Secondo gli ultimi dati resi noti dall’Istat, gli ultimi anni confermano l’aumento dell’instabilità coniugale. Non che ci sia bisogno dell’Istat per rendersi conto del fenomeno in questione, ma i dati resi noti lasciano comunque sgomenti. Prendendo il 2010 ad esempio, si sono registrate ben 88.191 separazioni e 54.160 divorzi. Per capire meglio l’entità del fenomeno in questione, nel 2009 le separazioni sono state 85.945 e i divorzi 54.456. Ciò significa che, rispetto al 1995, le separazioni sono aumentate di oltre il 64% ed i divorzi sono praticamente raddoppiati (+ 101%).
Tali incrementi si sono osservati in un contesto in cui i matrimoni diminuiscono, avendo lasciato sempre più spazio alla piaga delle convivenze…
Ora, questi dati, facilmente riscontrabili nella vita di tutti i giorni (le persone che decidono di sposarsi sono come mosche bianche e il fallimento di molti matrimoni e convivenze non fa più notizia, anzi: oggi c’è di che stupirsi quando si scoprono matrimoni che durano da decenni!...questo per dire che livelli di profondità si è riusciti a toccare), questi dati, dicevo, non possono che far riflettere a maggior ragione se si costata che il fallimento del matrimonio è spesso considerato come un fallimento di una vita. In altre parole le conseguenze sono devastanti: per i diretti interessati in primis (i coniugi), ma anche e soprattutto per eventuali figli, costretti a subire un dramma familiare loro malgrado.
Ciò che qui intendo portare a riflessione è la causa scatenante del fenomeno dell’instabilità familiare e la motivazione che induce tanti giovani a scegliere la forma della convivenza.
Sgombrerei subito il campo dalla solita motivazione per giustificare la scelta di convivere, piuttosto che sposarsi: proprio perché tanti sono i matrimoni che falliscono, è bene cimentarsi in un cosiddetto “periodo di prova” … come se il fatto di scoprire poi di non essere fatti l’uno per l’altra non sia gravido di conseguenze infelici e dolorose! Lasciamo questa stupida motivazione che altro non è che una ammissione di colpa, e di colpa grave (si “provano” cioè si usano le cose, mai le persone…) e troviamo il coraggio di trovare la vera argomentazione.
E non è poi così difficile arrivare al cuore del problema: oggi si è perso il significato dell’amore; in una società in cui tutto e il contrario di tutto viene messo sullo stesso piano a causa di una cultura nichilista e relativista in cui ognuno crede quello che gli pare, si sono smarriti i concetti essenziali dell’esistenza: non si sa più cosa sia la verità, non si sa più cosa significhi libertà, non si sa più cosa voglia dire “ti amo”…
L’amore, scriveva Fulton J. Sheen, consiste principalmente nella volontà, non nelle emozioni o nelle ghiandole… Il piacere associato all’amore, ovvero ciò che viene chiamato sesso, è la vaniglia del dolce: la sua funzione è di farci amare il dolce, non di farcelo ignorare. La più grande illusione degli amanti è di credere che l’intensità della loro attrazione sessuale sia la garanzia della perpetuità del loro amore. È a causa di questa incapacità di distinguere tra il ghiandolare e lo spirituale – ovvero tra il sesso, cha abbiamo in comune con gli animali, e l’amore, che abbiamo in comune con Dio- che i matrimoni sono così illusori. Ciò che molti amano non è una persona, bensì l’esperienza di essere innamorati. Non appena le ghiandole cessano di reagire con il loro originario vigore, gli “innamorati” che hanno identificato l’emotività con l’amore asseriscono di non essere più innamorati l’uno dell’altra. In tal caso, essi non hanno mai veramente amato l’altra persona: hanno amato soltanto di essere amati, il che rappresenta la forma più alta di egoismo.
Abbiamo così trovato la radice del male dell’amore (e, per inciso, di tutti i mali): l’egoismo. E quanto più si nega la fede nel Giudizio Divino, in una vita futura, nel paradiso e nell’inferno, nonché in un ordine morale, tanto più saldamente l’ego si afferma sovrano come la fonte della propria moralità. In altre parole, ogni persona si erge a giudice di se stessa, così sprofondando nell’oscurità più fitta di una vita disperata perché sempre più insoddisfatta e senza senso.
Stefano Arnoldi