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(Finalmente) L' appello di alcuni cardinali al Papa perchè chiarisca...

ROMA, 14 novembre 2016 – La lettera e le cinque domande riportate integralmente più sotto non hanno bisogno di tante spiegazioni. Basta leggerle. La novità è che quattro cardinali che lo scorso 19 settembre le hanno consegnate a Francesco, senza avere avuto risposta, hanno deciso di renderle pubbliche incoraggiati proprio da questo silenzio del papa, per "continuare la riflessione e la discussione" con "l'intero popolo di Dio".

Lo spiegano nella premessa alla pubblicazione del tutto. E il pensiero corre dritto a Matteo 18, 16-17: "Se il tuo fratello non ti ascolterà, prendi con te due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all'assemblea".

"Testimone" è stato in questo caso il cardinale Gerhard L. Müller, prefetto della congregazione per la dottrina della fede. Perché anche a lui, oltre che al papa, erano state consegnate la lettera e le domande.

Le cinque domande sono infatti formulate come nelle classiche interpellanze alla congregazione per la dottrina della fede. Formulate cioè in modo tale che ad esse si possa rispondere semplicemente con un sì o un no.

Di norma, le risposte date dalla congregazione menzionano esplicitamente l'avvenuta approvazione del papa. E nelle udienze di tabella date da Francesco al cardinale prefetto dopo la consegna della lettera e delle domande, è giocoforza che i due ne abbiano parlato.

Ma appunto, al loro appello i quattro cardinali non hanno avuto nessuna risposta, né dal cardinale Müller né dal papa, evidentemente per volontà di quest'ultimo.

I quattro cardinali che hanno firmato e ora rendono pubblica questa lettera non sono tra gli stessi che un anno fa, all'inizio della seconda sessione del sinodo sulla famiglia, consegnarono a Francesco la famosa lettera "dei tredici cardinali":

> Tredici cardinali hanno scritto al papa. Ecco la lettera (12.10.2015)

I tredici erano tutti membri del sinodo e in pieno servizio nelle rispettive diocesi. Oppure ricoprivano importanti incarichi in curia, come i cardinali Robert Sarah, George Pell e lo stesso Müller.

Questi quattro, invece, pur tutti di riconosciuta autorevolezza, sono privi di ruoli operativi, o per motivi di età o perché esonerati.

E ciò li rende più liberi. Non è un mistero, infatti, che il loro appello è stato ed è condiviso da non pochi altri cardinali che sono tuttora in piena attività, nonché da vescovi e arcivescovi di prima grandezza d'Occidente e d'Oriente, che però hanno scelto di restare in ombra.

Tra pochi giorni, il 19 e 20 novembre, si riunirà a Roma l'intero collegio cardinalizio, per il concistoro convocato da papa Francesco. E inevitabilmente l'appello dei quattro cardinali diventerà tra loro materia di discussione animata.

Corsi e ricorsi storici. È stato nel concistoro del febbraio del 2014 che Francesco diede il via alla lunga marcia che è sfociata nell'esortazione "Amoris laetitia", quando affidò al cardinale Walter Kasper la relazione d'apertura, a sostegno della comunione ai divorziati risposati.

Subito in quel concistoro la controversia scoppiò accesissima. Ed è la stessa che oggi ancor più divide la Chiesa, anche ai suoi gradi più alti, visto come sono contraddittoriamente interpretate e applicate le non chiare suggestioni di "Amoris laetitia".

Kasper è tedesco e, curiosamente, due dei cardinali che – sul fronte a lui opposto – pubblicano il presente appello sono anche loro tedeschi, per non dire del cardinale Müller che firmò la lettera "dei tredici" e ora ha ricevuto quest'altra lettera non meno esplosiva.

La divisione nella Chiesa c'è. E clamorosamente attraversa proprio quella Chiesa di Germania che rappresenta per molti la punta più avanzata del cambiamento.

E papa Francesco tace. Forse perché pensa che "le opposizioni aiutano", come ha spiegato al confratello gesuita Antonio Spadaro nel dare alle stampe l'antologia dei suoi discorsi da arcivescovo di Buenos Aires, in libreria da pochi giorni.

Aggiungendo:

"La vita umana è strutturata in forma oppositiva. Ed è quello che succede adesso anche nella Chiesa. Le tensioni non vanno necessariamente risolte e omologate. Non sono come le contraddizioni".

Ma appunto. Qui di contraddizioni si tratta. Sì o no. Sono queste e non altre le risposte dovute alle cinque domande dei quattro cardinali, sui punti cruciali della dottrina e della vita della Chiesa messi in forse da "Amoris laetitia".

A loro la parola.


Fare chiarezza.

Nodi irrisolti di "Amoris laetitia" - Un appello



1. Una premessa necessaria

L’invio della lettera al Santo Padre Francesco da parte di quattro cardinali nasce da una profonda preoccupazione pastorale.

Abbiamo constatato un grave smarrimento di molti fedeli e una grande confusione, in merito a questioni assai importanti per la vita della Chiesa. Abbiamo notato che anche all’interno del collegio episcopale si danno interpretazioni contrastanti del capitolo ottavo di "Amoris laetitia".

La grande Tradizione della Chiesa ci insegna che la via d’uscita da situazioni come questa è il ricorso al Santo Padre, chiedendo alla Sede Apostolica di risolvere quei dubbi che sono la causa di smarrimento e confusione.

Il nostro è dunque un atto di giustizia e di carità. 

Di giustizia: colla nostra iniziativa professiamo che il ministero petrino è il ministero dell’unità, e che a Pietro, al Papa, compete il servizio di confermare nella fede.

Di carità: vogliamo aiutare il Papa a prevenire nella Chiesa divisioni e contrapposizioni, chiedendogli di dissipare ogni ambiguità.

Abbiamo anche compiuto un preciso dovere. Secondo il Codice di diritto canonico (can. 349) è affidato ai cardinali, anche singolarmente presi, il compito di aiutare il Papa nella cura della Chiesa universale.

Il Santo Padre ha deciso di non rispondere. Abbiamo interpretato questa sua sovrana decisione come un invito a continuare la riflessione e la discussione, pacata e rispettosa.

E pertanto informiamo della nostra iniziativa l’intero popolo di Dio, offrendo tutta la documentazione.

Vogliamo sperare che nessuno interpreti il fatto secondo lo schema “progressisti-conservatori”: sarebbe totalmente fuori strada. Siamo profondamente preoccupati del vero bene delle anime, suprema legge della Chiesa, e non di far progredire nella Chiesa una qualche forma di politica.

Vogliamo sperare che nessuno ci giudichi, ingiustamente, avversari del Santo Padre e gente priva di misericordia. Ciò che abbiamo fatto e stiamo facendo nasce dalla profonda affezione collegiale che ci unisce al Papa, e dall’appassionata preoccupazione per il bene dei fedeli. 

Card. Walter Brandmüller
Card. Raymond L. Burke
Card. Carlo Caffarra
Card. Joachim Meisner 


2. La lettera dei quattro cardinali al papa

Al Santo Padre Francesco
e per conoscenza a Sua Eminenza il Cardinale Gerhard L. Müller

Beatissimo Padre,

a seguito della pubblicazione della Vostra Esortazione Apostolica "Amoris laetitia" sono state proposte da parte di teologi e studiosi interpretazioni non solo divergenti, ma anche contrastanti, soprattutto in merito al cap. VIII. Inoltre i mezzi di comunicazione hanno enfatizzato questa diatriba, provocando in tal modo incertezza, confusione e smarrimento tra molti fedeli.

Per questo, a noi sottoscritti ma anche a molti Vescovi e Presbiteri, sono pervenute numerose richieste da parte di fedeli di vari ceti sociali sulla corretta interpretazione da dare al cap. VIII dell’Esortazione.

Ora, spinti in coscienza dalla nostra responsabilità pastorale e desiderando mettere sempre più in atto quella sinodalità alla quale Vostra Santità ci esorta, con profondo rispetto, ci permettiamo di chiedere a Lei, Santo Padre, quale supremo Maestro della fede chiamato dal Risorto a confermare i suoi fratelli nella fede, di dirimere le incertezze e fare chiarezza, dando benevolmente risposta ai "Dubia" che ci permettiamo allegare alla presente.

Voglia la Santità Vostra benedirci, mentre Le promettiamo un ricordo costante nella preghiera.

Card. Walter Brandmüller
Card. Raymond L. Burke
Card. Carlo Caffarra
Card. Joachim Meisner

Roma, 19 settembre 2016



3. I "Dubia"

1.    Si chiede se, a seguito di quanto affermato in "Amoris laetitia" nn. 300-305, sia divenuto ora possibile concedere l’assoluzione nel sacramento della Penitenza e quindi ammettere alla Santa Eucaristia una persona che, essendo legata da vincolo matrimoniale valido, convive "more uxorio" con un’altra, senza che siano adempiute le condizioni previste da "Familiaris consortio" n. 84 e poi ribadite da "Reconciliatio et paenitentia" n. 34 e da "Sacramentum caritatis" n. 29. L’espressione "in certi casi" della nota 351 (n. 305) dell’esortazione "Amoris laetitia" può essere applicata a divorziati in nuova unione, che continuano a vivere "more uxorio"?

2.    Continua ad essere valido, dopo l’esortazione postsinodale "Amoris laetitia" (cfr. n. 304), l’insegnamento dell’enciclica di San Giovanni Paolo II "Veritatis splendor" n. 79, fondato sulla Sacra Scrittura e sulla Tradizione della Chiesa, circa l’esistenza di norme morali assolute, valide senza eccezioni, che proibiscono atti intrinsecamente cattivi?

3.    Dopo "Amoris laetitia" n. 301 è ancora possibile affermare che una persona che vive abitualmente in contraddizione con un comandamento della legge di Dio, come ad esempio quello che proibisce l’adulterio (cfr. Mt 19, 3-9), si trova in situazione oggettiva di peccato grave abituale (cfr. Pontificio consiglio per i testi legislativi, Dichiarazione del 24 giugno 2000)?

4.    Dopo le affermazioni di "Amoris laetitia" n. 302 sulle "circostanze attenuanti la responsabilità morale", si deve ritenere ancora valido l’insegnamento dell’enciclica di San Giovanni Paolo II "Veritatis splendor" n. 81, fondato sulla Sacra Scrittura e sulla Tradizione della Chiesa, secondo cui: "le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto soggettivamente onesto o difendibile come scelta"?

5.    Dopo "Amoris laetitia" n. 303 si deve ritenere ancora valido l’insegnamento dell’enciclica di San Giovanni Paolo II "Veritatis splendor" n. 56, fondato sulla Sacra Scrittura e sulla Tradizione della Chiesa, che esclude un’interpretazione creativa del ruolo della coscienza e afferma che la coscienza non è mai autorizzata a legittimare eccezioni alle norme morali assolute che proibiscono azioni intrinsecamente cattive per il loro oggetto?



4. Nota esplicativa a cura dei quattro cardinali

IL CONTESTO

I "dubia" (dal latino: "dubbi") sono questioni formali poste al Papa e alla Congregazione per la Dottrina della Fede chiedendo chiarificazioni circa particolari temi concernenti la dottrina o la pratica.

Ciò che è particolare a riguardo di queste richieste è che esse sono formulate in modo da richiedere come risposta "sì" o "no", senza argomentazione teologica. Non è nostra invenzione questa modalità di rivolgersi alla Sede Apostolica; è una prassi secolare.

Veniamo alla concreta posta in gioco.

Dopo la pubblicazione dell’esortazione apostolica postsinodale "Amoris laetitia" sull’amore nella famiglia, si è sollevato un ampio dibattito, in particolare attorno al capitolo ottavo. Nello specifico, i paragrafi 300-305 sono stati oggetto di divergenti interpretazioni.

Per molti – vescovi, parroci, fedeli – questi paragrafi alludono o anche esplicitamente insegnano un cambio nella disciplina della Chiesa rispetto ai divorziati che vivono in una nuova unione, mentre altri, ammettendo la mancanza di chiarezza o anche l’ambiguità dei passaggi in questione, nondimeno argomentano che queste stesse pagine possono essere lette in continuità col precedente magistero e non contengono una modifica nella pratica e nell’insegnamento della Chiesa.

Animati da una preoccupazione pastorale per i fedeli, quattro cardinali hanno inviato una lettera al Santo Padre sotto forma di "dubia", sperando di ricevere chiarezza, dato che il dubbio e l’incertezza sono sempre altamente detrimenti alla cura pastorale. 

Il fatto che gli interpreti giungano a differenti conclusioni è dovuto anche a divergenti vie di comprendere la vita cristiana. In questo senso, ciò che è in gioco in "Amoris laetitia" non è solo la questione se i divorziati che sono entrati in una nuova unione – sotto certe circostanze – possano o meno essere riammessi ai sacramenti.

Piuttosto, l’interpretazione del documento implica anche differenti, contrastanti approcci allo stile di vita cristiano.

Così, mentre la prima questione dei "dubia" concerne un tema pratico riguardante i divorziati risposati civilmente, le altre quattro questioni riguardano temi fondamentali della vita cristiana.


LE DOMANDE

Dubbio numero 1:

Si chiede se, a seguito di quanto affermato in "Amoris laetitia" nn. 300-305, sia divenuto ora possibile concedere l’assoluzione nel sacramento della Penitenza e quindi ammettere alla Santa Eucaristia una persona che, essendo legata da vincolo matrimoniale valido, convive "more uxorio" con un’altra, senza che siano adempiute le condizioni previste da "Familiaris consortio" n. 84 e poi ribadite da "Reconciliatio et paenitentia" n. 34 e da "Sacramentum caritatis" n. 29. L’espressione "in certi casi" della nota 351 (n. 305) dell’esortazione "Amoris laetitia" può essere applicata a divorziati in nuova unione, che continuano a vivere "more uxorio"?


La prima domanda fa particolare riferimento ad "Amoris laetitia" n. 305 e alla nota 351 a piè di pagina. La nota 351, mentre parla specificatamente dei sacramenti della penitenza e della comunione, non menziona i divorziati risposati civilmente in questo contesto e neppure lo fa il testo principale.

Il n. 84 dell’esortazione apostolica "Familiaris consortio" di Papa Giovanni Paolo II contemplava già la possibilità di ammettere i divorziati risposati civilmente ai sacramenti. Esso menziona tre condizioni:

- Le persone interessate non possono separarsi senza commettere una nuova ingiustizia (per esempio, essi potrebbero essere responsabili per l’educazione dei loro figli);

- Essi prendono l’impegno di vivere secondo la verità della loro situazione, cessando di vivere insieme come se fossero marito e moglie ("more uxorio"), astenendosi dagli atti che sono propri degli sposi;

- Essi evitano di dare scandalo (cioè, essi evitano l’apparenza del peccato per evitare il rischio di guidare altri a peccare).

Le condizioni menzionate da "Familiaris consortio" n. 84 e dai successivi documenti richiamati appariranno immediatamente ragionevoli una volta che si ricorda che l’unione coniugale non è basata solo sulla mutua affezione e che gli atti sessuali non sono solo un’attività tra le altre che la coppia compie. 

Le relazioni sessuali sono per l’amore coniugale. Esse sono qualcosa di così importante, così buono e così prezioso, da richiedere un particolare contesto: il contesto dell’amore coniugale. Quindi, non solo i divorziati che vivono in una nuova unione devono astenersi, ma anche chiunque non è sposato. Per la Chiesa, il sesto comandamento "non commettere adulterio" ha sempre coperto ogni esercizio della sessualità umana che non sia coniugale, cioè, ogni tipo di atto sessuale al di fuori di quello compiuto col proprio legittimo sposo.

Sembra che, se ammettesse alla comunione i fedeli che si sono separati o divorziati dal proprio legittimo coniuge e che sono entrati in una nuova unione nella quale vivono come se fossero marito e moglie, la Chiesa insegnerebbe, tramite questa pratica di ammissione, una delle seguenti affermazioni riguardo il matrimonio, la sessualità umana e la natura dei sacramenti:

- Un divorzio non dissolve il vincolo matrimoniale, e i partner della nuova unione non sono sposati. Tuttavia, le persone che non sono sposate possono, a certe condizioni, compiere legittimamente atti di intimità sessuale. 

- Un divorzio dissolve il vincolo matrimoniale. Le persone che non sono sposate non possono realizzare legittimamente atti sessuali. I divorziati e risposati sono legittimamente sposi e i loro atti sessuali sono lecitamente atti coniugali.

- Un divorzio non dissolve il vincolo matrimoniale, e i partner della nuova unione non sono sposati. Le persone che non sono sposate non possono compiere atti sessuali. Perciò i divorziati risposati civilmente vivono in una situazione di peccato abituale, pubblico, oggettivo e grave. Tuttavia, ammettere persone all’Eucarestia non significa per la Chiesa approvare il loro stato di vita pubblico; il fedele può accostarsi alla mensa eucaristica anche con la coscienza di peccato grave. Per ricevere l’assoluzione nel sacramento della penitenza non è sempre necessario il proposito di cambiare la vita. I sacramenti, quindi, sono staccati dalla vita: i riti cristiani e il culto sono in una sfera differente rispetto alla vita morale cristiana.


Dubbio numero 2:

Continua ad essere valido, dopo l’esortazione postsinodale "Amoris laetitia" (cfr. n. 304), l’insegnamento dell’enciclica di San Giovanni Paolo II "Veritatis splendor" n. 79, fondato sulla Sacra Scrittura e sulla Tradizione della Chiesa, circa l’esistenza di norme morali assolute, valide senza eccezioni, che proibiscono atti intrinsecamente cattivi?


La seconda domanda riguarda l’esistenza dei così detti atti intrinsecamente cattivi. Il n. 79 dell’enciclica "Veritatis splendor" di Giovanni Paolo sostiene che è possibile "qualificare come moralmente cattiva secondo la sua specie […] la scelta deliberata di alcuni comportamenti o atti determinati prescindendo dall’intenzione per cui la scelta viene fatta o dalla totalità delle conseguenze prevedibili di quell’atto per tutte le persone interessate".

Così, l’enciclica insegna che ci sono atti che sono sempre cattivi, che sono vietati dalle norme morali che obbligano senza eccezione ("assoluti morali"). Questi assoluti morali sono sempre negativi, cioè, essi ci dicono che cosa non dovremmo fare. "Non uccidere". "Non commettere adulterio". Solo norme negative possono obbligare senza eccezione.

Secondo "Veritatis splendor", nel caso di atti intrinsecamente cattivi nessun discernimento delle circostanze o intenzioni è necessario. Anche se un agente segreto potesse strappare delle informazioni preziose dalla moglie del terrorista commettendo con essa un adulterio, così da salvare la patria (ciò che suona come un esempio tratto da un film di James Bond è stato già contemplato da San Tommaso d’Aquino nel "De Malo", q. 15, a. 1). Giovanni Paolo II sostiene che l’intenzione (qui "salvare la patria") non cambia la specie dell’atto ("commettere adulterio") e che è sufficiente sapere la specie dell’atto ("adulterio") per sapere che non va fatto.


Dubbio numero 3:

Dopo "Amoris laetitia" n. 301 è ancora possibile affermare che una persona che vive abitualmente in contraddizione con un comandamento della legge di Dio, come ad esempio quello che proibisce l’adulterio (cfr. Mt 19, 3-9), si trova in situazione oggettiva di peccato grave abituale (cfr. Pontificio consiglio per i testi legislativi, Dichiarazione del 24 giugno 2000)?


Nel paragrafo 301 "Amoris laetitia" ricorda che "la Chiesa possiede una solida riflessione circa i condizionamenti e le circostanze attenuanti". E conclude che "per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta ‘irregolare’ vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante".

Nella Dichiarazione del 24 giugno del 2000 il Pontificio consiglio per i testi legislativi mirava a chiarire il canone 915 del Codice di Diritto Canonico, che afferma che quanti "ostinatamente persistono in peccato grave manifesto, non devono essere ammessi alla Santa Comunione". La Dichiarazione del Pontificio consiglio afferma che questo canone è applicabile anche ai fedeli che sono divorziati e risposati civilmente. Essa chiarisce che il "peccato grave" dev’essere compreso oggettivamente, dato che il ministro dell’Eucarestia non ha mezzi per giudicare l’imputabilità soggettiva della persona.

Così, per la Dichiarazione, la questione dell’ammissione ai sacramenti riguarda il giudizio della situazione di vita oggettiva della persona e non il giudizio che questa persona si trova in stato di peccato mortale. Infatti soggettivamente potrebbe non essere pienamente imputabile, o non esserlo per nulla.

Lungo la stessa linea, nella sua enciclica "Ecclesia de Eucharistia", n. 37, San Giovanni Paolo II ricorda che "il giudizio sullo stato di grazia di una persona riguarda ovviamente solo la persona coinvolta, dal momento che è questione di esaminare la coscienza". Quindi, la distinzione riferita da "Amoris laetitia" tra la situazione soggettiva di peccato mortale e la situazione oggettiva di peccato grave è ben stabilita nell’insegnamento della Chiesa.

Giovanni Paolo II, tuttavia, continua a insistere che "in caso di condotta pubblica che è seriamente, chiaramente e stabilmente contraria alla norma morale, la Chiesa, nella sua preoccupazione pastorale per il buon ordine della comunità e per il rispetto dei sacramenti, non può fallire nel sentirsi direttamente implicata". Egli così riafferma l’insegnamento del canone 915 sopra menzionato.

La questione 3 dei "dubia" vorrebbe così chiarire se, anche dopo "Amoris laetitia", è ancora possibile dire che le persone che abitualmente vivono in contraddizione al comandamento della legge di Dio vivono in oggettiva situazione di grave peccato abituale, anche se, per qualche ragione, non è certo che essi siano soggettivamente imputabili per la loro abituale trasgressione.


Dubbio numero 4:

Dopo le affermazioni di "Amoris laetitia" n. 302 sulle "circostanze attenuanti la responsabilità morale", si deve ritenere ancora valido l’insegnamento dell’enciclica di San Giovanni Paolo II "Veritatis splendor" n. 81, fondato sulla Sacra Scrittura e sulla Tradizione della Chiesa, secondo cui: "le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto soggettivamente onesto o difendibile come scelta"?


Nel paragrafo 302 "Amoris laetitia" sottolinea che "un giudizio negativo su una situazione oggettiva non implica un giudizio sull’imputabilità o sulla colpevolezza della persona coinvolta". I "dubia" fanno riferimento all’insegnamento così come espresso da Giovanni Paolo II in "Veritatis splendor", secondo cui circostanze o buone intenzioni non cambiano mai un atto intrinsecamente cattivo in un atto scusabile o anche buono.

La questione è se "Amoris laetitia" concorda nel dire che ogni atto che trasgredisce i comandamenti di Dio, come l’adulterio, il furto, lo spergiuro, non può mai, considerate le circostanze che mitigano la responsabilità personale, diventare scusabile o anche buono.

Questi atti, che la Tradizione della Chiesa ha chiamato peccati gravi e cattivi in sé, continuano a essere distruttivi e dannosi per chiunque li commetta, in qualunque stato soggettivo di responsabilità morale egli si trovi?

O possono questi atti, dipendendo dallo stato soggettivo della persona e dalle circostanze e dalle intenzioni, cessare di essere dannosi e divenire lodevoli o almeno scusabili?


Dubbio numero 5:

Dopo "Amoris laetitia" n. 303 si deve ritenere ancora valido l’insegnamento dell’enciclica di San Giovanni Paolo II "Veritatis splendor" n. 56, fondato sulla Sacra Scrittura e sulla Tradizione della Chiesa, che esclude un’interpretazione creativa del ruolo della coscienza e afferma che la coscienza non è mai autorizzata a legittimare eccezioni alle norme morali assolute che proibiscono azioni intrinsecamente cattive per il loro oggetto?


"Amoris laetitia" n. 303 afferma che "la coscienza può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio". I "dubia" chiedono una chiarificazione di queste affermazioni, dato che essi sono suscettibili di divergenti interpretazioni.

Per quanti propongono l’idea di coscienza creativa, i precetti della legge di Dio e la norma della coscienza individuale possono essere in tensione o anche in opposizione, mentre la parola finale dovrebbe sempre andare alla coscienza, che ultimamente decide a riguardo del bene e del male. Secondo "Veritatis splendor" n. 56, "su questa base si pretende di fondare la legittimità di soluzioni cosiddette 'pastorali' contrarie agli insegnamenti del Magistero e di giustificare un’ermeneutica 'creatrice', secondo la quale la coscienza morale non sarebbe affatto obbligata, in tutti i casi, da un precetto negativo particolare".

In questa prospettiva, non sarà mai sufficiente per la coscienza morale sapere che "questo è adulterio", "questo è omicidio" per sapere se si tratta di qualcosa che non può e non deve essere fatto.

Piuttosto, si dovrebbe anche guardare alle circostanze e alle intenzioni per sapere se questo atto non potrebbe, dopo tutto, essere scusabile o anche obbligatorio (cfr. la domanda 4 dei "dubia"). Per queste teorie, la coscienza potrebbe infatti legittimamente decidere che, in un certo caso, la volontà di Dio per me consiste in un atto in cui io trasgredisco uno dei suoi comandamenti. "Non commettere adulterio" sarebbe visto appena come una norma generale. Qua e ora, e date le mie buone intenzioni, commettere adulterio sarebbe ciò che Dio realmente richiede da me. In questi termini, casi di adulterio virtuoso, di omicidio legale e di spergiuro obbligatorio sarebbero quanto meno ipotizzabili.

Questo significherebbe concepire la coscienza come una facoltà per decidere autonomamente a riguardo del bene e del male e la legge di Dio come un fardello che è arbitrariamente imposto e che potrebbe a un certo punto essere opposto alla nostra vera felicità.

Però, la coscienza non decide del bene e del male. L’idea di "decisione di coscienza" è ingannevole. L’atto proprio della coscienza è di giudicare e non di decidere. Essa dice, "questo è bene", "questo è cattivo". Questa bontà o cattiveria non dipende da essa. Essa accetta e riconosce la bontà o cattiveria di un’azione e per fare ciò, cioè per giudicare, la coscienza necessita di criteri; essa è interamente dipendente dalla verità.

I comandamenti di Dio sono un gradito aiuto offerto alla coscienza per cogliere la verità e così giudicare secondo verità. I comandamenti di Dio sono espressione della verità sul bene, sul nostro essere più profondo, dischiudendo qualcosa di cruciale a riguardo di come vivere bene.

Anche Papa Francesco si esprime negli stessi termini in "Amoris laetitia" n. 295: "Anche la legge è dono di Dio che indica la strada, dono per tutti senza eccezione".

 

Sandro Magister (chiesa.espresso.repubblica.it)


In una intervista a Edward Pentin, corrispondente romano di NCRegister, il Cardinale Raymond Leo Burke afferma che i cardinali stanno prendendo in considerazione l'idea di una “correzione formale”, nel caso il Papa dovesse mancare di rispondere alle loro perplessità. 
Va da sé che le risposte indirette e confermanti l'errore, per vie informali ed ecclesialmente poco corrette, equivalgono ad una 'non risposta'.
Stralciamo, nella nostra traduzione, le relative domande cruciali, che tutto il mondo cattolico si sta ponendo da tempo, e le relative risposte.
Questo lo spirito dell'iniziativa, ripetutamente espresso dal cardinale: “Noi, come cardinali, abbiamo ritenuto essere nostra responsabilità richiedere un chiarimento per quanto riguarda i punti di conflitto, al fine di porre fine alla diffusione di questa confusione che, davvero, conduce la gente in errore. Se noi fossimo stati in silenzio su questi fondamentali dubbi, che sono sorti a seguito del testo di Amoris Laetitia, avremmo commesso una grave mancanza di carità verso il Papa e saremmo venuti colpevolmente meno al dovere del nostro ufficio nella Chiesa”. [...] 
 
Cosa succede nell'ipotesi che il Santo Padre non risponda al vostro atto di giustizia e di carità e non dia chiarimenti che sperate di ottenere sugli insegnamenti della Chiesa?
 
Dovremmo affrontare questa specifica situazione. Nella Tradizione della Chiesa, infatti esiste la possibilità di correggere il Romano Pontefice. Certamente è una circostanza rarissima. Ma se non vi fosse risposta alle domande sui punti controversi, allora direi che si porrebbe la questione di adottare un atto formale di correzione di un errore grave.
 
In caso di conflitto tra un'autorità ecclesiale e la Sacra Tradizione della Chiesa, cosa si è vincolati a credere e qual è l'autorità che lo determina?
 
Ciò che è vincolante è la Tradizione. L'autorità ecclesiale esiste unicamente al servizio della Tradizione. Penso al passo di S. Paolo (Lettera ai Galati 1, 8) “se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anàtema!”

Se il Papa dovesse insegnare un grave errore o un'eresia, qual è la legittima autorità che può dichiararlo e quali sarebbero le conseguenze?

In questi casi è dovere dei cardinali e vescovi - e storicamente è accaduto - render chiaro che il Papa sta insegnando l'errore e chiedergli di correggerlo.
 

(Traduzione a cura di chiesaepostconcilio.blogspot.it)