Padre Pio crocifisso dalla chiesa degli anticristi (Romanzo Infernale)
La bomba è arrivata per posta qualche mese fa. Non ha allarmato nessuno perché era confezionata in 176 pagine stampate in formato A4 dal titolo tranquillizzante persino per quelli di casa mia, che pure sanno quanto l’argomento possa diventare esplosivo: Padre Pio. L’hanno presa per uno dei tanti manoscritti che ricevo con la promessa di rivelazioni sensazionali e la gentile richiesta di trovare l’editore interessato allo scoop. Ma, sotto il titolo apparentemente inoffensivo, la copertina recava la scritta “Geneve AID 1963”, che sta per “Ginevra, Associazione Internazionale per la Difesa della persona e delle opere di Padre Pio da Pietrelcina, 1963”. In altre parole, 176 pagine di plastico puro, la prima traduzione italiana dell’introvabile Libro Bianco che Emanuele Brunatto, presidente dell’associazione per la difesa di padre Pio, fece preparare allo scopo di denunciare la seconda persecuzione del santo cappuccino e ottenerne la liberazione. Una bomba, insomma.
Nella lettera allegata al documento, il monaco che me lo aveva spedito diceva: “Brunatto aveva minacciato la pubblicazione di questo ‘Libro Bianco’ a Vescovi e Cardinali e di fatto la persecuzione a padre Pio cessò in virtù di questa minaccia. Questo ‘Libro Bianco’ tutti lo conoscono, ma nessuno l’ha mai letto, sia perché è introvabile, sia perché è esplosivo. Quei pochi esemplari che sono rimasti sono in francese. Questa è la prima traduzione in italiano, che io sappia. Certo, pubblicarlo è temerario (…) è vero che sono passati cinquant’anni e tutte le persone qui citate sono morte, ma in effetti si alza il sipario su uno scenario poco edificante davvero. (…) Certo è che questo documento deve essere conosciuto da coloro che vogliono studiare padre Pio o che comunque lo amano”.
MORTE SOSPETTA DI UN PUBBLICANO Il nome di Emanuele Brunatto, che amava definirsi “il Pubblicano” per la sua vita matta prima della conversione e per le intemperanze cui non sempre seppe resistere neppure dopo, è poco familiare persino a molti frequentatori delle biografie di padre Pio. Eppure, fu il primo figlio spirituale del santo cappuccino, davanti al quale si convertì a 28 anni nel 1920. Visse a lungo nel convento di San Giovanni Rotondo nella cella numero 6, accanto a quella del santo, la numero 5, servendogli la Messa tutte le mattine e sedendo in coro al suo fianco. E fu, soprattutto, il più efficace e infaticabile difensore del Padre durante le due persecuzioni patite per volere della chiesa.
Si è parlato pochissimo, quasi niente, del “Pubblicano”, specie nei libri con il crisma dell’ufficialità. Si è detto che evitare di evocarne la figura, per via della sua vita e dei metodi energici con cui sapeva muoversi in caso di necessità, avrebbe giovato alla riabilitazione e al processo di canonizzazione di padre Pio. Già non è proprio onorevole l’idea che per provare la santità di un cristiano serva tacere una porzione così grande di verità sulla sua vita. Ma in realtà, per i bravi figli di santa romana chiesa, il problema è un altro: evocare Emanuele Brunatto significa raccontare quanto venne portato alla luce dall’uomo che padre Pio chiamava “ù poliziottu” per le sue doti investigative: una sequela infernale di turpitudini, malaffare, tradimenti della fede e della morale a ogni stazione della via dolorosa che da San Giovanni Rotondo arriva fino al cuore cristianità.
E, magari, significa anche ricordare che la sua morte, avvenuta tra il 9 e il 10 febbraio 1965, sbrigativamente catalogata come conseguenza di un collasso cardiaco lascia più di un dubbio. “Qualcosa, e forse più di qualcosa, non quadra” dice Alberindo Grimani, studioso devoto di padre Pio e attuale direttore dell’Archivio Emanuele Brunatto. Grimani, come ha fatto più volte pubblicamente, mi racconta che la ricostruzione della vicenda resa dalla figlia del “Pubblicano” è molto diversa da quella ufficiale: “Lo studio era in disordine. La grande credenza a vetrate che conteneva la vastissima documentazione di Brunatto era aperta e il materiale, quello che rimaneva, sparpagliato per terra o sulla vecchia scrivania. È stato detto che Emanuele fosse morto nella notte tra il 9 e il 10 febbraio. Ma, da quanto si è saputo nei giorni successivi, pare che tra le 8,20 e le 8,30 del mattino del giorno 10 avesse ricevuto una telefonata da un familiare e che i due fossero rimasti a parlare per circa un paio di minuti, o forse più. Quella persona voleva passare a trovarlo, ma lui la dissuase dicendo ‘No, sarà per un’altra volta’. Dal tono della voce comprese che era un po’ in ansia. In attesa di qualcuno o qualcuno era già nella stanza? Un amico confidò alla moglie Yvonne, rimasta a Parigi, di avere le prove che Emanuele fosse stato ucciso con l’arsenico, avendo fatto analizzare un bicchiere sottratto nello studio senza che gli inquirenti se ne accorgessero”.
Forse è solo una coincidenza, ma la mattina di quel 10 febbraio Brunatto aveva appuntamento con l’amico Luigi Peroni, direttore dei Gruppi di preghiera di padre Pio e biografo del santo, per consegnargli parte della documentazione raccolta durante le sue ultime inchieste in modo che venisse messa al sicuro. Peroni arrivò quando in casa c’era già la polizia.
Giuseppe Pagnossin, altro devoto del santo, ha scritto nel libro Il calvario di padre Pio che il 7 febbraio ricevette in presenza di testimoni una telefonata in cui Emanuele si diceva spaventato: “Sono molto preoccupato e abbattuto; abbandono la causa perché i cappuccini vogliono la mia pelle”. Una telefonata di uguale tenore e contenuto fu ricevuta a San Giovanni Rotondo anche da Francesco Morcaldi, l’uomo che fin dal principio fu al fianco di Brunatto nella battaglia per difendere il Padre.
REAZIONE A CATENA Il Libro Bianco, sunto dei documenti che Brunatto aveva raccolto in decenni di investigazione e opportunamente messo al sicuro, ora stava sulla mia scrivania, tradotto in bell’italiano con quell’innocuo titolo da santino agiografico, Padre Pio. Il contenuto, a saperlo leggere e conoscendo un po’ di storia recente della chiesa, e soprattutto del suo retrobottega, è veramente una bomba, ma di quelle che servono a innescare una reazione a catena con l’esplosione di ordigni ancora più potenti. La sua trama è costruita sulla continua allusione a fatti e personaggi che Brunatto aveva messo esplicitamente in scena con date, circostanze, nomi e cognomi in due precedenti pubblicazioni, Lettera alla Chiesa, stampato nel 1929 e firmato da Francesco Morcaldi, e Gli Anticristi nella Chiesa di Cristo, stampato nel 1933 e firmato con lo pseudonimo di John Willoughby. Due libri dallo strano destino, scritti per ottenere la liberazione di padre Pio dalla carcerazione a cui era condannato, temutissimi dai carcerieri del povero frate senza essere mai arrivati in libreria e oggi introvabili. Quasi introvabili, a voler essere più precisi.
Questi due libri possono farci ipotizzare quale fosse la vera natura della missione affidata dal Cielo a padre Pio. Un compito ancora più terrificante della convivenza con le sofferenze fisiche e spirituali provocate dalle stigmate. E ancora più radicale rispetto a quello già grande di salvare la vera Messa, così come me lo ero figurato una decina di anni fa, al tempo in cui stavo scrivendo con Mario Palmaro L’ultima Messa di padre Pio. Oggi, penso di poter dire che la difesa del Divino Sacrificio fosse solo l’estrema propaggine di un mandato conferito da Cristo al giovane fra Pio per affrontare il male nella sua origine più profonda.
Secondo Grimani, almeno nelle linee essenziali, la missione è già delineata a pagina 77 del primo libro di Brunatto, pubblicato nel 1926 con il titolo di Padre Pio da Pietrelcina, immediatamente messo all’Indice dal Sant’Uffizio ed esaurito in libreria perché la curia romana ne comprò tutte le copie per evitarne la diffusione: “Padre Pio taceva. L’altro temette di aver detto troppo. Ma Egli invece intervenne allora molto gravemente: ‘Se a noi sacerdoti aspetta un castigo e terribile è precisamente per non aver fatto nulla per riconquistare a Dio quelle anime. E io penso, sì, che un castigo aspetta noi sacerdoti, un grave castigo’”. Non disse che il castigo sarebbe spettato ai sacerdoti indegni, ma “a noi sacerdoti” e lui lo stava provando nel suo corpo, nella sua anima e nel suo spirito. Stava soffrendo nel suo sacerdozio lo sfregio portato dai suoi stessi fratelli al sacerdozio di Cristo, proprio come Gesù soffriva sulla croce i peccati degli uomini.
Questo è confermato da quanto il giovane frate scrisse al suo confessore il 7 aprile 1913: “Venerdì mattina ero ancora a letto, quando mi apparve Gesù. Era tutto malconcio e sfigurato. Egli mi mostrò una grande moltitudine di sacerdoti regolari e secolari, fra i quali diversi dignitari ecclesiastici; di questi, chi stava celebrando, chi stava parando e chi stava svestendo delle sacre vesti. La vista di Gesù in angustie mi dava molta pena, perciò volli domandargli perché soffrisse tanto. Nessuna risposta n’ebbi. Però il suo sguardo si riportò verso quei sacerdoti; ma poco dopo, quasi inorridito e come se fosse stanco di guardare, ritirò lo sguardo ed allorché lo rialzò verso di me, con grande mio orrore, osservai due lagrime che gli solcavano le gote. Si allontanò da quella turba di sacerdoti con una grande espressione di disgusto sul volto, gridando: ‘Macellai!’”.
IL GIORNO IN CUI CIELO E TERRA SI INCONTRARONO Quando profondo fosse lo sfregio e fin dove arrivassero le responsabilità, Brunatto lo documentò nelle sue inchieste successive. Ma ora bisogna fare un passo indietro.
Nel santuario di Santa Maria del Monte a Campobasso, si trova un quadro che raffigura la Vergine Maria mentre appare a un giovane fra Pio indicandogli Gesù caricato della Croce sulla salita del Calvario. Fu padre Pellegrino da Sant’Elia a Pianisi, il frate che rimase vicino a padre Pio fino agli ultimi istanti della sua vita terrena, a volere che il pittore Amedeo Trivisonno la dipingesse. Era il 1971: “Amedeo qui la Madonna è apparsa a padre Pio molte volte. Tu, che sei tanto religioso, devi dipingere un quadro per ricordare l’apparizione più importante, quella del giorno dell’Assunzione del 1905, il giorno in cui il padre accetto di essere l’Alter Christus”.
Dopo la visione del 1903, che gli prospettava una vita in perenne lotta con il demonio, nel 1905 veniva chiesta al giovane frate l’associazione al Sacrificio della Croce fino a patire le sofferenze del Salvatore. “La mia missione” avrebbe confidato molti anni più tardi il Padre a Luigi Peroni “finirà quando sulla terra non si celebrerà più la Messa”. E poi, in altre occasioni: “Il mondo potrebbe stare anche senza il sole, ma non senza la Santa Messa”, “La mia missione comincia dopo la mia morte”. Che cosa aveva mostrato il Cielo a fra Pio nel giorno dell’Assunzione del 1905 e nelle successive visioni celesti se i messaggi che lui consegnava all’umana comprensione erano tanto inquietanti?
Penso che Alberindo Grimani sia stato tra i primi a porsi queste domande davanti al quadro di Santa Maria del Monte e per questo motivo è arrivato per primo più lontano di altri. La conclusione che ne trassi io dieci anni fa era solo una parte della risposta. Forse, allora, stavo cercando solo quel frammento, ma soprattutto mi mancavano una serie di informazioni di prima mano che ora ho trovato facendo esplodere nel chiuso del mio studio la bomba del Libro Bianco, che ha innescato una reazione a catena da Romanzo Infernale.
LA MACCHINA DEL FANGO CLERICALE Già prima della stigmatizzazione del 20 settembre 1918, padre Pio era diventato un punto di riferimento spirituale che irradiava il suo influsso oltre i confini locali. Il clero del posto, una quindicina di canonici e il loro arciprete, si legge nel Libro Bianco, “traevano dalla situazione un beneficio diretto per l’aumento dei loro profitti di stola bianca e nera. Siccome la maggior parte di loro si mostravano più attenti alle cose della terra che a quelle del cielo, avrebbero dovuto rallegrarsi dell’apostolato silenzioso di questo monaco che, restando completamente al di fuori della città, portava loro dei vantaggi reali senza toglier loro niente, se non un po’ della loro influenza morale, già fortemente in declino. Ma questa ‘compensazione materiale’ non cancellava il fatto che padre Pio, la sua purezza, la sua povertà, questa testimonianza soprannaturale che egli portava costituivano una pietra d’inciampo, un ostacolo alla loro influenza. I più attivi di questi canonici avevano dei costumi per niente conformi al loro abito sacerdotale e conducevano, dunque, un’esistenza ben diversa da quella del cappuccino e della sua comunità religiosa. A partire dal 1919, i canonici Michele De Nittis, Giovanni Miscio e Domenico Palladino cominciarono a manifestare la loro ostilità con insinuazioni tendenziose contro padre Pio. L’arciprete Giuseppe Prencipe si fece loro portavoce e, coperto dal segreto del Sant’Uffizio, mandò alla Suprema Congregazione una serie di rapporti dove padre Pio era descritto come un impostore, un corruttore, un sensuale, uno scroccone ambizioso, insomma una specie di Rasputin. Seguendo la via gerarchica, queste calunnie passavano per l’ordinario dei luoghi, Mons. Pasquale Gagliardi, arcivescovo di Manfredonia, che d’altra parte era il più accanito. In una riunione di vescovi a Roma aveva dichiarato sotto giuramento di aver scoperto egli stesso, nella cella di padre Pio, una piccola bottiglia di acido nitrico con il quale il cappuccino aveva provocato le sue stigmate e un flacone di acqua di Colonia con le quali le profumava. A questo concerto veniva ad aggiungersi la voce di un personaggio importante, padre Agostino Gemelli, dell’ordine dei frati minori francescani, medico, ex socialista, rettore dell’Università cattolica di Milano, confidente e amico di Pio XI, consigliere tecnico del Sant’Uffizio. Padre Gemelli, che si era dato la missione di combattere, per motivi scientifici, il falso soprannaturale nella Chiesa, dichiarò di aver esaminato a San Giovanni Rotondo le stigmate di padre Pio e di aver constatato che si trattava di simulazione volontaria o involontaria”.
Nella relazione sulla visita avvenuta nel 1920, Gemelli scrisse che “Padre Pio ha tutte le caratteristiche somatiche dell’isterico e dello psicopatico (…). Quindi, le ferite che ha sul corpo sono fasulle (…) frutto di un’azione patologica morbosa”. Omise solo un dettaglio: non poté visionare le ferite del frate, che, in assenza di un ordine scritto dell’autorità competente, si oppose all’indagine.
Ma ormai la macchina del fango era in moto, gli ingranaggi del sistema di corruzione e complicità che legava San Giovanni Rotondo con Roma avevano preso a girare a pieno regime oliati da una lunghissima consuetudine. Voci, sospetti, calunnie e diffamazioni sul povero santo si fecero sempre più grevi e serrate, così il 31 maggio 1923 fu pubblicato il primo documento di censura del Sant’Uffizio. Ne seguirono altri durante un Calvario che durò dieci anni.
LE PRIME INCHIESTE D’Ù POLIZIOTTU In seguito a questi avvenimenti, nel 1925, Brunatto venne allontanato dal convento in cui aveva abitato per cinque anni e decise di difendere il suo padre spirituale. Raccolse prove e testimonianze sul candore del giovane frate e sul bene spirituale che ne fioriva. Ma, soprattutto, scoprì chi erano veramente e cosa nascondevano gli accusatori del frate rinchiuso a San Giovanni Rotondo. Con due borse colme di documenti, si mise in viaggio per Roma convinto che in breve tempo sarebbe stata resa giustizia al giusto.
Non sapeva ancora che la mafia clericale nemica della purezza di padre Pio aveva già tramato con successo nel 1919, regnante Benedetto XV, che pure non era ostile al cappuccino stigmatizzato. Ora, con il nome di Pio XI, era diventato papa il cardinale Achille Ratti, che non nutriva alcuna benevolenza per il povero frate, e la situazione si era fatta persino più grave. Il 3 luglio 1922, il nuovo pontefice aveva ricevuto in udienza privata l’arcivescovo di Manfredonia e aveva volentieri dato il via ai primi provvedimenti restrittivi dell’opera spirituale e pastorale del frate stigmatizzato.
Nella congrega avversa al frate di San Giovanni Rotondo, attorno a Pio XI si trovavano, per citare solo gli elementi più influenti, quasi tutto il Sant’Uffizio, il cardinale Gaetano De Lai, il cardinale Carlo Perosi, il cardinale Donato Raffaele Sbarretti Tazza, il cardinale Luigi Sincero, il Prefetto dei Sacri Palazzi Apostolici monsignor Ricardo de Samper, il Maestro di Camera di Sua Santità monsignor Camillo Caccia Dominioni, l’Osservatore Romano e, naturalmente, padre Agostino Gemelli, grande amico del pontefice. Davano credito a padre Pio solo il Segretario di Stato cardinale Pietro Gasparri e il Segretario del Sant’Uffizio cardinale Rafael Merry del Val. In mezzo, ondeggianti tra uno schieramento e l’altro a seconda degli interessi del momento, i gesuiti padre Enrico Rosa, direttore della Civiltà cattolica molto ascoltato da pontefice, e padre Pietro Tacchi Venturi, molto ascoltato dal capo del governo cavalier Benito Mussolini.
A Roma, Brunatto poteva contare sull’aiuto di don Luigi Orione, che conosceva bene la curia e lo indirizzò ai cardinali Gasparri e Merry del Val. Pur così diversi e non certo amici, i due prelati, forse, colsero il significato della missione di padre Pio. In ogni caso, compresero come il destino del frate fosse legato alla guerra che entrambi avevano intrapreso nella disperata impresa di fare pulizia dentro le mura leonine.
Risultati immediati non se ne videro, quindi “ù poliziottu” decise di forzare la mano pubblicando il suo primo libro, Padre Pio di Pietrelcina. Il volume fu immediatamente messo all’indice del Sant’Uffizio, di cui Merry del Val era Segretario, ma Pio XI il Prefetto, in quel caso non solo nominalmente. Un primo effetto positivo della pubblicazione si palesò comunque di lì a breve perché a San Giovanni Rotondo venne inviato un Visitatore apostolico, monsignor Felice Bevilacqua, che scelse come coadiutore laico proprio Emanuele Brunatto. I risultati dell’inchiesta sono così riassunti nel Libro Bianco, che omette il contenuto più scandaloso dei verbali: “La visita apostolica raccolse le prove di simonia, ricatto, sacrilegio e di relazione sessuali continue del canonico (Palladino) con parecchie donne. Informato dell’inchiesta, costui minacciò una di loro di ‘sgozzarla per strada’ se lo denunciava. Palladino aveva condotto questa vita scandalosa per sei anni sotto gli occhi dell’arciprete, senza che ne avesse sanzione, né rimprovero. Il canonico lo teneva sotto la minaccia: ‘Che Prencipe (l’arciprete) si occupi dei suoi affari, perché ho in mano più di quanto serve per rovinarlo. Infatti, il Visitatore ebbe a rimproverare all’arciprete parecchi capi d’accusa per simonia, falso e uso di falso, calunnie, rapporti sessuali continui con due donne del paese, eccetera. (…) Per quello che concerne l’arcivescovo di Manfredonia, Pasquale Gagliardi, la visita apostolica dovette stabilire la verità su atti illeciti che ci risulta penoso enunciare: stupro di una suora in clausura, rapporti sessuali continui con un’altra, sacerdozio accordato contro pagamento a noti invertiti, simonie abituali, appropriazione delle offerte delle messe in decine di migliaia di casi, eccetera”.
In seguito alla Visita apostolica, Palladino fu sospeso a divinis, l’arciprete Prencipe e il canonico De Nittis incriminati per immoralità e falsa testimonianza, l’arcivescovo Gagliardi deposto dalla sua carica. Ma, secondo una consuetudine mai passata di moda, tornarono presto sulla scena ripuliti nell’onore e protetti nell’agire dalle eminentissime coperture romane. E padre Pio continuò a essere perseguitato con ulteriori restrizioni canoniche alimentate dalla calunnia suscitata ad arte.
INDAGINE AD ALTA QUOTA Emanuele Brunatto riuscì a scoprire il verminaio da cui originava la persecuzione del suo padre spirituale grazie a un incarico riservato affidatogli da monsignor Bevilacqua per conto del cardinale Gasparri. Monsignor Bevilacqua, il 15 dicembre 1927, ricevette una breve lettera su carta intestata della Segreteria di Stato di Sua Santità: “Il sottoscritto Cardinale Segretario di Stato, con la speciale approvazione del S. Padre, dà incarico a Mons. Felice Bevilacqua di compiere una inchiesta nei riguardi di un ecclesiastico le cui generalità saranno manifestate a voce, autorizzandolo a esaminare quelle persone che egli stimerà giovevoli ai fini dell’inchiesta e a sottoporle al giuramento ‘de veritate dicenda et de secreto servando’; e lo munisce all’uopo di tutte le facoltà necessarie ed opportune, ordinando a chiunque, anche costituito in dignità o comunque esente, di prestarsi a quanto potrà richiedere. Pietro Cardinal Gasparri”.
Quattro giorni più tardi, il 19 dicembre, Bevilacqua scriveva a Brunatto su carta intestata del Vicariato di Roma – Ufficio II: “Dovendo il sottoscritto, per mandato della Superiore Autorità, inquirere canonicamente sulla condotta di un ecclesiastico, con la presente dà incarico al Signor EMANUELE BRUNATTO di compiere al riguardo alcune investigazioni. Mons. Felice Bevilacqua”.
Il Libro Bianco non entra dei dettagli dell’inchiesta. Ci entrarono invece la Lettera alla Chiesa, stampato nel 1929, e Gli Anticristi nella Chiesa di Cristo, stampato nel 1933, oggi quasi introvabili. E ci entra anche Il Santo e il Peccatore, uscito nel 2013 a firma di Edoardo Misuraca. Un’attenta comparazione dimostra che i tre volumi, nella parte narrativa, sono sostanzialmente sovrapponibili e c’è una ragione. La Lettera alla Chiesa fu scritta per minacciarne la pubblicazione e ottenere in cambio la liberazione di padre Pio: ma, una volta consegnata l’intera tiratura alla nunziatura apostolica di Monaco di Baviera, le autorità vaticane non mantennero la promessa. Gli Anticristi nella Chiesa di Cristo, scritto con lo stesso scopo, ebbe l’effetto desiderato e quindi fu ritirato dalla circolazione. Il Santo e il Peccatore, di non facile reperibilità, intende colmare la lacuna storiografica dovuta alla gestione strategica dei precedenti libri, e quindi ne è una sorta di riscrittura. Misuraca, nipote acquisito di Brunatto, rende in tal modo possibile capire chi fosse e cosa fece veramente l’uomo che salvò il frate recluso a San Giovanni Rotondo. “L’ho fatto per mantenere una promessa fatta sulla tomba di Emanuele ben vent’anni fa” dice. “E anche per tutelare tramite copyright le notizie e i fatti che vi sono contenuti e sono suffragati dall’enorme mole documentale e fotografica in possesso esclusivo dell’associazione di cui faccio parte insieme all’amico Alberindo Grimani”.
Le citazioni che seguono sono tratte da quest’ultima edizione della vicenda. Con la consapevolezza che nomi, fatti e circostanze fanno tremare i polsi, è comunque opportuno raccontare almeno una piccolissima parte di quanto emerse dall’inchiesta avviata dal Segretario di Stato di Sua Santità, malvista da Sua Santità e condotta da “ù poliziottu”. Chi preferisce rimanerne all’oscuro può andare direttamente al capitolo conclusivo. E il papalino d’antan che si chiede se valga la pena di raccontare “certe cose” dovrebbe invece chiedersi se sia onesto soffiare sul fuoco degli scandali di Bergoglio e coprire quelli dei suoi predecessori.
C’È DEL MARCIO A ROMA. E NON DA OGGI “Non si trattava, (…) di perseguire l’uno o l’altro pederasta, ma di smantellare un sistema di perversione che si era inserito nelle stanze superiori della Chiesa. (…) Intorno a questa congrega di invertiti che si contendevano i favori del Santo Padre, un’altra mafia di Gesuiti e di prelati erano lungi dal combattere lo scandalo, e lo utilizzavano solamente per fini personali, al fine di mettere a personale profitto le miserie del Papa”. Forse un po’ dura, della durezza del cattolico romano che scopre il potere del peccato là dove gli hanno insegnato che non può esservi, questa descrizione di Brunatto fa comprendere immediatamente chi e cosa dominasse sul destino terreno di padre Pio.
Il pontificato in questione è quello di Benedetto XV, ma, per non smarrirsi, serve seguire il filo delle ricerche del “poliziottu”, che partono dalla corte di Pio XI. Due dei primi personaggi sottoposti all’attenzione dell’investigatore furono monsignor Ricardo Sanz de Samper y Campuzano, Prefetto dei Sacri Palazzi Apostolici e maggiordomo privato di Sua Santità, e monsignor Camillo Caccia Dominioni, Maestro di Camera di Sua Santità. Entrambi così vicini al soglio e al potere pontificio grazie a Benedetto XV, erano in odore di cardinalato, ma Gasparri e Merry del Val volevano evitare le nomine sapendo che l’uno e l’altro ne indegni.
Nelle sue memorie, Brunatto riassume la situazione con franchezza e sapidità a cui bisogna fare il palato: “La manifestazione storica di questa drammatica realtà sotto il pontificato di Pio XI è illustrata dalla fotografia che inquadra il suo trono durante le cerimonie: a destra del Papa vi è monsignor Ricardo de Samper, alla sua sinistra monsignor Camillo Caccia Dominioni, (…). L’uno e l’altro notoriamente invertiti. Questo inaudito scandalo durava da sei anni e pareva senza rimedio. Il più elevato in grado – de Samper – non poteva essere rinviato dalla sua carica senza essere prima ordinato cardinale, e se per caso il Pontefice avesse voluto passare oltre la tradizione e rinviarlo senza il cappello cardinalizio, costui era in grado di dimostrare che Caccia Dominioni non era certamente meglio di lui e che – per di più – il Pontefice stesso era legato al suo Maestro di Camera da una vecchia e particolare amicizia… In ogni modo e in ogni maniera la vogliate intendere, Pio XI doveva effettivamente a Caccia Dominioni la sua precedente nomina a cardinale, e quindi la sua ascesa al pontificato”.
Se la condotta di Caccia Dominioni era più discreta e accorta, quella di de Samper era di dominio pubblico. Quando, in precedenza, Benedetto XV aveva manifestato l’idea di nominarlo Prefetto dei Sacri Palazzi Apostolici, il cardinale Merry del Val, che era stato il suo più acceso avversario in conclave, si era gettato ai piedi per papa scongiurandolo di evitare uno scandalo così grande e di risparmiare una simile vergogna alla chiesa.
Brunatto documentò la partecipazione di Samper a orge sodomitiche in compagnia del cugino monsignor Peri-Morosini, poi sospeso a divinis per pederastia abituale. Accertò anche la complicità del cardinale Luigi Sincero. “Ottenni inoltre la confessione di sei seminaristi che avevano preso parte – due alla volta – alle orge sodomitiche del de Samper, ogni giorno e per parecchi mesi, nel suo appartamento in Vaticano, e raccolsi le testimonianze del (…) domestico – il quale fu indotto a commettere degli atti il cui carattere osceno oltrepassa l’immaginazione”. Risparmio al lettore la testimonianza.
Anche sulla condotta di monsignor Caccia Dominioni si trovarono testimoni e prove. Il giovane che ne aveva parlato, quindicenne all’epoca dei fatti, innescò uno scandalo che, tra maggio e agosto del 1928, mise a rumore Roma, tanto che “Pio XI si vide allora costretto ad allontanare – per qualche tempo – monsignor Caccia Dominioni dalla sua corte. Lo inviò al Congresso Eucaristico di Sidney, in Australia, a portarvi il dono pontificale di un calice d’oro massiccio: il calice del Divino Sacrificio! Per qualche anno ancora, il cardinalato doveva essere precluso al Maestro di Camera, poi come potete ben immaginare…”.
In effetti, Caccia Dominioni, da Pio XI in giù lungo tutta la gerarchia, aveva protezioni molto potenti. Intervenne in suo favore padre Rosa, direttore di Civiltà Cattolica, moralizzatore selettivo, uso a perseguire la condotta scandalosa solo quando tornava utile alla causa gesuita. Monsignor Bevilacqua, che pure aveva affidato l’indagine a Brunatto, chiese all’investigatore di attenuare e persino falsare il suo rapporto. Si mise in moto la solita macchina del fango per screditare l’inquisitore e scagionare l’inquisito. E se de Samper fu costretto a lasciare il suo posto senza la berretta cardinalizia, Caccia Dominioni invece l’ebbe. Fu lui, in qualità di cardinale protodiacono di santa romana chiesa, ad annunciare il 2 marzo l’elezione di Pio XII e poi a incoronarlo nella cerimonia del 12 marzo. Quasi a voler dire a chi sapeva intendere che, ancora più della Sicilia, la terra del gattopardo dove tutto cambia perché nulla cambi, è quell’isola territoriale che sta di là dal Tevere, e non è una porzione di Cielo sulla terra.
BENEDETTO TRA LE SPIE Una volta pescato il filo giusto, l’inchiesta del “poliziottu” di padre Pio, cominciò a dipanare una matassa infernale deposta nel cuore di più di un pontificato e nella quale erano impigliati figuri di vario genere, dai pervertiti che si facevano beffe della fede e della morale agli insospettabili difensori del rigore dottrinale recalcitranti a praticarlo in proprio. Un campione di questa razza gaglioffa fu “Rudolph Gerlach, che faceva parte del sistema allo stesso titolo di Caccia Dominioni, de Samper, Diana… sin dall’inizio del pontificato di Benedetto XV”.
Aspirante ufficiale espulso dall’armata tedesca in quanto esecutore di un falso, nel 1907 Gerlach entrò nel collegio salesiano di Friburgo, passò poi al Capranica di Roma e venne ordinato sacerdote. “Prestò il suo servizio alla corte pontificale in qualità di Cameriere Secreto Partecipante. Bel giovane, fu per un certo tempo il preferito da Benedetto XV”. Oltre a questo, Gerlach svolgeva l’attività di spia tedesca e, mentre il pontefice condannava l’inutile strage, lui contribuiva alle sconfitte e al massacro dei militari italiani. Tra l’altro, nel 1916, fu l’organizzatore dell’affondamento della corazzata Leonardo da Vinci. Una volta scoperto il gioco, riuscì a salvarsi grazie ai buoni uffici del papa e di tutta la sua corte. Scrive Brunatto: “Gerlach, avvertito, fece subito operare le più gravi minacce dal Pontefice e la Segreteria di Stato negoziò febbrilmente con il governo italiano, ottenendo di far partire – sotto adeguata scorta – la spia in abito talare in Svizzera”.
Molto interessante, e soprattutto inquietante, la ricostruzione dell’apparato difensivo della spia messo in campo dalla curia vaticana al processo che si aprì 12 aprile 1917 davanti al Tribunale militare di Roma: “Il padre Massaruti (gesuita), il cardinale Bisleti, il cardinale Vannutelli, monsignor Tedeschini (che era il corriere diplomatico vaticano attraverso il quale venivano spedite le lettere private del Grlach), monsignor Ciccone, il Prefetto della Biblioteca Vaticana (monsignor Achille Ratti), l’ammiraglio e marchese Antonio della Chiesa, il comandante Hirschbül della Guardia Svizzera, il principe Aldobrandini, il conte Camillo Pecci, il commendatore Angelini (direttore dell’Osservatore Romano), il marchese Gaetano de Felice (per il Corriere d’Italia e dell’Avvenire d’Italia, dei quali era redattore), il farmacista vaticano, l’onorevole Valenzani, il dottor Filiziani (direttore di Vera Roma)… nessuno mancò all’appello per difendere la spia, ma nonostante ciò il Tribunale italiano condannò mons. Gerlach – contumace al processo – all’ergastolo. (…) Il giorno dopo la sentenza, monsignor Gerlach dedicava a suo padre una fotografia in cui faceva sfoggio delle sue recenti decorazioni: Croce di Ferro, Gran Cuore di Francesco Giuseppe, Ordine di Baviera, Merito Civile Bulgaro, Croce a collare dei Castellani Tedeschi, Croce di Ludovico di Baviera, Ordine Kontur di Baviera, ecc…”.
Chiunque nutra dubbi su quanto ha letto fino a qui può controllare l’inoppugnabile veridicità di nomi, fatti e circostanze su libri di storia e giornali dell’epoca. Oppure può gettare un occhio sulla documentazione che ne sta alla fonte, scoprendo verità ancora più tremende. O, ancora, leggere la testimonianza resa da padre Carmelo da Sessano per la causa di beatificazione di padre Pio, del quale fu diretto superiore dal 1953 al 1959 come guardiano del convento di San Giovanni Rotondo. Nella Positio, IV-A1, padre Carmelo dice: “Quando, per la prima volta, molti anni fa, ebbi la fortuna o, meglio, la sfortuna di leggere ‘Gli anticristi nella Chiesa di Cristo’, non potei prendere sonno per parecchio! Vi erano medaglioni biografici di alte personalità ecclesiastiche, avvalorati da documenti, che si sarebbero detti… romanzati. Pagine oggi che farebbero il giro del mondo, se pubblicate su ‘Men’, ‘Stop o ‘Playboy’!».
Ma, forse, la prova più convincente sta nel fatto che, dopo la beffa della Lettera alla Chiesa del 1929, consegnata alle autorità vaticane senza che padre Pio venisse liberato, con Gli Anticristi nella Chiesa di Cristo Brunatto si mostrò deciso ad andare fino in fondo. Non lo convinse neppure una lettera estorta al suo padre spirituale per convincerlo a desistere. “Ù poliziottu”, o il “Pubblicano” se preferite, replicò che non si sarebbe fermato: e la persecuzione di padre Pio, dopo dieci anni, improvvisamente cessò. Miracoli delle indagini condotte come Dio comanda.
La seconda via crucis del povero frate inizierà il 2 luglio 1959, esattamente come iniziò la prima, con un vescovo ricevuto in udienza privata da un papa. Questa volta sarà monsignor Girolamo Bartolomeo Bortignon, ordinario di Padova, a portare a Giovanni XXIII le sue accuse contro il frate stigmatizzato e il movimento di preghiera legato alla sua cura d’anime. Per liberare padre Pio arà necessaria una nuova inchiesta. Un nuovo capitolo del Romanzo Infernale.
SOLO LA SANTITÀ CI POTRÀ SALVARE Ho scritto queste pagine cercando di immaginare tutto il dolore e lo sconcerto dell’uomo che, per volere della Provvidenza, svelò la trama perversa dietro il ricamo dorato esibito alla venerazione, se non all’adorazione, dei fedeli di santa romana chiesa. E, soprattutto, ho cercato di afferrare almeno una particella del dolore provato dall’uomo che si fece carico di sopportare l’alfa e l’omega di un simile disegno infernale.
Davanti alla mia scrivania, sugli scaffali coperti di libri, ci sono le immagini di alcuni dei santi che venero con più devozione e amore. Al centro, c’è il Crocifisso di San Benedetto, quello che ho messo nelle mani di mia mamma mentre stava morendo qui nel mio studio, dove ora sto lavorando. Crux Sancti Patris Benedicti, Crux Sacra sit mihi lux, non draco sit mihi dux, vade retro, Satana! Numquam suade mihi vana, sunt mala quae libas, ipse venena bibas.
Davanti a questo Crocifisso e a questi santi, è venuto il momento di trarre qualche conclusione, o almeno qualche considerazione, da ciò che si è narrato. Tutto potrebbe essere riassunto in una parola sola: “Macellai!”, quel giudizio terrificante emesso da Gesù, per bocca di padre Pio, sui sacerdoti che lo chiamavano presente nell’ostia consacrata e subito dopo lo profanavano.
E, bisogna avere l’onestà di ammetterlo, allora non si celebrava ancora la cosiddetta messa nuova. Dunque, non c’era la sola questione di mutamento del rito alla radice del male. Al fondo si trovava, e si trova, ciò che precede e presiede la profanazione del rito, di qualsiasi rito, derubricandolo a semplice cerimonia o tributandolo al Nemico: la volontà di sfregiare e invertire il sacerdozio.
Non si può neanche ridurre tutto a una semplice, per quanto importante, questione di dottrina, perché molti degli uomini coinvolti nell’interminabile scandalo, di cui non si sono fatti nomi eminenti e venerati, erano fior di difensori della Lettera. Qualcuno obietterà che lo scandalo personale viene attenuato, o addirittura cassato dalla proclamazione della vera fede. Argomento la cui sottospecie suona in questo modo: “È sempre stato così, chi si scandalizza è un moralista”. Ma è un povero argomento da bar o da università della terza età, perché se non si vive come si crede, si finisce sempre per credere come si vive e per fare della dottrina moneta di scambio. Proprio il fatto che sia sempre stato così e nessuno si sia scandalizzato ci ha portato alla manifestazione planetaria di una chiesa invertita.
Non è neppure una semplice questione di morale retta. Se la morale non è pratica della vera fede, si finisce sempre per predicare il male pur razzolando bene. E il danno è tanto più grande quanto più il male è testimoniato dalla rettitudine del maestro e del pastore.
Meno ancora si può ridurre la soluzione del dramma al malinteso concetto taumaturgico di Tradizione, visto che la chiesa di Benedetto XV e Pio XI, per limitarsi al caso trattato, era identica nei suoi scandali a quella di Bergoglio. Troppo spesso chi si alimenta di Tradizione finisce per accontentarsi di un peccato che è solamente un po’ più vecchio di quello del suo tempo. La Tradizione bisogna avere il coraggio di cercarla ritrovandone la fonte e seguendo il suo corso là dove non si è mai prosciugato.
L’unica risposta cristiana al male, che poi è l’unica vera e praticabile, è quella di padre Pio: la santità. Quell’uomo ha accettato di soffrire per mano della chiesa proprio come i primi martiri accettarono di soffrire per mano dell’impero. In un caso e nell’altro, al potere iniquo e invertito viene opposta solo la rinuncia alla propria vita per amore di Cristo: la santità.
Per quanto ci si possa avvicinare al mistero immenso del frate stigmatizzato, si può immaginare che la missione a cui si è donato fosse quella di salvare il sacerdozio di Cristo da coloro che hanno il potere gerarchico di trasmetterlo e la volontà infernale di profanarlo. In memoria dell’ammonimento profetico secondo cui la sua vera missione sarebbe iniziata solo dopo la sua morte, i buoni sacerdoti che non vogliano essere soltanto bei fiori recisi senza radici dovrebbero baciare ogni giorno il lembo del suo saio. Come faceva dopo avergli servito la Messa il povero “Pubblicano”.
Alessandro Gnocchi (riscossacristiana.it)