Si dice “miopia” quando uno non vede bene le cose lontane. Si dice “superbia” quando uno ritiene di essere l’inventore del mondo, il primo della storia. Si dice “morale di situazione” quando uno pretende di sostituire, per le questioni etiche della vita, le norme oggettive e gli imperativi comuni con le aspirazioni soggettive e il sentimento personale. Il vaticanosecondismo ha moltiplicato la genìa miope, superba, situazionista. Ha portato in dote progressisti clericali che soffrono di amnesia, riformatori con la demenza senile, estimatori e divulgatori dell’Amoris Laetitia (intesa come pratica oltre che come esortazione apostolica) dalla memoria corta. Perché a volte basta guardare indietro per trovare già tutto; basta sfogliare e leggere pagine ingiallite magari scritte in un italiano un po’ aulico o in latino: esercizio che tra le sacre mura e i sacri palazzi, a quanto è ammesso sperare nonostante dentro e fuori circoli un diffuso analfabetismo cattolico, qualcuno dovrebbe essere ancora capace di fare.
Ecco, dunque: i casi di “convivenza” (più o meno fraterna) e di “concubinato”, la “occasione necessaria” e il “peccatore pubblico” esistevano anche prima del Sessantadue e del Sessantotto; le relative voci presenti e affrontate già nei dizionari teologici anteriori alla scossa conciliare (per esempio, Aertnys-Damen, “Theologia moralis”, II, Taurini 1939, pagg. 211, 473, 477, 478 e 491-494).
Sulla nozione di convivenza fraterna, monsignor Giovanni Sessolo, sostituto della Sacra Penitenzieria Apostolica, scriveva non ieri ma sessant’anni fa, nel 1957, felicemente regnante il Sommo Pontefice Pio XII:
“È la condizione di vita comune, sotto lo stesso tetto, di un uomo e di una donna, che si trattano come fratelli, in una relazione quindi che si distingue da quella tra sposo e sposa, perché non si permettono non solo l’atto coniugale, ma neppure quegli atti di confidenza e libertà che sono permessi ai coniugi; ma, nello stesso tempo, in una relazione che si distingue da quella tra padrone e serva o tra servo e padrona”.
Concretamente, “la convivenza fraterna è la condizione di vita che debbono imporsi tutti quelli che hanno contratto una unione irregolare, che non può essere sanata con un vero matrimonio e che, d’altra parte, per gravissime ragioni, non può essere spezzata. Perché, se l’unione potesse essere spezzata, anche a costo di grandi sacrifici (cfr. Mt. 5,29 s.), questa sarebbe la soluzione da prendere, come quella che elimina radicalmente ogni pericolo di peccato e di scandalo”.
Siccome le voglie, le fragilità, le debolezze, le cadute e le colpe delle carne non sono nate con questo pontificato – come si pensa o si vuol far credere – ecco come prosegue il Sessolo (un cognome, ne converrete, perfettamente adeguato al tema).
“Possono però esservi gravissime ragioni contro la separazione, per esempio la prole da educare, la necessità di aiuto reciproco e in qualche caso (quando gli pseudoconiugi, nel luogo ove abitualmente risiedono, fossero creduti marito e moglie) anche il pericolo di infamia e di scandalo.
Quando ci sono queste gravissime ragioni contro la separazione, allora gli pseudoconiugi: 1) da una parte possono, senza temerarietà, sperare da Dio l’aiuto necessario per vivere castamente; 2) dall’altra parte possono, ragionevolmente, sperare di poter, con opportune e prudenti dichiarazioni, rimuovere efficacemente lo scandalo presso quelli che conoscono la loro condizione irregolare”.
Adesso viene il bello, adulatori dell’attualità ai quali è stata estirpata la facoltà del ricordo!
“Se gli pseudoconiugi vivono davvero castamente, come fratello e sorella, e se l’eventuale scandalo è stato efficacemente rimosso, nulla vieta che essi possano accedere ai Sacramenti. Chi giudicherà se le due suddette condizioni sono avverate?”, si domanda pragmaticamente il Sessolo, smentendo quegli ignobili cialtroni della pubblicistica che rappresentano la Chiesa di una volta come una fredda difensora della norma, dell’ideale, distante dalla vita concreta, dal reale.
Risposta:
“Della vita casta giudicherà il confessore, il quale, assicuratosi del sincero pentimento e del fermo proposito degli pseudoconiugi di vivere castamente, suggerirà loro gli opportuni mezzi per rendere remota ogni occasione di peccato e li sottoporrà a un congruo periodo di prova.
Dopo di che, se non ci fosse scandalo – nel caso cioè che la loro condizione irregolare fosse del tutto occulta – gli pseudoconiugi possono senz’altro essere ammessi ai Sacramenti.
Quando invece ci fosse scandalo, finché questo non sarà efficacemente rimosso, gli pseudoconiugi, pur vivendo castamente, non possono accedere ai Sacramenti, neppure in segreto e dove nessuno li conosce. Perché non si può ritenere ben disposto a ricevere i Sacramenti, chi rimane ancora, sia pure altrove, causa di attuale scandalo.
Della rimozione dello scandalo è giudice l’Ordinario del luogo. Al quale spetta nel caso: 1) stabilire i mezzi che ritiene più opportuni per la efficace rimozione dello scandalo; 2) giudicare quando questo scandalo sia stato effettivamente rimosso”.
Dimenticate la data. Non pare anche a voi che questa dottrina sia avanti anni luce, decisamente più attuale e moderna, onestamente più pura, limpida e chiara, meno confusionaria, estemporanea e divagante di quella espressa in nove capitoli, 325 paragrafi, 264 pagine, note e mille chiacchiere odierne?