciò che è in noi: volontà, intelligenza, immaginazione, energie.
Egli è venuto in noi come Re il giorno del battesimo, ma il suo regno gli viene disputato dal peccato. Quando distruggiamo il peccato, le infedeltà, gli attacchi alle creature; quando viviamo di fede in lui, nella sua parola, nei suoi meriti; quando ci studiamo di piacergli in tutte le cose, allora Cristo è il padrone, allora egli regna in noi, come regna nel seno del Padre; allora egli vive in noi e può dire di noi al Padre suo: «Guardate quest'anima: io vivo e regno in essa, o Padre, affinché il vostro nome sia santificato».
Tali gli aspetti più profondi della grazia pasquale: distacco da tutto ciò che è umano, terreno, creato; piena adesione a Dio per mezzo di Cristo. Così la risurrezione del Verbo Incarnato diviene per noi un mistero di vita e di santità. Cristo, essendo nostro capo, «Dio ci ha risuscitati in lui» (Eph. II, 6).
Dobbiamo dunque studiarci di riprodurre in noi i lineamenti che contrassegnano la sua vita di risuscitato.
Proprio a questo con tanta insistenza ci esorta S. Paolo in questi giorni. «Se, egli dice, voi siete risuscitati con Cristo», cioè, se voi volete che Cristo vi faccia parte del mistero della sua risurrezione, se volete penetrarvi dei sentimenti del suo Sacro Cuore, se volete «mangiare la Pasqua» con lui e prender parte un giorno alla sua gloria trionfale, «cercate le cose dell'alto, affezionatevi alle cose del cielo che durano, distaccatevi dalle cose della terra», che sono fuggitive: gli onori, i piaceri, le ricchezze (Col. III, 1-2). «Poiché siete morti al peccato, e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio... E al modo stesso che Cristo risuscitato più non muore, ma vive sempre per il Padre. suo, così voi morite al peccato e vivete per Iddio con la grazia di Cristo» (Rom. VI, 9-11).
V. In qual modo, con la contemplazione del mistero e la comunione eucaristica, affermiamo in noi questa duplice grazia pasquale.
Voi mi domandate ora in qual modo possiamo affermare in noi questa grazia pasquale.
Anzitutto contemplando il mistero con fede grande. Guardate: quando Gesù Cristo, apparendo ai suoi discepoli, invita Tommaso, l'apostolo scettico, a introdurre il dito nelle cicatrici delle sue piaghe, che cosa gli dice? «Non essere incredulo ma fedele». E dopo che l'apostolo lo ha adorato qual Dio, nostro Signore aggiunge (Joan. XX, 27-29): «Tu hai creduto in me, o Tommaso, perché mi hai visto e toccato; beati però quelli che hanno creduto senza aver visto».
La fede ci mette a contatto con Cristo; se perciò contempliamo con fede questo mistero, Cristo produce in noi la grazia che egli produceva, come risuscitato, quando appariva ai suoi discepoli. Egli vive nelle anime nostre, e vivendoci sempre, opera senza tregua in noi secondo il grado della nostra fede e la grazia propria di ciascuno dei suoi misteri. Si racconta nella vita di S. Maddalena dei Pazzi che un giorno di Pasqua, essendo seduta a tavola in refettorio, aveva una fisionomia così contenta e gioiosa che una novizia che la serviva non poté trattenersi dal domandargliene la causa: «E' la bellezza del mio Gesù, ella rispose, che mi rende così gioiosa, perché lo vedo in questo momento nel cuore di tutte le mie sorelle. Sotto quale aspetto? soggiunse la novizia. Lo vedo in tutte, rispose, risuscitato e glorioso come la Chiesa oggi ce lo rappresenta» (Vita scritta dal P. Cepari).
Quanto al frutto di questo mistero, ce lo assicureremo principalmente con la comunione sacramentale. Che cosa riceviamo difatti nella SS. Eucaristia? Gesù Cristo, il suo corpo e il suo sangue. Ma osservate che se la comunione suppone il sacrificio del Calvario e quello dell'altare che lo riproduce, è alla carne glorificata del Salvatore che ci comunichiamo. Noi riceviamo Gesù Cristo, quale è presentemente, cioè glorificato nel più alto dei cieli e nel pieno possesso della gloria della sua risurrezione.
Colui che riceviamo è la sorgente stessa di ogni santità, e non può mancare di farci parte della grazia della sua «santa» risurrezione: qui, come ovunque, è sempre dalla sua pienezza che dobbiamo ricevere.
Anche ai nostri giorni, Cristo, sempre vivente, ripete a ciascuna anima le parole che diceva ai suoi discepoli poco prima d'istituire, nel tempo pasquale, il suo sacramento di amore: «Ho desiderato ardentemente di celebrare questa Pasqua con voi» (Luc. XXII, 15). Gesù Cristo desidera di realizzare in noi il mistero della sua risurrezione: egli vive al di sopra di tutto ciò che è terreno, consacrato interamente al Padre suo e vuole per la nostra gioia trasportarci con lui in questa divina corrente. Se, dopo averlo ricevuto nella comunione, gli lasceremo piena libertà di agire, egli darà alla nostra vita, mercé le ispirazioni del suo Spirito, questa stabile orientazione verso il Padre, nella quale si riassume la santità e per la quale tutti i nostri pensieri, tutte le nostre aspirazioni, tutta la nostra attività si riferiscono immancabilmente alla gloria del Padre nostro celeste.
«Siete voi, o divino risuscitato, che venite in me; voi che, dopo avere espiato il peccato con i vostri dolori, avete vinto la morte col vostro trionfo e che, ormai per sempre glorioso, vivete per il Padre vostro. Venite in me “per annientarvi l'opera del demonio”; per distruggere il peccato e le mie infedeltà; venite in me per accrescere la lontananza di tutto ciò che non è voi; venite per rendermi partecipe di quella sovrabbondanza di vita perfetta che prorompe ora dalla vostra santa umanità: io canterò allora con voi un cantico di azioni di grazie al Padre vostro che in quel giorno di onore e di gloria vi ha coronato nostro Capo».
Queste aspirazioni sono le medesime della Chiesa, in una delle preghiere in cui ella riassume, dopo la comunione, le grazie che sollecita da Dio per i figli suoi: «Degnatevi di liberarci, o Signore, da tutti i residui dell'uomo vecchio, e fate che la partecipazione al vostro augusto Sacramento ci conferisca un essere nuovo» (Postcommunio del mercoledi di Pasqua). E la Chiesa vuole che questa grazia permanga in noi anche quando la comunione sarà passata e che le pasquali solennità avranno avuto fine: «Concedeteci, di grazia, o Dio onnipotente, che la virtù di questo mistero pasquale rimanga perennemente nelle anime nostre» (Postcommunio del martedì di Pasqua) perché è la grazia permanente che, come si esprime S. Paolo, ci largisce «la potenza di rinnovarci senza tregua», (II Cor IV, 16) di accrescere in noi la vita di Cristo avvicinandoci sempre più ai gloriosi lineamenti del nostro divino Modello.
VI. La risurrezione dei corpi esaurisce la manifestazione della grandezza di questo glorioso mistero. Gioia che nasce nell'anima nostra per l'unione con Cristo risuscitato; l'Alleluia pasquale.
Coll'aver parlato del duplice aspetto di santità che la risurrezione di Gesù deve produrre in noi, non abbiamo ancora esaurito le ricchezze della grazia pasquale. Dio è così magnifico in tutto ciò che opera per Cristo, che vuole che il mistero della risurrezione del Figlio suo si estenda non soltanto alle nostre anime ma anche ai nostri corpi. Noi risusciteremo coi nostri corpi come Cristo e con Cristo. Potrebbe essere diversamente?
Cristo, come spesso vi ho detto, è il nostro capo e noi formiamo con lui un solo corpo mistico. Ora se Cristo è risuscitato ed è risuscitato nella sua natura umana, bisogna che anche noi, sue membra, partecipiamo alla medesima gloria. Noi siamo membra di Cristo non solo nella nostra anima ma anche nel nostro corpo e in tutto l'essere nostro. Inoltre l'unione più intima ci lega a Gesù. Se dunque egli è risuscitato glorioso, i fedeli che per grazia sua fanno parte del suo corpo mistico, gli saranno uniti anche nella sua risurrezione. Ascoltate quanto a questo proposito ci dice S. Paolo: «Cristo è risuscitato da morte, primizia dei dormienti»; egli rappresenta i primi frutti di un raccolto; dopo di lui verrà il raccolto. «Da un uomo è venuta la morte sulla terra; da un uomo verrà anche la risurrezione da morte; e siccome in Adamo tutti muoiono, così pure tutti in Cristo saranno vivificati» (1 Cor XV, 20-22). «Dio, dice ancora S. Paolo con frase più energica, ci ha risuscitati nel Figlio suo» (Eph. II, 6). In quale modo? Poiché, mediante la fede e la grazia siamo le membra vive di Cristo, noi partecipiamo ai suoi stati, e noi siamo uno con lui. E come la grazia è il principio della nostra gloria, coloro che per la grazia sono già salvi nella speranza, così sono ancora, in germe, risuscitati in Cristo.
E' questa la nostra fede e la nostra speranza.
«La nostra vita è ora nascosta con Cristo in Dio»; noi ora viviamo senza che la grazia produca i suoi effetti di luce e di splendore che avremo nella gloria; al modo stesso di Cristo che prima della sua risurrezione tratteneva dentro di sé l'irradiazione gloriosa della sua divinità di cui non fece vedere che un riflesso una sola volta, ai tre discepoli sul Tabor. La nostra vita interiore non è conosciuta quaggiù che da Dio, ed è nascosta agli occhi degli uomini. Inoltre anche se ci studiamo di riprodurre nelle anime nostre, con la nostra spirituale libertà, i caratteri della vita risuscitata di Gesù, tuttavia questo lavoro si opera sempre in una carne ferita dal peccato e soggetta alle infermità del tempo; noi non possiamo arrivare a quella santa libertà che a prezzo di una lotta rinnovante sì senza tregua e sostenuta con fedeltà.
Anche noi, come diceva Gesù Cristo ai discepoli di Emmaus il giorno stesso della sua risurrezione, anche noi «dobbiamo soffrire per entrare nella gloria» (Luc. XXIV, 26)
«Noi siamo, dice l'Apostolo, i figli di Dio e i suoi eredi, noi siamo coeredi di Cristo; ma non saremo glorificati con lui se non soffriamo con lui» (Rom. VIII, 17).
Possano questi pensieri sostenerci nei giorni che ci restano da vivere quaggiù! Sì, verrà il tempo quando «non vi saranno più né dolori, né grida, né pianti; e Dio stesso asciugherà le lacrime dei suoi servitori», (Apoc. XXI, 4) divenuti i coeredi del Figlio suo e li farà sedere all'eterno banchetto che egli ha preparato per celebrare il trionfo di Gesù, e di quelli di cui è il fratello maggiore.
Se, ogni anno, siamo fedeli a prender parte ai dolori di Cristo durante la Quaresima e la settimana santa, ogni anno anche la celebrazione della Pasqua, facendo ci contemplare la gloria di Gesù vittorioso della morte, ci farà prender parte con più frutto ed abbondanza alla sua divina condizione di risuscitato, accrescerà il nostro distacco da tutto ciò che non è Dio e aumenterà in noi, per mezzo della grazia, la fede, l'amore e la vita divina. Nel medesimo tempo, essa avviva la nostra speranza, poiché «quando, l'ultimo giorno, Cristo, che è la nostra vita» e il nostro capo, apparirà affinché prendiamo parte alla sua vita, «appariremo anche noi con lui nella gloria» (Col. III, 4).
Questa speranza ci colma di gioia e perché il mistero di Pasqua, essendo un mistero di vita, afferma la nostra speranza, è anche, eminentemente, un mistero di gioia.
La Chiesa lo esprime moltiplicando, in tutto il tempo pasquale, l'Alleluia, («Lodate Dio») grido di allegrezza e di felicità, tolto in prestito dalla liturgia del cielo. Essa lo aveva fatto tacere durante la Quaresima per significare la sua tristezza e mettersi in comunione con i dolori del suo Sposo. Ora che Cristo è risuscitato, si rallegra con lui e riprende con nuovo fervore questo grido di gioia in cui si riassumono i suoi sentimenti più fervidi.
Non dimentichiamolo mai: noi non facciamo che una sola cosa con Gesù Cristo; il suo trionfo è il nostro; la sua gloria è il principio della nostra gioia. Così con la Chiesa nostra Madre ripetiamo spesso 1'Alleluia per significare a Cristo la nostra gioia di vederlo trionfare della morte e per ringraziare il Padre della gloria che ha largito al Figlio suo. L'Alleluia che la Chiesa ripete senza stancarsi per i cinquanta giorni del periodo pasquale è come l'eco sempre rinnovantesi di quella preghiera con cui termina la settimana di Pasqua: «Concedeteci, o Signore, che questi misteri di Pasqua, siano d'ora innanzi un'azione di grazie e che l'opera della nostra rigenerazione, che si svolge senza tregua, diventi in noi il principio inesausto di una gioia senza fine» (Secreta del sabato di Pasqua).