Che cosa significa credere? E di conseguenza: cosa significa essere cristiani? Cosa significa vivere da cristiani?... Certamente, di fronte a questi interrogativi è facile scivolare nella convinzione che credere e sentirsi cristiani significhi, in estrema sintesi, fare del bene. Ma credo che questa non sia affatto la risposta giusta perché (fortunatamente) tante persone compiono del bene, aiutano il prossimo, si impegnano per gli altri … e pur tuttavia non si professano cristiane o addirittura si qualificano come atee. Dunque cosa dovrebbe distinguere una persona che crede in Gesù Cristo, che ha fede, da un’altra che di tale fede è sprovvista? I cattolici non dovrebbero essere facilmente riconoscibili da una sorta di marchio che, impresso nei loro atteggiamenti, comportamenti, ragionamenti, dovrebbe emergere sempre e dovunque come un segno inequivocabile di distinzione?
Sappiamo tutti che non è così, o per lo meno, la realtà sotto gli occhi ci dice che non sempre è così: tante, troppe sono le persone che dicono di essere cristiane senza però comprenderne il significato, o addirittura per nulla interessate dalla necessità di trovarlo (forse perché per esse la fede è intesa semplicemente come un fenomeno di appartenenza etnica o culturale: erano cristiani i miei nonni, per cui sono cristiani i miei genitori, per cui anche io sono cristiano).
“L’opinione mondana più diffusa, pur quando non proviene da ostilità preconcette – spiega magnificamente il Card. Giacomo Biffi – pensa all’atto di fede come a qualcosa di facoltativo, anzi di fortuito e di occasionale. Si dice “io non ho la fede” press’a poco come si dice “io non ho gli occhi azzurri”. Anche quando par di avvertire una specie di nostalgia o di rimpianto (perché il credere è ritenuto almeno confusamente un valore e una fortuna) l’atteggiamento mentale non cambia molto: “purtroppo io non la fede”, è detto con lo stesso rammarico con cui si ammette “purtroppo sono stonato”. Ma la fede citata in questi termini non è certo quella di cui ci ha parlato Gesù e di cui tratta la dottrina cattolica. Basterebbe ricordare la finale del vangelo di Marco: “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato (Mc 16,16); dove è chiaro che per Cristo l’atto di fede è tutt’altro che qualcosa di facoltativo ed è tutt’altro che fortuito e occasionale” .
In altre parole l’atto di fede dipende dalla volontà e quindi dalla conseguente decisione responsabile di ciascuna persona. Ma quando si parla di fede si sente spesso l’obiezione che chi crede esce dall’ambito della razionalità: fede e ragione non vanno a braccetto ma l’una escluderebbe l’altra.
“Anche in questo caso –continua il card. Biffi – il vocabolo fede non ha niente in comune con la fede quale è intesa entro la concezione cristiana. Anzi: nella prospettiva dei discepoli del Signore Gesù, degni di questo nome, la fede è addirittura l’esercizio estremo e più alto della nostra facoltà intellettiva. Si può persino ravvisane una piccola controprova storico-sociologica nel fatto che in un’umanità dove la fede si è illanguidita, non è che non si creda più a niente; si finisce piuttosto col credere a tutto, anche alle proposte razionalmente meno fondate: ci si affida agli oroscopi, alla cartomanzia, alle previsioni degli indovini…e purtroppo si arriva a ogni tornante della storia ad abbracciare le ideologie sociali, politiche, culturali più disumane e aberranti. Sotto questo profilo si sarebbe tentati di affermare che gli uomini, più che in credenti e non credenti, andrebbero distinti in credenti e creduloni”.
Credere, dunque, significa avere fede e dal momento che l’uomo è un essere dotato di ragione, l’atto di fede primariamente sarà frutto dell’intelligenza . In questo atto di fede risulta decisivo l’apporto della volontà ( “Se, nonostante ogni contraria apparenza, è sempre vero che capisce solo chi vuol capire, è ancora più vero che crede solo chi si risolve a credere” –card. Biffi): non la volontà di credere, quasi senza ragione, ma la volontà nella ricerca della predisposizione a credere: Dio infatti ci ammonisce che, perché scaturisca il miracolo della fede, è indispensabile l’intervento della grazia divina, che illumina l’intelligenza e sospinge la volontà (“Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato” – Gv6,44). Lo Spirito Santo è perciò il grande protagonista di questa interiore avventura che è l’atto di fede.
In una sua catechesi il card. Biffi sottolinea che le ragioni di questa necessità dell’intervento dello Spirito Santo sono contenute in un testo di San Paolo “Chi conosce i segreti dell’uomo, se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio […] L’uomo naturale però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne pul giudicare solo per mezzo dello Spirito. L’uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno. “Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo dirigere?” (Is40,13). “Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo (1 Cor 2, 11-16)”.
Essere cristiani significa allora aver capito che Gesù è il Figlio di Dio, che è l’unica persona di una singolarità assoluta, totalmente imparagonabile a qualsivoglia grande personaggio della storia, o pensatore o filosofo… l’unica persona in grado di conciliare la natura umana con quella divina! Egli è il Messia, colui che è giunto a noi per dare risposta ai nostri inesauribili interrogativi esistenziali ; Egli è il Vivente, poiché risorgendo ha vinto la morte regalandoci la possibilità di pensare il nostro futuro senza angoscia; Egli è il Figlio di Dio, il quale assumendo la nostra natura umana, portando su di sé il fardello dei nostri peccati, ha riallacciato l’alleanza perduta con l’Eterno.
“Proprio il mio essere personale- ci spiega il card. Biffi- si sente chiamato in causa, raggiunto, coinvolto da Gesù di Nazaret, crocifisso e risorto. Se egli è Messia, è Messia per me; se egli è Signore, è il mio Signore; se egli è Salvatore, si tratta della mia salvezza. Non sono lo spettatore di una vicenda altrui: sono il diretto interessato”.
Tocca a ciascun cristiano adesso portare nell’esistenza, nella vita di tutti i giorni, sia in campo privato e individuale che in quello pubblico e sociale, la novità che possiede. Tocca a ciascuno cristiano liberarsi dal vecchiume delle concezioni e dai comportamenti mondani e dare testimonianza di vivere con ben altri obiettivi. “Certo anche noi dobbiamo lottare per la giustizia sociale, per le libertà civili, per l’instaurazione di una società più fraterna e più umana; non però perché queste siano le mete dirette, esaurienti, o anche solo primarie della redenzione di Cristo, ma perché l’ingiustizia, l’oppressione, la crudeltà e l’alienazione stridono con la novità cristiana, la oscurano e la contraddicono” (card. Biffi).
Stefano Arnoldi