Orgoglioso lamento cattolico
Dato il tema, non sarà una gran citazione, ma bisogna cominciare con un messaggio sms datato sabato 12 ottobre, ore 14,24: “Caro Giuliano, oggi mia figlia, 18 anni, all’uscita di scuola è stata aggredita verbalmente con violenza dal padre di una sua compagna di classe per quanto ho scritto sul tuo giornale a proposito del Papa. Questo signore fa il giornalista ed è pronipote e biografo del Papa Buono”. Mentre il direttore di questo giornale rispondeva con la cortesia e l’attenzione che troppi cattolici non sanno più dove stiano di casa, il biografo del Papa Buono, obbligato da sua figlia, tentava di scusarsi telefonicamente spiegando alla ragazza presa a male parole che quello era il suo modo di partecipare alla discussione.
Evidentemente, non aveva tutti i torti il vecchio maestro delle elementari che, per catturare sino alla fine l’attenzione alle sue lezioni di storia, spiegava a una mandria di alunni svogliati: “Per capire perché una vicenda è cominciata, bisogna sempre vedere come è andata a finire”. Ripensandoci nel corso degli anni, questa massima aveva preso sempre più sentore di cinismo hegeliano, un che di Croce e di Gentile messi lì a bella posta pour épater l’etudiant e tirare indenne fino allo squillare della campanella. Ma, a ben guardare, il maestro Frecassetti la sapeva più lunga di quanto sembrasse. Bisogna riconoscere che il motivo per cui abbiamo iniziato a mettere nero su bianco il nostro pensiero sul pontificato di papa Francesco, si trova proprio nell’epilogo riassunto nel messaggio sms di sabato 12 ottobre.
La ferocia con cui viene difeso il papa della misericordia si vedeva già tutta nel coro di osanna intonato fin dalla sera dell’elezione. Baciapile e anticlericali, devoti e agnostici, cattoliconi e diversamente credenti, tutti a cantar sermoni in una chiesa improvvisamente divenuta immacolata, linda e monda da ogni difetto. E poi, tutti in processione a consacrare in Lampedusa il luogo del nuovo olocausto, a sentir messa sulla spiaggia di Copacabana, a digiunare in piazza per la pace o forse per semplice paura della guerra. Tutti ovunque ci sia da celebrare la chiesa rimessa a onor del mondo invece che del Signore.
Al cospetto di tanto consenso, anche a non aver pratica di Scritture, il “Guai a voi quando tutti gli uomini parleranno bene di voi” con cui San Luca chiude le “Beatitudini” dovrebbe prendere a risonare con prepotenza. Nella guerra al Vangelo, il mondo abbraccia solo i propri simili e non usa fare prigionieri, ma nella fiera mediatica di cui il papa è la star delle star nessuno sembra tenerne conto. Si sta troppo al calduccio in questa specie di paese di balocchi dove gli opposti girano a braccetto facendo marameo al principio di non contraddizione. In soli sei mesi, si è buttata a mare l’esigenza di mostrare con rigore la ragionevolezza della fede che tanto andava di moda con Benedetto XVI. Ora, persino il guazzabuglio sull’Essere cincischiato da Scalfari sembra una pagina di Heidegger nel dialogo con il papa. Sulla scia di un pontefice che dice di amare la mistica e disprezza l’ascetica, sono stati spazzati via in un lampo secoli di metafisica. Nello spazio di un’omelia a Santa Marta, è stato cancellata la memoria di Ratzinger e ammutolito il suo discorrere con la ragione. E’ rimasto solo il cuore e, si sa, al cuor non si comanda e allora i dissidenti si coprono di insulti invece che di argomentazioni. Oppure si aggredisce una ragazza perché suo padre opina dove è sempre stato lecito opinare. O, ancora, si viene epurati seduta stante da “Radio Maria” senza neanche il diritto, non si dice di appello, ma almeno dell’ultima sigaretta. Fucilati sul posto come disertori per non aver “sostenuto incondizionatamente ogni iniziativa del papa”.
In ogni caso, nonostante il “ben gli sta” di coloro che non vedevano l’ora di reprimere almeno un alito di dissidenza che osasse alzare la testa, abbiamo ricevuto centinaia di e-mail, di telefonate e di messaggi di imbarazzante sostegno anche da tanti ascoltatori di “Radio Maria”. Innanzitutto per quanto è grottesca la vicenda. In una chiesa dove tutti criticano, contestano, manifestano, scrivono volumi e articolesse per denigrare passato, presente e futuro, quelli che vengono allontanati da una radio cattolica sono due che, secondo coscienza e “perseguendo ciò che ritengono il bene”, hanno criticato quanto nelle parole di Papa Bergoglio è in evidente contrasto con la tradizione cattolica. Ma quanto più colpisce in questi messaggi è l’adesione liberatoria di chi dice “avete scritto quello che da tempo molti pensano, ma che nessuno osava dire”. Siccome la chiesa è piccola e il fedele mormora, si spiega la ragione del fastidio che, negli ambienti clericali, il nostro scritto ha suscitato. Non siamo bambini come quello della fiaba di Andersen, ma ci siamo presi ugualmente la briga di dire che l’imperatore è nudo, mentre i cortigiani facevano a gara nel magnificare l’abito che non indossava. E, adesso, c’è il rischio che la gente se ne accorga, ne parli e comincia dire che qualcosa non torna. Sarebbe un dissenso ben singolare e difficile da affrontare.
Qui non si tratta delle suore americane che vogliono le donne prete, dei teologi della liberazione che amano socialisteggiare o dei preti austriaci in fregola per l’abolizione del celibato. Questo è il dissenso di una variegata fetta di cattolici normali che vedono in pericolo la dottrina su cui si fonda la loro fede, l’idea stessa di papato e di chiesa. E’ il dissenso di tanti cattolici perplessi che non vogliono donne cardinale, messe creative trasformate in show secondo l’estro del celebrante, teologhesse veterofemministe al potere, pauperismo in mondovisione, pastori e teologi muti sui temi della bioetica e della famiglia.
Questa fetta di popolo di Dio ha visto e valutato i ventun’anni di governo del cardinale gesuita Carlo Maria Martini nella diocesi di Milano e non vuole che ora la chiesa sia sottoposta al medesimo, discutibilissimo trattamento. E le perplessità, si viene scoprendo adesso che la gente comincia a parlare, sono nate con i primi scricchiolii uditi il giorno dell’elezione del cardinale Bergoglio, a partire da quel “Buonasera” che ha lasciato tutti di sasso e da quell’insistere sull’essere vescovo di Roma.
Certo, occorre dirlo, il problema non è solo Papa Francesco. Ad esempio, ci sono i papolatri, secondo i quali il Papa è ontologicamente incriticabile in merito a qualunque cosa dica. E si dice “ontologicamente” in un mondo cattolico dove neanche si conosce il significato del termine ontologia. Se il papa attualmente rengnante dicesse, per ipotesi, che si deve bere sangria e tifare Argentina, ecco che i papolatri passerebbero al nuovo drink e alla nuova maglia dopo anni e anni di birra e di Bayern Monaco. Ma senza intaccare l’ermeneutica delle riforma nella continuità.
Alla fine, il problema è questo mondo cattolico ormai incapace di esprimere intellettuali di qualche caratura. Ne costituisce un riflesso eloquente lo stato della stampa cattolica, stampa di lotta e di governo, ma non luogo di elaborazione di idee o, almeno di esibizione identitaria. Domenica scorsa la Chiesa cattolica beatificava 522 martiri di Spagna, quasi tutti sacerdoti e religiosi trucidati in odio alla fede dall’esercito anarchico spagnolo. “Avvenire” ne ha parlato a pagina 23, in taglio basso: 522 martiri e il quotidiano della Cei se ne vergogna, li nasconde e si guarda bene dal dire chiaramente chi li abbia martirizzati. Parlavano spagnolo, è vero, ma purtroppo per loro non erano argentini, non frequentavano periferie esistenziali e furono ammazzati mentre stavano nei loro conventi e nelle loro chiese a pregare e a insegnare il catechismo.
Non c’è da stupirsi che questa stessa stampa cerchi di affogare nel disprezzo personale o nella censura chi osi chiedere ragione di evidenti contraddizioni, quand’anche escano dalla bocca del successore di Pietro. Sarebbe più facile per tutti se chi non condivide rispondesse seriamente nel merito, mostrasse dove stanno gli errori.
Ma Augusto Del Noce ci aveva messo in guardia, quando aveva preconizzato con terrore una società nella quale sarebbe stato impossibile fare domande.
Una condizione del genere non può essere sottoscritta da un cattolico con uso di ragione, ripugna all’intelligenza.
E poi, risulta difficile “sostenere incondizionatamente ogni iniziativa di un papa” che cinguetta con Scalfari sull’autonomia della coscienza, che su “Civiltà Cattolica” invita ad abbassare i toni sulle questioni etiche, che sull’aereo con i giornalisti si chiede chi sia lui per giudicare gli omosessuali, che tramite la Congregazione dei religiosi vieta ai Francescani dell’Immacolata di celebrare la messa antica, che vola a Lampedusa ed elogia i frutti spirituali del Ramadan.
Nonostante tutto questo, non è stato facile dare voce al disagio provocato dall’attuale pontificato. Tecnicamente, noi siamo quelli che dalle nostre parti vengono ancora chiamati paolotti. Siamo nati e cresciuti in una fetta di Lombardia divisa in due dall’Adda, da una parte la Brianza e dall’altra la Bergamasca, terre bianche come un lenzuolo di bucato. Quando eravamo piccoli, nei nostri paesi al posto d’onore stava il parroco, poi venivano il sindaco, il dottore, il farmacista e, se c’era la caserma, il maresciallo dei carabinieri. Sopra questa catasta ben ordinata di autorità non regnava il presidente della Repubblica perché, già allora, Roma era un po’ ladrona però solo al di qua del Tevere. Di là c’era il Papa ed era tutto un altro mondo. Il Bianco Padre che da Roma ci era meta, luce e guida regnava al vertice di ogni devozione rivolta a qual si voglia creatura umana. Dir male del papa non era lecito neppure nei circoli dove si masticavano toscani di terza categoria, si beveva vinello rosso del posto e si praticava un anticlericalismo che non andava oltre l’arciprete.
Nati e cresciuti paolotti, ci siamo trovati a dover dire ciò che ha suscitato tanto clamore perché è stato proprio il papa a disegnare una chiesa prossima ventura in cui sia spazzata via quella catasta di autorità cosi ben ordinata che ci faceva sentire parte della chiesa. Anzi, grazie alla quale eravamo parte della chiesa, prima ancora che di un comune, di una regione o di uno stato. Ma il papa doveva stare lassù, lontano, quasi irraggiungibile. E più era lontano e irraggiungibile più aveva forza per reggere e ordinare ciò che di buono c’è su questa terra.
Prima di tutto, la gran teoria di autorità alle quali si doveva la giusta devozione perché discendevano direttamente dal Vicario di Cristo o, in qualche modo, lo tenevano nel giusto conto. E poi la vita nelle famiglie, dove c’era posto per tutti, anche per chi madre natura non l’aveva propriamente carezzato e allora gli si voleva bene più che ai figli o ai vecchi più fortunati. L’abbraccio al povero e al malato era gesto quotidiano e pudico, come nelle pagine di don Lisander, e aveva tanto più valore perché lo si regalava anche per conto del papa, che lassù non se lo poteva permettere, ed era come farlo per conto di Nostro Signore, dunque per vera carità. E il Dolce Cristo in terra non pensava neanche lontanamente di scendere in piazza a espropriare i suoi figli di un gesto che li avrebbe santificati. Non c’era bisogno di esempi che si sarebbero necessariamente tramutati in esibizioni. Tutto era naturaliter ordinato a Ciò e a Chi veniva rappresentato da quell’uomo lontano e solo, costantemente al cospetto di Dio per conto di tutti i suoi figli.
Ma il papa doveva stare lassù, lontano e quasi irraggiungibile. Un papa che invece scende nell’arena e gioca con i massmedia a non fare il papa, alla fine, non si avvicina agli uomini ma li sta lasciando soli.
Se si appropria dei gesti che appartengono alla quotidianità dei figli che gli sono stati affidati, non si fa umile ma protagonista. Se rimuove quel poco di gradino che è ancora rimasto tra l’uomo e Dio, non facilita l’incontro ma lo rende inutile. In tal modo, le creature si avvicinano al vuoto e, istintivamente, si aggrappano a chi hanno di più vicino: un altro uomo, niente di più, anche se si tratta del papa, che ha deciso di essere come le sue pecore, di avere il loro stesso odore.
Anche la simbologia, che, grazie alla lontananza incolmabile del Vicario di Cristo, una volta si librava verso l’alto, ora guarda per terra e non mostra altro che uomini in mezzo agli uomini. Come accade con la croce pettorale di ferro di papa Francesco, sulla quale i fedeli, grazie allo sguardo mediatico, così materiale e terreno, non cercano più Cristo, ma l’umiltà dell’uomo che la porta.
Perché le creature son fatte così, se gli si toglie la ragione e gli si lascia solo il cuore si innamorano soltanto di ciò che è quotidiano e materiale. Mentre, come insegna la volpe al piccolo principe di Saint-Exupery, “l’essenziale è invisibile agli occhi”. Ma per alimentare lo sguardo dell’anima serve un vero rito “quello che” spiega sempre la saggia volpe “fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora diversa dalle altre ore”.
I grandi raduni di cui papa Francesco è la grande star non danno proprio questa impressione. Enon è un caso se lui stesso ha spiegato che la riforma liturgica è il frutto principale dell’adattamento della chiesa alla modernità voluto dal Vaticano II. Una sciagurata iniziativa in fondo alla quale l’uomo finisce per celebrare se stesso, privato del desiderio di posare sulle cose e sulle creature uno sguardo diverso. La devozione al mistero, l’attimo in cui a ogni singola cosa del visibile e dell’invisibile viene prestata l’identica misura di attenzione, è andata in esilio.
Su questo dramma, l’ormai dimenticato Benedetto XVI, ha scritto pagine ancora di grande attualità. Quando era ancora il cardinale Joseph Ratzinger, diceva nell’”Introduzione allo spirito della liturgia”: “L’uomo non può ‘farsi’ da sé il proprio culto. Egli afferma solo il vuoto se Dio non si mostra. (…) la vera liturgia presuppone che Dio risponda e mostri come noi possiamo adorarlo. Essa implica una qualche forma di istituzione. Essa non può trarre origine dalla nostra fantasia, dalla nostra creatività, altrimenti rimarrebbe un grido nel buio o una semplice auto conferma. Essa presuppone qualcosa che stia concretamente di fronte, che si mostri a noi e indichi così la via alla nostra esistenza”. Diversamente, spiega ancora Ratzinger, “il culto diventa una festa che la comunità si fa da sé; celebrandola, la comunità non fa che confermarsi da se stessa. Dall’adorazione di Dio si passa a un cerchio che gira intorno a se stesso”.
Per il suo tentativo di rimettere in onore la liturgia cattolica, Benedetto XVI fu aggredito su scala planetaria da torme di cattolici che nessuno si sognò di epurare. Ma ora la chiesa ha un altro papa e, questo sì, non si può nemmeno sfiorare.
Gnocchi&Palmaro (quotidiano IL FOGLIO del 16/10/13 - vignetta di VINCINO da IL FOGLIO)