Il dramma dell'incredulità
In una delle sue catechesi il card. Caffarra ha così concluso: “La morte di Gesù è la rivelazione che Dio ama l’uomo di un amore incondizionato, un amore che è offerto all’uomo e lo invita ad un’incomprensibile amicizia. Di fronte ad un amore offerto si hanno solo due scelte: acconsentirvi - rifiutarlo. La prima si chiama fede; la seconda, incredulità”.
In merito a queste parole vorrei tentare una riflessione poiché, in fondo, oggigiorno, la vita si può sintetizzare proprio così: o si crede, realmente, che Gesù è il Figlio di Dio il quale circa 2000 anni fa ha fatto irruzione nella storia umana, oppure si lascia che l’incredulità divori il non senso dell’umano esistere. Detto così sembrerebbe che si debba credere in un Dio per evitare la pazzia e la mancanza di spiegazione del tutto, in realtà qui non si tratta di credere in un Dio, tra tanti, ma nell’unico vero Dio la cui venuta, il cui insegnamento, i cui miracoli, sono tutti realmente accaduti poggiando su testimonianze e scritti storicamente documentati.
Ora, vi è un dramma in qualche modo collegato alla venuta di Cristo? Credo di sì: il rischio che molta gente non lo riconosca, con tutte le conseguenze del caso. Così è avvenuto allora, tra la sua gente, quando Gesù era in vita: pensiamo ad esempio agli istanti della sua crocifissione e all’evento della sua resurrezione e a quante persone si sono trovate in altre faccende affaccendate. Per costoro, in quei momenti, non stava accadendo assolutamente niente o comunque nulla di particolarmente importante a tal punto da distoglierli dalle loro occupazioni…Avevano accanto il loro Salvatore, niente meno che Dio in persona, e non se ne sono nemmeno accorti!
Con altrettanta certezza ci saranno stati anche coloro che, pur conoscendo ciò che stava avvenendo, pur consapevoli che quel Gesù poteva essere proprio il Messia, il Figlio di Dio tanto atteso, ebbene, nonostante ciò hanno lasciato che gli interessi, le preoccupazioni della vita o, peggio ancora, i piaceri mondani, prevalessero sulla spinta interiore di abbandonare le faccende del momento per accorrere dinanzi a Gesù…per costoro il Salvatore veniva in second’ordine…
Infine, ci saranno stati anche coloro che, vinti dall’incredulità, non hanno ritenuto Gesù essere Dio badando bene di tenersi e di essersi tenuti alla larga da Lui e dai suoi discepoli.
Tutto questo scenario si è sempre riproposto da quando Cristo è comparso sulla Terra, fino a toccare nella nostra epoca il suo apice: il fatto che Gesù non sia riconosciuto trova la sua massima espressione nell’apostasia imperante dei nostri giorni. E oggi, come allora, sono sostanzialmente tre le categorie di questi sventurati:
-ci sono coloro tanto assorti nello sbrigare i propri affari, le proprie faccende, per raggiungere i propri interessi e obiettivi. Non c’è tempo da dedicare ad altro anche se quest’Altro si scrive con la maiuscola. Questa è la schiera di coloro che confidano soltanto in se stessi sfuggendo volontariamente la fatica di porsi gli interrogativi esistenziali, preoccupati che ciò possa comportare un fastidioso impegno imprevisto… possiamo ben vedere i risultati di questo atteggiamento: il mondo lavorativo è divenuto una sorta di campo di battaglia dove il più forte e il più furbo si gareggiano per ottenere risultati soddisfacenti e poco importa se ottenuti a discapito degli altri; il campo sociale e delle relazioni interpersonali è stato oscurato da una coltre nuvolosa spessa e grigiastra di tradimenti, falsità, menzogne, doppiogiochismo a tutto discapito della trasparenza e del rispetto nei rapporti interpersonali…
-ci sono poi coloro che, pur riconoscendo Gesù Figlio di Dio, sono tuttavia tiepidi nel seguirLo e nell’accogliere il Suo insegnamento attraverso la Chiesa, istituzione divina da Lui fondata. Le luci e le sirene del mondo sono ancora troppo seducenti e per giustificare il loro atteggiamento e zittire il richiamo della coscienza, non trovano altro da fare che criticare la Chiesa sottolineandone le brutture e gli scandali di alcuni suoi membri… in realtà si finisce così per mascherare le proprie inadempienze scaricando il proprio disprezzo per se stessi sulla Chiesa, colpevole della loro colpevolezza. Per queste persone in realtà l’insegnamento di Cristo è troppo duro e difficile da realizzare: l’amor proprio e la superbia impediscono di capire che non si può pretendere di cambiare se stessi tutto d’un tratto come se fossimo un click di un interruttore ma, ordinariamente, la vita cristiana è una continua conversione, una sorta di viaggio a tappe, di sudati traguardi e tuttavia di indicibile sorpresa e felicità per quanto si è via via raggiunto…
-Infine ci sono coloro che non credono in Dio e perciò si accontentano di vivere alla giornata, lasciando di tanto in tanto prevalere il sentimentalismo al sentimento, il buonismo alla bontà… come miopi, avrebbero bisogno di portare occhiali per focalizzare e vedere correttamente, gli occhiali della fede.
E qui siamo ritornati proprio al punto di inizio: è sempre una questione di fede. Se, per grazia di Dio, la si possiede, la si coltiva e si progredisce…chi ne è privo è come colui che brancola nel buio di una stanza vuota, senza la possibilità di aggrapparsi a qualche appiglio: una tale situazione così angosciante non può che provocare la morte spirituale, ancor prima di quella fisica.
E che cos’è la morte spirituale? È la negazione, spiega il card. Caffarra, che esista una verità sull’uomo che non sia una semplice creazione della libertà dell’uomo. È il puro relativismo, che è la vera malattia mortale della nostra cultura. Se elevo la mia libertà a norma suprema di ciò che è vero e falso, se nego che prima della mia libertà possa esistere nulla che la giudichi, l’uomo si rinchiude nella prigione della sua soggettività, entro la quale non può trovare che la morte spirituale. Kierkegaard chiamava tale forma di vita disperazione. E che la nostra società sia affetta da questo morbo è di assoluta e costante evidenza: ecco cosa provoca il dramma dell’incredulità.
Stefano Arnoldi