Il ricatto dell’obbedienza
In tempi più felici di quelli in cui viviamo, si soleva dire che Roma locuta est, causa finita est, Roma ha parlato, dunque la causa è conclusa. Da un cinquantennio a questa parte, questo lemma, degno dei migliori spiriti cattolici, non tiene più. Spesso pare addirittura rovesciato: se Roma parla, la causa inizia, in una voragine di confusione indescrivibile, che getta i fedeli in atroci dubbi di coscienza. Da cui nasce il problema dell’obbedienza.
Il nuovo magistero inaugurato col Vaticano II, col pretesto di una mai abbastanza decantata pastoralità, ha introdotto una legislazione rivoluzionaria che ha la caratteristica di essere sfuggente, ondeggiante e, soprattutto, abilissima nel tacere e sfuggire quella verità che dovrebbe proclamare. Questa legislazione fatta, oltre che di norme, di fatti, veicolati opportunamente ed importunamente dai media, non contenendo in genere in sé alcun aggancio alla Tradizione precedente, è stata – ed è – imposta in nome dell’obbedienza. È sempre l’argomento di autorità che viene adoperato per imporre una legislazione rivoluzionaria. Per orientarsi in questo dilemma che attanaglia i cristiani, occorre rispolverare il principio e la virtù dell’obbedienza secondo il perenne insegnamento della Chiesa.
L’obbedienza è una virtù esimia, ma ha un limite invalicabile: il peccato. Quando i santi parlano di obbedienza “cieca” e “incondizionata” ai propri superiori, danno per scontata l’esistenza di questo limite: solo l’obbedienza alla legge divina e naturale è incondizionata. Ma essa non è cieca, perché l’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, è dotato di intelligenza e di libertà, proprio per comprendere questa legge e osservarla liberamente, e non come un “robot”. L’uomo, creato per amare Dio, è libero di amarLo o non amarLo, di salvarsi o non salvarsi.
Se Dio stesso, nel piano salvifico dell’uomo, rispetta questa libertà che Egli stesso gli ha donato non si comprende come un’autorità che ha ricevuto una delega parziale e limitata del potere divino, al fine di avvicinare i sudditi a Dio, possa violarla esigendo da essi un’obbedienza incondizionata a precetti dubbi ed ambigui, che inducono alla violazione della legge divina. Evidentemente si tratta di un abuso, al quale occorre resistere. Ora, se tale abuso viene dal Papa, cioè da Colui che – specie in materia di fede e di morale – dovrebbe non favorire gli abusi ma reprimerli, la prova per un cattolico, sia egli cardinale, vescovo, prete o semplice fedele, assume delle proporzioni spaventose.
Resistere al Vicario di Cristo, infatti, ha in sé qualcosa di naturalmente inquietante, che ogni cattolico, per istinto, tende a rifiutare, poiché una tale opposizione sembra porlo fuori della Chiesa. Di fronte a tale dilemma, il padre Roger-Thomas Calmel O.P. (1914-1975), il grande teologo domenicano del secolo scorso, distingue una «sicurezza suprema» e una «sicurezza ordinaria» di essere nella Chiesa di Cristo.
La prima si fonda sull’infallibilità del Papa nelle definizioni ex cathedra, e in quelle del magistero ordinario universale, ossia nell’insegnamento in continuità con la Tradizione: «quod ubique, quod semper, quod ab omnibus», secondo il noto adagio di S. Vincenzo di Lerino. La «sicurezza ordinaria» si fonda sulle qualità personali del Papa, sui suoi doni di natura e di grazia. Ma nessuno ha mai sostenuto che il Papa non possa sbagliare «per il suo silenzio, le sue omissioni o i suoi equivoci». Una volta assicurata la «sicurezza suprema» della propria appartenenza alla Chiesa, attaccandosi fermamente alla Tradizione, occorre giudicare degli atti e decreti dubbi e, «nel caso in cui essi alterino i dogmi o il culto divino, opporvisi con fermezza, certamente con rispetto poiché si tratta del Papa, ma con fermezza, poiché si tratta di non rendersi complici di un peccato contro un dogma o contro l’autentica celebrazione del culto».
In sostanza, «in nome delle definizioni solenni infallibili, come anche dell’insegnamento ordinario in continuità con la Tradizione, occorre rifiutare gli atti fallibili e riformabili che con tutta evidenza distruggono la stessa Tradizione». L’accusa immediata che sorge davanti a questo atteggiamento è quello di avvicinarsi al libero esame protestante. Ma senza fondamento. «La Chiesa, infatti – continua il Teologo domenicano –, non ha mai inteso il primato di Pietro nel senso di puro arbitrio e in modo che i cristiani siano abbassati al rango indegno di sudditi incondizionati del Papa, ma in un senso conforme alla Tradizione».
Nella Pastor Aeternus si legge che «lo Spirito Santo non è stato promesso ai Successori di Pietro per permetter loro di pubblicare una dottrina nuova… Esso è stato loro promesso per conservare santamente ed esporre fedelmente la Rivelazione trasmessa dagli Apostoli, cioè il Deposito della Fede». L’autorità che pretendesse di affrancarsi dal suo compito ben preciso e determinato – sostiene padre Calmel – «obbliga per ciò stesso i sudditi a non obbedire». In altri termini, l’obbedienza del cristiano è contenuta in limiti ben definiti.
Evidentemente non si tratta di un invito alla disobbedienza, ma – al contrario – di una spiegazione del primato dell’obbedienza a Dio quando l’autorità travalica ed abusa del proprio potere. È, in altri termini, l’obbedienza volontaristica che, senza tentennamenti, va rifiutata. Un’obbedienza incondizionata a chicchessia – dal Papa in giù – sotto il falso pretesto che Chi obbedisce non fallisce, non ha nulla di cristiano, poiché dimentica che chi comanda – chiunque egli sia – non è né esente da peccato, né è dispensato lui stesso dall’obbedire alle leggi e tradizioni quando comanda. San Gregorio Magno senza mezzi termini affermava che «chi si sottomette al male per obbedienza è più vicino alla ribellione che alla sottomissione».
Occorre naturalmente mantenere sempre una sincera sottomissione al Papa, ma nessuno può negare che seguire le direttive del Papa oggi significa “non fare ciò che si è fatto per (almeno) 15 secoli”. L’intelletto più sprovveduto comprenderebbe che una tale obbedienza è fortemente dubbia. Ogni vero cattolico deve allora riandare alle radici della propria Fede e ricordare che la Chiesa è «la società gerarchica dell’eroismo cristiano», non del conformismo comodo «attraverso il quale si può peccare – ahimè – anche obbedendo».
La Chiesa è «il Corpo mistico di Cristo, la sua Sposa santa, una società al livello della vita teologale e dell’onore dei santi, una società gerarchica della grazia dove ci è prescritto l’eroismo della carità, nella vera obbedienza, ben diversa dal conformismo. È il senso e l’esperienza della trascendenza del mistero della Chiesa che permette alle anime obbedienti di opporre un rifiuto rispettoso ma fermo ai decreti della gerarchia quando, con tutta evidenza, essi urtano contro la più sicura Tradizione».
È solo con queste armi spirituali – la certezza della trascendenza della Chiesa e la conoscenza dei limiti dell’obbedienza, unite alla preghiera e alla penitenza – che ogni fedele può resistere al ricatto dell’obbedienza che è «l’arma corrente e supremamente perfida per farci capitolare: voi – ci dicono – non obbedite al Papa». Non bisogna cedere al ricatto dell’obbedienza che si fonda sulla confidenza che i buoni cristiani hanno nella gerarchia. «È il fondamento del modernismo far piegare i fedeli sotto il pretesto della virtù e dell’amore a Dio, e abolire – in nome della virtù – i mezzi indispensabili di formazione conservazione (della fede). Il modernismo fa marciare le sue vittime sotto il vessillo dell’obbedienza, grazie ai sospetti di orgoglio che avvolgono tutte le critiche delle riforme, in nome del rispetto del Papa, dello zelo missionario, della carità e dell’unità».
La tattica del ricatto dell’obbedienza è quella di ridurre al silenzio, e in tal modo paralizzare, ogni santa reazione cristiana sotto l’apparenza di virtù. «Se si comprende il principio della rivoluzione e il suo procedimento di ricatto in nome della virtù, non si può far altro che rifiutarla. Questa strategia si fonda su una concezione troppo umana dell’autorità. Allora, per armarsi contro il ricatto dell’obbedienza, occorre ritornare alla concezione cristiana della Chiesa e della gerarchia». La quale insegna che la Chiesa di Cristo non può cambiare la sua dottrina, la sua Messa, il suo governo, il suo apostolato per adeguarsi supinamente al mondo moderno. Il nostro dovere immediato è di rifiutare ogni complicità con la distruzione, basandoci «sui dogmi immutabili e sulla Tradizione nel suo principio vivente, che è la fede immutabile».
Il Papa ha donato alla Chiesa un documento come l’Amoris laetitia che distrugge il matrimonio e la famiglia nel momento stesso in cui pretende di sostenerli e disciplinarli, demolisce mentre pretende di costruire. Questo è l’esempio classico di una legislazione rivoluzionaria, non l’unico ma forse uno dei più esemplari. Il caso più simile è quello della legislazione sulla Messa nuova. Ma, in questa come in quella, vale il principio che «una legge polimorfa o multiforme o pluridimensionale, non è una legge che obbliga». Davanti alla rivoluzione in atto, facciamo nostra la professione di fede di P. Calmel: «Credo nel Papa. Ringrazio il Signore per aver fatto una Chiesa con un papa, una Chiesa gerarchica. Ma non ho mai pensato che il papa sia impeccabile e ancor meno che, se il papa suggerisce un peccato, sia una mancanza di rispetto respingere i suoi suggerimenti. (…) Se Dio permette che il papa, benché infallibile, si lasci andare a debolezze di portata straordinaria, noi ci teniamo alla sua infallibilità e rifiutiamo le sue debolezze», per le quali continuiamo ad avvolgerlo della nostra più filiale ed incessante preghiera.
Contemplando con le lacrime del cuore il disfacimento generale prodotto nella Chiesa dalla legislazione rivoluzionaria dell’ultimo mezzo secolo, non possiamo in alcun modo renderci complici di essa. A chi tenta di ricattarci con l’obbedienza, senza sofismi di sorta né complesse speculazioni intellettuali additiamo con semplicità lo spettacolo di una Chiesa che, nella sua componente umana, è divenuta lo spettro di sé stessa. E davanti a questo scenario apocalittico ripetiamo, con profondo rispetto e con pari fermezza, le parole del primo Vicario di Cristo: «Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi più che a Lui, giudicatelo voi stessi» (At 4,19).
Cristiana de Magistris (corrispondenzaromana.it)