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L’incontro tra Paolo VI e mons. Lefebvre: a noi posteri la facile sentenza

È da pochi giorni rimbalzata sui blog la notizia lanciata da Vatican Insider sull’uscita del libro di padre Leonardo Sapienza “La barca di Paolo”, in cui viene riportato integralmente il verbale del colloquio avvenuto tra Paolo VI e mons. Marcel Lefebvre. L’incontro avvenne a Castel Gandolfo, la residenza estiva dei pontefici, l’11 settembre del 1976, presenti anche don Pasquale Macchi, segretario particolare di papa Montini e don Giovanni Benelli, sostituto della Segreteria di Stato e futuro arcivescovo di Firenze. È proprio quest’ultimo il redattore delle otto cartelle che ora vengono a galla grazie alla pubblicazione di padre Sapienza. L’incontro durò dalle 10.27 alle 11.05 ma in quei pochi minuti è condensato un universo di problemi e argomenti che tengono banco ancora oggi, a distanza di 42 anni. I temi trattati non sono certo una sorpresa: ciò che fa effetto è sentire le voci di questi protagonisti riecheggiare dal freddo verbale stilato da un funzionario di curia. Diciamocela tutta: ciò che dice mons. Lefebrve è ciò che vorremmo dire anche noi se solo avessimo possibilità di poter esprimerci con il Potere. Lui ha però avuto l’occasione di farlo veramente, con coraggio e coerenza. A noi resta la soddisfazione di vedere, dopo 42 anni, cosa nel frattempo è successo e – perché no – chi dei due ha visto più lungo e forse aveva davvero ragione.

Ad oggi l’unico testo su cui confrontarsi è quello che Andrea Tornielli riporta sul suo blog, con alcuni stralci parafrasati. Resta il “beneficio del dubbio” sull’aderenza della sua versione in prosa con il documento vero e proprio. Intanto analizziamone alcuni punti:

Mons. Lefebvre introduce subito un passaggio fondamentale di tutto questo colloquio, ovvero il rapporto tra fede e obbedienza:

«La situazione nella Chiesa dopo il Concilio» è «tale che noi non sappiamo più che cosa fare. Con tutti questi cambiamenti o noi rischiamo di perdere la fede o noi diamo l’impressione di disobbedire. Io vorrei mettermi in ginocchio e accettare tutto; ma non posso andare contro la mia coscienza. Non sono io che ho creato un movimento» sono i fedeli «che non accettano questa situazione. Io non sono il capo dei tradizionalisti… Io mi comporto esattamente come facevo prima del Concilio. Io non posso comprendere come tutto d’un tratto mi si condanni perché formo preti nell’obbedienza della santa tradizione della santa Chiesa»

Paolo VI a tal proposito aveva così esordito:

«Lei ha giudicato il Papa come infedele alla Fede di cui è supremo garante. Forse è questa la prima volta nella storia che ciò accade. Lei ha detto al mondo intero che il Papa non ha la fede, che non crede, che è modernista, e così via. Debbo, sì, essere umile. Ma Lei si trova in una posizione terribile. Compie atti, davanti al mondo, di un’estrema gravità…»

L’attenzione pare rivolta sul problema dell’autorità messa in discussione. È vero che viene nominata la fede ma essa pare più funzionale al ruolo dell’autorità: in pratica mettendo in discussione l’ortodossia del Pontefice viene minata la sua potestà nella Chiesa. Questa sembrerebbe la prima preoccupazione: non la questione in sé stessa ma in quanto funzionale al ruolo.

Lefebvre non manca di sottolineare la già grave situazione del clero e della vita religiosa:

«Cerco di formare preti secondo la fede e nella fede. Quando guardo gli altri Seminari, soffro terribilmente: situazioni inimmaginabili. E poi: i religiosi che portano l’abito sono condannati o disprezzati dai Vescovi: quelli invece che sono apprezzati, sono quelli che vivono una vita secolarizzata, che si comportano come la gente del mondo»

Allorché Montini replica:

«Ma Noi non approviamo affatto questi comportamenti. Tutti i giorni ci adoperiamo con grande fatica e con uguale tenacia ad eliminare certi abusi, non conformi alla legge vigente della Chiesa, che è quella del Concilio e della Tradizione. Se Lei avesse fatto lo sforzo di vedere, di comprendere quello che fo e dico tutti i giorni, per assicurare alla Chiesa la fedeltà all’ieri e la rispondenza all’oggi e sì domani, non sarebbe arrivato al punto doloroso in cui si trova. Siamo i primi a deplorare gli eccessi. Siamo i primi ed i più solleciti a cercare un rimedio. Ma questo rimedio non può essere trovato in una sfida all’autorità della Chiesa. Gliel’ho scritto ripetutamente. Lei non ha tenuto conto delle mie parole»

A noi posteri viene già da sorridere. Non siamo più nel ’76, periodo certamente caldo, ma nel 2018: quali rimedi si sono cercati o trovati? Dove sono finiti i presunti sforzi di conservare la fedeltà all’ieri? Dove la tenacia ad eliminare gli abusi? Mistero. Il bestiario clericale non ha fatto altro che ingrossarsi di esempi e aneddoti che non riusciremmo nemmeno a catalogare data la mole. Quando si pensa di aver toccato il fondo, ancora oggi si resta sorpresi di quanto spazio ci sia ancora più giù. Si può anche toccare con mano che non c’è mai stata alcuna repressione verso abusi o bizzarrie più o meno gravi: quanti parroci sono rimossi dai loro incarichi per aver ballato in chiesa durante la S. Messa oppure per aver benedetto coppie omosessuali? Quanti privati del sostentamento dell’8 per 1000 per aver negato la Resurrezione di Gesù Cristo oppure trasportare l’Eucarestia con un drone in chiesa? Quanti hanno subito persecuzioni per aver negato i dogmi mariani o per essere stati beccati con amanti di ambo i sessi? Quasi nessuno. Addirittura alcuni hanno meritato per questo delle promozioni. Il lettore si chieda ora: quanti sacerdoti sono stati allontanati dai loro incarichi per la veste talare, la messa antica, l’altare ad orientem, la predicazione della dottrina di sempre? Il rapporto è agghiacciante. Infatti ad essere accusato davanti al pontefice che pur si gloriava di “lavorare con tenacia ad eliminare certi abusi” era mons. Lefebvre, che in fondo si limitava a fare ciò che avrebbe fatto un decennio prima e non i vescovi e sacerdoti sessantottini. Viene il dubbio che i “certi abusi” che si voleva “eliminare” fossero davvero quelli della chiesa fuori moda e non altri. Quei grandi impicci alla modernità che rimanevano, come mons. Lefebvre, quali massi erratici di un cammino che si voleva spianare alla svelta.

La risposta di papa Montini rimarca il solito punto: l’autorità. Elenca rimedi e metodi (?) ma non intende includere tra questi l’attacco all’autorità. Il connubio tra coscienza/fede e potere/autorità è assolutamente sterile: non porta rimedio. Questo lo possiamo affermare con cognizione di causa a distanza di decenni.

Proseguiamo.

Lefebvre rivolge al Papa «una preghiera. Non sarebbe possibile prescrivere che i Vescovi accordino, nelle chiese, una cappella in cui la gente possa pregare come prima del Concilio? Oggi si permette tutto a tutti: perché non permettere qualcosa anche a noi?». Risponde Paolo VI: «Siamo una comunità. Non possiamo permettere autonomie di comportamento alle varie parti». Lefebvre riprende: «Il Concilio ammette il pluralismo. Chiediamo che tale principio si applichi anche a noi. Se Vostra Santità lo facesse, tutto sarebbe risolto. Ci sarebbe aumento di vocazioni. Gli aspiranti al sacerdozio vogliono essere formati nella pietà vera. Vostra Santità ha nelle mani la soluzione del problema…»

Questo è un altro passaggio sconcertante. È possibile ammettere la buona fede di Paolo VI quando dice “non possiamo permettere autonomie di comportamento”? Non sapeva forse –lui così bene informato, come ci ricorda anche lo zelante Tornielli – che già nel ’76 ciascuna conferenza episcopale faceva di testa propria? Il catechismo olandese? Le traduzioni arbitrarie del già problematico novus ordo? Le preghiere eucaristiche che nascevano come funghi? Se si pensa che solo attendendosi fedelmente al nuovo rito è possibile, seguendo le varie piste proposte, celebrare decine di messe differenti l’una dall’altra, in centinaia di lingue nazionali, dove si troverebbe la coesione e l’unità del comportamento? Facile: come dice Lefebvre e conferma Montini, si può fare tutto tranne giocare a fare la vecchia chiesa fuori moda col suo rito vetusto e polveroso. Col senno di poi non paiono così lontane le lacrime versate da tanti vescovi all’uscita del Motu Proprio Summorum Pontificum del 2007, alla notizia della liberalizzazione dell’antico messale. Non pervenute invece le lacrime dei pur numerosi vescovi pro-vita quando papa Bergoglio ha dimostrato in svariate occasioni apprezzamenti verso la pluri-omicida Emma Bonino. Ortopedici e fisioterapisti tastano il paziente cercando di toccare vari punti alla ricerca di quello che fa più male. Qui non è difficile capire quale sia il punto che genera dolore e quelli che invece non sono un problema. Infatti mons. Lefebvre conclude sottolineando che papa Montini ha la possibilità di chiudere la questione. Ma non lo fece. Continua anzi a difendere i lupi dicendo:

«E’ doveroso, in pari tempo, riconoscere che ci sono segni, grazie al Concilio, di vigorosa ripresa spirituale fra i giovani, un aumento di senso di responsabilità fra i fedeli, i sacerdoti, i vescovi»

Comecomecome? Non solo vede la ripresa (pare di sentire Mario Monti o Matteo Renzi) ma addirittura la scorge vigorosa. La vedeva davvero? Non lo sappiamo. Possiamo solo dire che non c’era allora e non si intravede nemmeno adesso dopo 42 anni da quel giorno. Una cosa la vedeva bene perché c’era davvero: l’attacco all’autorità. Così Paolo VI conclude il colloquio:

«Faccia una dichiarazione pubblica, con cui siano ritrattate le sue recenti dichiarazioni e i suoi recenti comportamenti, di cui tutti hanno preso notizia come atti posti non per edificare la Chiesa, ma per dividerla e farle del male.»

Sarebbe stato bello sentire rivolta questa frase a qualche vescovo tedesco, a qualche vescovo teologo della liberazione, a qualche generico professore di teologia. Invece niente. È stata proprio rivolta a mons. Lefebvre. D’altronde poco prima Paolo VI aveva avuto modo di dire che della crisi della Chiesa: «Ne soffriamo profondamente. Lei ha contribuito ad aggravarla, con la sua solenne disubbidienza, colla sua sfida aperta contro il Papa». Riecco il problema dell’autorità. L’obbedienza cieca e assoluta messa in crisi. Se non fanno breccia le idee -che non avrebbero potuto essere forti nemmeno se avessero voluto – deve convincere il pugno di ferro. Lo vediamo anche oggi, dove si assiste ad un quotidiano surreale silenzio su tutto ciò che si dice o si scrive Oltretevere. Si aspetta sempre che la situazione precipiti. Se precipita si aspetta che peggiori. Se peggiora si aspetta che si schianti. Si aspetterà forse la canonizzazione di Paperino o Paperoga o l’elezione del primo cardinale donna-islamica-lesbica? Anche fosse ci sarebbe silenzio, ne sono certo. Mons. Lefebvre ha parlato e subito. Ha detto 42 anni fa le cose che vorremmo dire noi. Avrà sofferto, ma questa soddisfazione l’ha avuta.


Andrea Maccabiani -riscossacristiana.it