Cosa rende difficile il perdono
Ci sono persone che si lasciano logorare dall’incapacità di superare dei torti subiti non volendo ammettere che è il loro risentimento la causa del proprio malessere.
Ci sono persone che si fanno consumare da un rancore generato da ingiustizie, grandi o piccole che siano, perpetrate a loro danno, non volendo volgere lo sguardo sulla loro incapacità di voltare pagina e guardare avanti.
Ci sono persone che fanno dell’ostinazione il loro punto fermo, convinti che la giustizia significhi interrompere qualsivoglia rapporto con chi è reo di comportamenti che hanno causato una certa sofferenza, non accettando che la propria permalosità, ancorché comprensibile, è tuttavia una forma mascherata di infantilismo.
Ci sono persone che non vogliono perdonare o dare a intendere di aver perdonato convinti che ciò sarebbe un segno di debolezza, trascurando che la forza si manifesta invece proprio nella capacità di perdono.
Insomma, talvolta intorno al cuore si costruiscono dei muri, con le piccole pietre quotidiane dei risentimenti, con le ripicche, i silenzi, le questioni irrisolte, le imbronciature... con il risultato di peggiorare la situazione.
E che dire di coloro che perfino volontariamente assumono comportamenti taciturni, nevrotici, sofferenti, quasi volessero stringere a sé quelle ingiustizie che tanto rimuginano, per poter continuare a lamentarsi e a sentirsi in credito con la Provvidenza; o coloro che pur consultando buone letture, pur recitando rosari, pur frequentando la S. Messa quotidiana, non sono in grado di vivere e mostrare quella serenità che scaturisce dalla fede e dalla relazione con Dio, apparendo, al contrario, terribilmente oppressi come se sulle spalle portassero un fardello troppo pesante.
E’ davvero difficile spiegare l’origine di tali atteggiamenti, per di più riferiti a persone che non si sono macchiati di comportamenti deplorevoli bensì è vero l’opposto: li hanno subiti! Tuttavia non sono in grado di fare una cosa: non riescono a perdonare. Per quale motivo?
Il beato card. Newman ha scritto*: “Per natura noi siamo quello che siamo: peccatori e corrotti, lo sapete; tuttavia amiamo essere quello che siamo, e, per varie ragioni, è spiacevole doverlo cambiare. Noi non possiamo cambiare noi stessi; lo sappiamo bene, o, almeno, anche una breve esperienza ce lo insegnerebbe. Soltanto Dio può cambiarci; solo Dio può darci desideri, affetti, principi, vedute, gusti che il cambiamento richiede; anche questo lo sappiamo, perché io sto parlando a uomini che hanno il senso religioso.
Qual è il segno della mancanza del senso religioso? È questo, lo ripeto; il rifiuto di cambiare, di accettare che Dio voglia cambiarci. A noi non piace cambiare la vecchia mentalità, e, in parte o in tutto, ci aggrappiamo alla nostra personalità. Noi non amiamo essere rinnovati; ne abbiamo paura; perché significherebbe venire strappati dalle nostre inveterate abitudini, da tutto quello che ci è familiare…
E anche se a parole diciamo di voler cambiare, quando si arriva al dunque, e ci sono particolari motivi di passare ai fatti, allora ci tiriamo indietro, e siamo contenti di rimanere ciò che siamo. È l’attaccamento al proprio io, è l’influenza del nostro io su noi stessi, ciò che costituisce la nostra rovina”.
Stefano Arnoldi
*(Newman, opere - La coscienza, Jaca Book, pag. 81)