9/La Vergine Maria, i misteri dell'infanzia di Gesù e della vita nascosta
Il mistero dell'Incarnazione si riduce a uno scambio, sotto ogni rispetto mirabile, tra la divinità e la nostra umanità. In cambio della natura umana che assume da noi, il Verbo eterno ci rende partecipi della sua vita divina. Bisogna osservare infatti che siamo noi che diamo al Verbo una natura umana. Dio avrebbe potuto produrre, per unirla a suo Figlio, una umanità già pienamente sviluppata nella perfezione del suo organismo, come fu Adamo nel giorno della sua creazione. Cristo sarebbe stato anche in tal caso veramente uomo, perché niente di ciò che costituisce l'essenza di un uomo gli sarebbe stato estraneo; ma non riallacciandosi direttamente a noi con una nascita umana, egli non sarebbe stato propriamente della nostra razza.
Dio non volle questo. Quale è stato invece il disegno della divina sapienza? Che il Verbo assumesse da noi l'umanità che doveva unirsi. Cristo sarà così veramente il «Figlio dell'uomo»; sarà un membro della nostra razza (Galat. IV, 4; Rom. I, 3). Quando celebriamo a Natale la natività di Cristo, noi risaliamo attraverso i secoli per leggervi la serie dei suoi antenati; percorriamo la sua genealogia umana, e, passando in rassegna le generazioni successive, lo vediamo nascere nella tribù di David dalla Vergine Maria (Matth. I, 16). Dio ha voluto, per cosi dire, mendicare da noi la natura umana destinata a suo Figlio per darci di ritorno una partecipazione alla sua divinità: O admirabile commerciam! (Antifona dell'ufficio della Circoncisione).
Voi lo sapete: per sua natura Dio è portato ad una larghezza infinita; appartiene infatti all'essenza del bene la diffusione di sé. Se vi è dunque una bontà infinita, essa è inclinata a donarsi in un modo infinito. Dio è questa bontà senza limiti; la rivelazione ci insegna che tra il Padre e il Figlio, tra questi e lo Spirito Santo, vi sono comunicazioni infinite che esauriscono in Dio questa tendenza naturale del suo Essere a espandere se medesimo. Se non che, accanto a questa comunicazione naturale della divina bontà, ve n'è un'altra, zampillante dal suo libero amore verso la creatura. La pienezza dell'Essere e del Bene che è Dio è traboccata al di fuori, per amore. Come è avvenuto? Dio ha voluto anzitutto donarsi in modo affatto particolare ad una creatura unendola mediante una unione personale al suo Verbo. Questo dono di Dio a una creatura è unico: e per esso la creatura scelta dalla Trinità diventa il proprio Figlio di Dio (Ps. II, 7). E il Cristo è il Verbo unito personalmente e indissolubilmente ad una umanità in tutto simile alla nostra, tranne il peccato. Questa umanità egli la domanda a noi: «Datemi, per mio Figlio, la vostra natura» dice a noi in qualche modo l'eterno Padre, «ed io in cambio darò a questa natura in primo luogo e, per essa, a ogni uomo di buona volontà, una partecipazione della mia divinità». Perché Dio non si comunica a Cristo che per donarsi, per mezzo di Cristo, a noi tutti: il piano divino è che Cristo riceva la divinità nella sua pienezza e che noi attingiamo, a nostra volta, a questa pienezza (Joan. I, 16). Tale è questa comunicazione della bontà di Dio al mondo: Sic Deus DILEXIT mundum, ut Filium suum Unigenitum DARET. (Ibid. III, 16). E' questo l'ordine meraviglioso che presiede alle relazioni mirabili tra Dio e l'umanità.
Ma a chi in particolare Dio domanderà di generare questa umanità alla quale egli vuole così strettamente unirsi per fare di essa lo strumento delle sue grazie al mondo? Noi abbiamo già fatto il nome di questa creatura che tutte le generazioni chiameranno beata: la genealogia umana di Gesù si ferma a Maria, la Vergine di Nazareth. Ad essa, e per mezzo di essa a noi, il Verbo ha domandato una natura umana, e Maria glie l'ha data; perciò la vedremo ormai inseparabile da Gesù e dai suoi misteri; dove si trova Gesù, vedremo anche lei: egli è suo Figlio, come è Figlio di Dio.
Tuttavia, se dovunque Gesù conserva la sua qualità di Figlio di Maria, è specialmente nei misteri dell'infanzia e della vita nascosta che si rivela sotto questo aspetto; se Maria occupa ovunque un posto unico, è tuttavia in questi misteri che il suo compito si rivela più attivo e qui sopratutto dobbiamo contemplarla perché qui specialmente risplende la sua divina maternità, e voi sapete che questa dignità incomparabile è la sorgente di tutti i privilegi della Vergine.
Coloro che non conoscono la Vergine, che non hanno per la Madre di Gesù un vero amore, corrono pericolo di non comprendere con frutto i misteri dell'umanità di Cristo. Egli è il Figlio dell'uomo com'è il Figlio di Dio e questi due caratteri gli sono essenziali; se egli è il Figlio di Dio per una ineffabile generazione eterna, è divenuto Figlio dell'uomo nascendo da Maria nel tempo.
Contempliamo dunque questa Vergine accanto al Figlio suo; ella ci otterrà in cambio di penetrare maggiormente nella comprensione di quei misteri di Cristo ai quali essa è unita così strettamente.
I. In qual modo, nel mistero dell'Annunziazione, fu concluso lo scambio tra la divinità e l'umanità: la maternità divina.
Affinché lo scambio che Dio voleva effettuare con l'umanità fosse possibile, era necessario che l'umanità vi consentisse. E' la condizione messa dall'infinita sapienza.
Trasferiamoci a Nazareth. La pienezza dei tempi è venuta; Dio ha deciso, dice S. Paolo, di inviare nel mondo suo Figlio facendolo nascere da una donna. L'angelo Gabriele, divino messaggero, riferisce alla Vergine le proposte celesti. Un dialogo sublime si svolge, nel quale sta per essere decisa la liberazione del genere umano. Prima l'angelo saluta la Vergine, proclamandola da parte di Dio «piena di grazia»: Ave, gratia plena.
E, difatti, non solo essa è immacolata e nessuna macchia ha mai offuscata l'anima sua, la Chiesa ha definito che, sola tra tutte le creature, essa non è stata macchiata dalla colpa di origine; ma perché destinata ad essere la madre del Figlio suo, il Padre eterno l'ha ancora colmata di doni. Essa è piena di grazia, non già nel senso con cui lo sarà Gesù Cristo, plenum gratiae, perché egli lo è per diritto e con la stessa pienezza divina, ma essa tutto riceve come partecipazione in una misura che non si può determinare. e in correlazione con la sua eminente dignità di madre di Dio. «Ecco, dice l'angelo, che voi partorirete un Figlio e gli metterete nome Gesù,... sarà chiamato Figlio dell'Altissimo ed egli regnerà e il suo regno non avrà fine». «In qual modo potrà questo accadere, ribatte Maria, se io non conosco alcun uomo?». Ella vuole conservare la sua verginità. «Lo Spirito Santo verrà su voi e la virtù dell'Altissimo vi adombrerà, per ciò il frutto santo che nascerà da voi sarà chiamato Figlio di Dio». «Ecco la serva del Signore, si faccia di me secondo la vostra parola» (Luc. I, 28, 31-35, 38).
In questo momento solenne il contratto è concluso. Quando la Vergine ha pronunciato il suo fiat, tutta l'umanità ha detto a Dio per bocca di Maria: «Sì, o Dio, io accetto; che così sia fatto!». E così il Verbo si è fatto carne: Et Verbum caro factum est. In questo momento il Verbo s'incarna in Maria per opera dello Spirito Santo: il seno della Vergine diviene l'arca della nuova alleanza tra Dio e l'uomo. Quando la Chiesa canta nel Credo le parole che ricordano questo mistero: Et incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine, et homo factus est, essa fa obbligo ai suoi ministri di piegare il ginocchio in segno di adorazione. Adoriamo anche noi questo Verbo divino che si fa uomo per noi nel seno di una vergine, adoriamolo con tanto maggior amore quanto più egli si abbassa, prendendo, come dice S. Paolo, «la condizione di creatura»
(Philip. II, 7). Adoriamolo, in unione con Maria, la quale, illuminata dalla luce dell'alto, si prostra davanti al suo Creatore divenuto suo Figlio; in unione con gli Angeli stupefatti di questa infinita condiscendenza verso l'umanità.
Salutiamo inoltre la Vergine; ringraziamola di averci dato Gesù perché lo dobbiamo al suo consenso (Orazione dell'ufficio della Circoncisione). Aggiungiamovi le nostre felicitazioni. Guardate come lo Spirito Santo medesimo per bocca di Elisabetta, salutava la Vergine l'indomani dell'Incarnazione: «Siate benedetta tra tutte le donne e benedetto il frutto del ventre vostro! Voi beata per aver creduto all'adempimento delle cose che vi sono state dette da parte del Signore» (Luc. I, 41-42, 45). Beata, perché questa fede nella parola di Dio ha fatto della Vergine la Madre del Cristo. Quale semplice creatura ha mai ricevuto, da parte dell'Essere infinito, simili lodi? Maria riferisce al Signore tutta la gloria delle meraviglie che si operano in lei. Dall'istante in cui il Figlio di Dio ha preso carne nel suo seno, la Vergine canta nel suo cuore un cantico pieno di amore e di riconoscenza. Dopo le parole della sua cugina Elisabetta, essa lascia traboccare gli intimi sentimenti dell'anima sua; essa intona il Magnificat che, nel corso dei secoli, i suoi figli ripeteranno con lei per lodare il Signore di averla scelta tra tutte le donne: «La mia anima glorifica il Signore e il mio spirito trasale di gioia in Dio mio Salvatore, perché egli ha visto l'umiltà della sua serva... poiché l'Onnipotente ha operato in me queste cose grandi» (Luc. I, 46, 49).
Maria era a Bethlehem, pel censimento ordinato da Cesare, quando, dice S. Luca, «giunse per lei il momento di partorire. E mise al mondo il figlio suo primogenito, lo avvolse nelle fasce e lo adagiò in una mangiatoia, perché non vi era posto all'albergo» (Ibid. II, 6-7). Chi è questo bimbo? E' il figlio di Maria, perché è nato da lei. Ma la Vergine vede in questo bambino, simile a tutti gli altri, il Figlio di Dio. L'anima di Maria era colma di una fede immensa che includeva e superava tutta la fede dei giusti dell'Antico Testamento ed è per questo che riconosce nel Figlio suo il suo Dio.
Questa fede si traduce al di fuori con un atto di adorazione. Dal primo sguardo che essa ebbe per Gesù, la Vergine si è prostrata interamente in una adorazione di cui non possiamo scandagliare la profondità. A questa fede così viva, a queste adorazioni così profonde si aggiungevano gli slanci di un incommensurabile amore. L'amore umano anzitutto. Dio è amore, e perché potessimo avere un'idea di questo amore ne dona una partecipazione alle madri. Il cuore di una madre, con la sua infaticabile tenerezza, con la costanza delle sue sollecitudini, le delicatezze inesauribili del suo affetto è una creazione veramente divina per quanto Dio non vi abbia messo che una sola scintilla del suo amore per noi. Tuttavia, per quanto il cuore di una madre rifletta imperfettamente l'amore divino a nostro riguardo, Dio ci dona una madre perché questa lo sostituisca in qualche modo presso di noi, egli ce la mette a fianco, fin dalla culla, per guidarci, custodirci in quei primi anni specialmente nei quali abbiamo tanto bisogno di tenerezza.
Immaginate da questo con quale predilezione la SS. Trinità deve avere formato il cuore della Vergine scelta per essere madre del Verbo Incarnato; Dio si è compiaciuto a versare l'amore nel suo cuore e a formarlo appositamente per amare un Uomo-Dio.
Nel cuore di Maria armonizzavano perfettamente l'adorazione di una creatura verso il suo Dio e l'amore di una madre per il suo unico Figlio.
Né meno mirabile è l'amore soprannaturale della Vergine. Voi lo sapete, l'amore di un'anima per Iddio si misura dal suo grado di grazia. Ora che cos'è che impedisce, in noi, alla grazia e all'amore di svilupparsi? I nostri peccati, i nostri volontari errori, le nostre infedeltà volontarie, i nostri attaccamenti alle creature. Ogni colpa deliberata indurisce il cuore, consolida l'egoismo. Ma l'anima della Vergine è di una perfetta purezza perché né macchiata da alcun peccato né toccata da alcuna ombra di colpa. Essa è piena di grazia; e lo Spirito Santo non solo non ha mai trovato in essa alcun ostacolo all'accrescimento della grazia, ma l'ha trovata sempre d'una docilità straordinaria alle sue ispirazioni. Per questo motivo il suo cuore è interamente dilatato dall'amore.
Quale non dové dunque essere la gioia dell'anima di Gesù di sentirsi amato a tal punto dalla madre sua! Dopo la gioia ineffabile che nasceva in lui dalla visione beatifica e dallo sguardo di compiacenza infinita con cui suo Padre lo contemplava, niente tanto lo deliziava quanto l'amore della madre sua. Egli trovava in esso un compenso più che abbondante all'indifferenza di coloro che non volevano riceverlo e un focolare sempre acceso che egli stesso alimentava con i suoi sguardi divini e con la grazia interiore del suo Spirito. Si verificavano tra queste due anime scambi incessanti che avvivavano la loro unione, passavano da Gesù a Maria tali doni celesti, e da Maria a Gesù tale corrispondenza, che dopo l'unione delle persone divine nella Trinità e l'unione ipostatica dell'Incarnazione non si può concepire un'unione più grande e più profonda di questa.
Accostiamoci a Maria con umile ma completa confidenza. Se suo Figlio è il Salvatore del mondo, ella è tuttavia troppo addentro nella sua missione per non dividere l'amore ch'egli porta ai peccatori. O Madre di Gesù, gli canteremo insieme alla Chiesa, «voi che avete dato alla luce il vostro Creatore pur rimanendo vergine, soccorrete questa razza decaduta che vostro Figlio viene a rialzare assumendo da noi una umana natura»; «abbiate pietà dei peccatori che vostro Figlio viene a riscattare». Perché, o Maria, è proprio per noi, per ricomprarci, che egli si è degnato discendere dagli splendori eterni nel vostro seno verginale.
II. La purificazione di Maria e la presentazione di Gesù al tempio.
Maria comprenderà questa preghiera perché si è associata intimamente a Gesù nell'opera della nostra Redenzione. Otto giorni dopo la nascita di suo Figlio, lo fa circoncidere secondo la legge giudaica, e gli pone il nome indicato dall'angelo, il nome di Gesù, che denota la sua missione di salvezza e la sua opera redentrice.
Quando è giunto al suo quarantesimo giorno di vita, la Vergine si associa più direttamente e più profondamente ancora all'opera della nostra salute presentandolo al Tempio. Per prima ha offerto all'eterno Padre il suo divin Figlio. Dopo l'offerta che Gesù, pontefice supremo, ha fatto di se stesso fin dalla sua Incarnazione e che compirà sul Calvario, l'offerta di Maria rimane la più perfetta. Essa è al di fuori di tutti gli atti sacerdotali degli uomini; li sorpassa altresì perché Maria è la madre di Cristo, mentre gli uomini non sono che suoi ministri. Contempliamo Maria in questo atto solenne della presentazione di suo Figlio al tempio di Gerusalemme. Tutto il magnifico e minuzioso cerimoniale dell'Antico Testamento convergeva verso il Cristo, tutto era in esso simbolo oscuro che doveva trovare la sua realtà perfetta nella Nuova Alleanza.
Voi sapete che tra le prescrizioni rituali che obbligavano le donne giudee divenute madri, vi era quella di presentarsi al tempio alcune settimane dopo il parto. La madre doveva purificarsi della macchia legale che contraeva alla nascita del bambino, in seguito al peccato originale; inoltre, se il bambino era primogenito e di sesso maschile doveva presentarlo al Signore perché gli fosse consacrato come a sovrano Signore di ogni creatura (Luc. II, 23; cf. Exod. XIII, 2). Si poteva tuttavia «riscattarlo» con una offerta più o meno considerevole un agnello ovvero due tortorelle, secondo lo stato di fortuna delle famiglie. Certamente queste prescrizioni non obbligavano né Maria né Gesù. Gesù era il supremo legislatore di tutto il rituale giudaico, la sua nascita era stata miracolosa e verginale: niente che non fosse puro nella sua nascita (Luc. I, 35); e perciò non era necessario che colei che aveva concepito di Spirito Santo si purificasse. Se non che Maria, guidata in questo dal medesimo Spirito Santo che è lo Spirito di Gesù, era in perfetta armonia di sentimenti
con l'anima del Figlio suo. «O Padre, aveva detto Gesù entrando nel mondo, voi non volete più offerte ed olocausti: sono insufficienti per soddisfare la vostra giustizia adorabile e riscattare l'uomo peccatore; ma voi mi avete dato un corpo per immolarvelo: eccomi, io voglio in tutto adempiere la vostra volontà» (Hebr. X, 5-7). E che cosa aveva detto la Vergine? «Ecco l'ancella del Signore, sia fatto di me secondo la tua parola».
Per questo ha voluto compiere questa cerimonia, mostrando quanto fosse profonda la sua sottomissione. Con Giuseppe, suo sposo, porta dunque Gesù suo primogenito che rimarrà suo Figlio unico, ma che deve divenire «il primogenito di una moltitudine di fratelli» i quali per la grazia gli saranno somiglianti (Rom. VIII, 29).
Quando noi meditiamo questo mistero siamo costretti a dire: «Voi siete un Dio nascosto, o Salvatore del mondo!» (Is. XLV, 15). In questo giorno, Cristo entrava per la prima volta nel Tempio, ed entrava nel «suo» tempio. Questo tempio meraviglioso che formava l'ammirazione delle nazioni e l'orgoglio d'Israele e nel quale si compivano tutti i riti religiosi e i sacrifici di cui Dio stesso aveva regolato i particolari; questo tempio gli apparteneva; poiché questo fanciullo portato da una giovane vergine è il Re dei re e il sovrano Signore (Malach. III, 1). E in che modo verrà? Nello splendore della sua maestà? Come colui al quale soltanto sono dovute tutte le offerte? No, egli viene assolutamente nascosto.
Ascoltate piuttosto ciò che riferisce il Vangelo. Vi doveva essere là, ai limiti del sacro edificio, una folla rumoreggiante: mercanti, leviti, preti, dottori della Legge. Una piccola comitiva, attraversandola, si unisce a quella folla: sono poveri certamente, perché non portano agnelli, che sono le offerte dei ricchi; portano solo due colombi, sacrificio dei poveri. Nessuno li nota, perché non hanno alcun seguito di servitori; i grandi, i superbi tra i Giudei, non hanno per loro neppure uno sguardo e bisogna che lo Spirito Santo illumini il vecchio Simeone e la profetessa Anna, perché riconoscano il Messia. Colui che è «il Salvatore promesso al mondo, la luce che deve risplendere a tutte le nazioni» (Luc. II, 30-31), viene nel suo tempio come un Dio nascosto.
E neppure vi era cosa che manifestasse al di fuori i sentimenti dell'anima santa di Gesù: la luce della sua divinità rimaneva nascosta, velata, ma egli rinnovellava qui, al tempio, l'offerta che aveva fatto di se stesso a suo Padre, al momento dell'Incarnazione: si offriva a suo Padre per essere una cosa sua e appartenergli di pieno diritto. Era come l'offertorio del Sacrificio che doveva essere consumato sul Calvario.
Questo atto fu oltremodo accetto al Padre. Agli occhi dei profani non vi era niente di particolare in questa azione così semplice che tutte le madri giudee compivano. Eppure Dio ricevette in questo giorno una gloria infinitamente più grande di quella che non ne avesse mai ricevuto prima in quel tempio da tutti i sacrifici ed olocausti dell'Antica Legge. E perché? Perché in questo giorno è lo stesso suo Figlio che gli viene offerto, che gli offre personalmente omaggi infiniti di adorazione, di azioni di grazie, di espiazioni, di suppliche. E' un dono degno di Dio e il Padre celeste dové ricevere con immensurabile gioia questa sacra offerta mentre tutta la corte celeste contemplava estasiata questa oblazione singolare. Non vi sarà più bisogno ormai di olocausti e di sacrifici di animali: la sola vittima degna di Dio gli è stata offerta per sempre.
E questa offerta così gradita gli è presentata dalle mani stesse della Vergine, della Vergine piena di grazia. La fede di Maria era perfetta; ripiena della luce dello Spirito Santo, la sua anima comprendeva il valore dell'offerta che faceva a Dio in quel momento, mentre lo Spirito Santo con le sue ispirazioni armonizzava l'anima sua con le disposizioni interiori del Cuore del suo divin Figlio. Come aveva dato il suo assenso nel nome dell'umanità quando l'angelo le ebbe annunciato il mistero della Incarnazione, così anche in questo giorno Maria ha offerto Gesù nel nome del genere umano. Sa che suo Figlio è «il Re della gloria, la luce nuova generata avanti l'aurora, il padrone della vita e della morte». Perciò lo presenta a Dio per ottenerci tutte quelle grazie di salute che suo Figlio Gesù deve, secondo le promesse dell'angelo, apportare al mondo. (Antifona Adorna alla benedizione delle candele, nella festa della Purificazione)
Non dimenticate più che colui ch'ella offre così è il proprio Figlio, colui ch'ella ha portato nel suo seno verginale e fecondo. Qual sacerdote, qual santo ha mai presentato a Dio l'oblazione eucaristica in unione così stretta con la vittima divina come lo era in quel momento la Vergine Maria? Non solo era unita a Gesù con sentimenti di fede e di amore, come possiamo esserlo anche noi sia pure in un grado molto inferiore, ma il legame che l'univa a Gesù Cristo era singolare: Gesù era il vero frutto delle sue viscere. Ecco perché Maria da questo giorno in cui presenta Gesù come le primizie del futuro sacrificio, ha una parte così preponderante nell'opera della nostra redenzione.
E osservate in che modo, da questo medesimo istante, Gesù Cristo vuole associare la sua madre divina alla sua qualità di vittima.
Ecco che viene il vecchio Simeone, guidato dallo Spirito Santo di cui era pieno. Egli riconosce il Salvatore del mondo in questo fanciullo: lo prende tra le braccia e canta la gioia di aver finalmente visto coi propri occhi il promesso Messia. Dopo di avere «esaltata la luce che deve manifestarsi un giorno a tutte le nazioni», ecco che egli rende Gesù a sua Madre e rivolgendosi a questa le dice: «Questo fanciullo sarà la rovina e la risurrezione di molti in Israele. Sarà segno di contraddizione e la tua anima sarà trapassata da una spada» (Luc. II, 25, 27, 32-35). Era l'oscuro annunzio del sacrificio sanguinoso del Calvario.
Nulla ci dice il Vangelo dei sentimenti che questa profezia suscita nel purissimo cuore della Vergine. Ma possiamo credere che Maria l'abbia mai potuta dimenticare? S. Luca ci rivelerà più tardi, a proposito di altri avvenimenti, che Maria «conservava tutte quelle cose nel suo cuore» (Ibid. 51). Non si può dire la stessa cosa a proposito anche di questa scena per lei così inattesa? Si, essa serbava il ricordo di quelle parole così terribili, nel loro mistero, nel cuore materno, le quali fin da questo momento e per sempre hanno trapassato l'anima sua. E Maria ha accettato in piena armonia con i sentimenti del cuore del Figlio suo di essere associata così presto e pienamente al suo sacrificio.
Noi la vedremo compiere un giorno, come Gesù, la sua offerta sul monte del Golgota, la vedremo in piedi, Stabat mater ejus, (Cf. Joan. XIX, 25) offrire ancora suo Figlio, il frutto delle sue viscere, per la nostra salute come già l'aveva offerto trent'anni prima, nel tempio di Gerusalemme.
Ringraziamo la Vergine Maria di aver presentato per noi il suo divin Figlio; rendiamo fervide azioni di grazie a Gesù stesso per essersi offerto a suo Padre per la nostra salute.
Alla santa messa, Cristo si offre nuovamente; presentiamolo a suo Padre, uniamo noi stessi a lui, come lui, in una disposizione di sottomissione perfetta alla volontà del Padre celeste; uniamoci alla fede profonda della Vergine: «con questa vera fede e quest'amore pieno di fedeltà» (Orazione della benedizione delle candele), «le nostre offerte meriteranno di venire accolte da Dio» (Cf. la secreta della messa della Purificazione).
III. Gesù smarrito all'età di dodici anni.
Nell'attesa che si compia nella sua pienezza la profezia di Simeone, Maria avrà fin d'ora la sua parte di sacrificio. Ella deve fuggire in Egitto, in un paese sconosciuto, per sottrarre il Figlio alla collera del tiranno Erode, ed ivi restare finché l'angelo, dopo la morte del re, non ordini a Giuseppe di riprendere la via del ritorno. La sacra famiglia va allora a stabilirsi a Nazareth. Qui l'esistenza di Gesù trascorrerà fino all'età di trent'anni, tanto che sarà chiamato «Gesù di Nazareth».
Il Vangelo non ci ha conservato che un episodio della vita di Cristo in questo periodo: il suo smarrimento nel tempio. Voi conoscete le circostanze che avevano condotto a Gerusalemme la sacra famiglia. Gesù aveva dodici anni. Era l'età in cui i giovani israeliti cominciavano ad essere soggetti alle prescrizioni della legge mosaica, specialmente a quella di recarsi al Tempio tre volte all'anno, per le feste di Pasqua, di Pentecoste, e dei Tabernacoli. Nostro Signore che aveva voluto, con la circoncisione, sottostare al giogo della Legge, si recò con Maria e con suo padre putativo nella santa città. Era certamente la prima volta che compiva questo pellegrinaggio.
Quando entrò nel Tempio nessuno certo sospettò che quel giovanetto fosse il Dio che vi si adorava. Gesù era là, unito alla folla degli Israeliti, partecipando alle cerimonie del culto e ai canto dei salmi. L'anima sua comprendeva, come nessun'altra creatura lo potrà mai comprendere, il significato dei riti sacri; degustava la sacra unzione che promanava dal simbolismo di quella liturgia di cui Dio stesso aveva regolato i particolari; Gesù vedeva la figura di tutto ciò che doveva compirsi nella sua persona e ne prendeva occasione per offrire a suo Padre, nel nome degli astanti e di tutta l'umanità, una lode perfetta. Dio riceveva in quel momento e in quel luogo omaggi infinitamente degni di lui. «Alla fine della festa, dice l'evangelista, che udì forse il racconto dalla stessa Vergine, Gesù rimase nella città senza che i genitori se ne fossero accorti» (Luc, II, 43). E' risaputo che per Pasqua l'affluenza dei Giudei era notevolissima; si agglomerava allora una moltitudine tale che è difficile averne un'idea; al ritorno poi le carovane si formavano con estrema difficoltà e solo a giorno inoltrato era possibile ritrovarsi. Inoltre, secondo il costume, i giovanetti potevano congiungersi a loro talento a questo o a quel gruppo della loro carovana. Maria credeva che Gesù si trovasse con Giuseppe. Ella dunque camminava cantando i sacri inni; e pensava sopratutto a Gesù sperando di ritrovarlo al più presto.
Ma quale dolorosa sorpresa non fu la sua quando, raggiungendo il gruppo di Giuseppe, non vi trovò il figliuolo! «E Gesù, dov'è Gesù?» esclamarono insieme ambedue. Dov'era Gesù? L'ignoravano.
Quando Iddio vuole condurre un'anima fino alle altezze della perfezione e della contemplazione, la fa passare attraverso a prove terribili. Nostro Signore l'ha detto: «Quando un ramo unito a me, che sono la vigna, porta frutti, il Padre mio lo pota». E perché? Perché faccia frutti maggiori (Joan. XV, 2). Sono prove terribili che consistono sopratutto in tenebre spirituali, in sensazioni di abbandono da parte di Dio, con le quali il Signore lavora l'anima per renderla degna di una unione più intima e più sublime. Maria non aveva certo bisogno di queste prove. Quale ramo fu mai più fecondo, avendo dato al mondo il frutto divino? Ma quando perdette Gesù conobbe quelle vive angosce che dovevano aumentare la sua potenza di amore e l'estensione dei suoi meriti. Difficilmente possiamo misurare la grandezza di questa angoscia; occorrerebbe, per conoscerla, comprendere perfettamente ciò che era Gesù per la madre sua.
Gesù non aveva detto niente; Maria troppo bene lo conosceva per supporre che avesse sbagliato la strada. Se dunque aveva lasciato i genitori era segno che lo aveva fatto di sua volontà. Quando ritornerà? E lo rivedrà ancora? Maria non era vissuta tanti anni a fianco di Gesù a Nazareth senza sentire che si nascondeva in lui un mistero ineffabile. Ed era proprio questo che in quel momento costituiva per lei la sorgente di un'angoscia senza confronto.
Bisognava ora ricercare il figliuolo. Quali giornate non furono per lei! Dio ha permesso che la Vergine rimanesse nelle tenebre in tutte quelle ore riboccanti di ansietà. Non sapeva dove fosse Gesù né comprendeva perché non fosse stata da lui prevenuta, mentre il suo dolore era immenso per essere rimasta priva di colui che amava, e come suo Figlio e come suo Dio insieme.
Maria e Giuseppe tornarono a Gerusalemme col cuore in tumulto. Il Vangelo ci dice che lo cercarono dappertutto, presso i conoscenti e i parenti, (Luc. II, 41) ma nessuno aveva visto Gesù. Finalmente, come sapete, dopo tre giorni, lo ritrovarono nel tempio, seduto tra i dottori della legge. I dottori d'Israele si riunivano in una delle sale del Tempio per spiegare le sacre Scritture e ciascuno poteva far parte del gruppo degli scolari e degli uditori. E questo fece Gesù. Era andato là, in mezzo a loro, non per insegnare perché l'ora in cui doveva presentarsi a tutti come il solo Signore che viene a rivelare i segreti dell'alto non era ancora venuta; era andato là, come gli altri giovani israeliti, «per ascoltare e interrogare»; sono le testuali parole del Vangelo (Ibid. 46). E qual era lo scopo del fanciullo Gesù interrogando così i dottori della Legge? Egli certamente intendeva illuminarli, indurli, con le sue domande e con le sue risposte, con le sue citazioni scritturali, a parlare della venuta del Messia; intendeva orientare le loro ricerche a questo scopo, affinché essi risvegliassero la loro memoria sulle circostanze dell'apparizione del Salvatore promesso. Questo era evidentemente quanto l'eterno Padre voleva dal Figlio suo, la missione che gli affidava e per la quale gli faceva interrompere per un momento la sua vita nascosta e silenziosa. E i dottori d'Israele erano stupefatti per la sapienza delle sue risposte (Ibid. 47).
Maria e Giuseppe, felici di ritrovare Gesù, si avvicinano a lui e sua madre gli dice: «Figlio mio, perché ti sei di portato così con noi?». Non è questo un rimprovero, - l'umile Vergine era troppo saggia per ardire di biasimare colui che sapeva essere Dio; ma è il grido di un cuore che tradisce i suoi sentimenti materni. «Ecco che tuo padre ed io pieni di angoscia, dolentes, ti andavamo cercando». E qual è la risposta di Cristo? - «Perché mi cercavate? Non sapevate che devo occuparmi degli affari del Padre mio?» (Ibid. 48-49).
Delle parole cadute dalle labbra del Verbo Incarnato è questa la prima che è stata raccolta dal Vangelo.
E in essa si riassume tutta la vita, tutta l'opera, tutta la persona di Gesù. Essa manifesta la sua divina figliazione, mette in rilievo la sua missione soprannaturale e tutta l'esistenza di Cristo non ne sarà che il commento smagliante e magnifico.
Essa contiene altresì per le anime nostre un insegnamento prezioso. Ve l'ho detto altre volte: nel Cristo vi sono due generazioni: è Filius Dei e Filius hominis. Come «Figlio dell'uomo» era obbligato ad osservare la legge naturale e la legge mosaica che comandavano ai figli di portare ai genitori rispetto, amore ed obbedienza. E chi meglio di Gesù ha fatto questo? Dirà più tardi «di non essere venuto a sopprimere la legge ma a perfezionarla» (Matth. V, 17). Chi meglio di lui seppe trovare nel suo cuore degli slanci più sinceri di umana tenerezza?
Come «Figlio di Dio», aveva verso il Padre celeste dei doveri superiori ai doveri umani e che sembrano qualche volta in contrasto con questi ultimi. Il Padre gli aveva fatto comprendere che quel giorno doveva rimanere a Gerusalemme.
Con le parole pronunziate in questa circostanza, Cristo vuol farei comprendere che quando Dio ci domanda di fare la sua volontà, non dobbiamo lasciarci trattenere da umana considerazione, ed è proprio in questi momenti che bisogna dire: Io devo occuparmi interamente delle cose del mio Padre dei cieli.
S. Luca, il quale indubbiamente ne aveva ricevuta l'umile confessione dalla Vergine stessa, ci dice che Maria «non comprese la profondità di quella parola» (Cf. Luc. II, 50). Ella ben sapeva che il suo divin Figlio non poteva agire che in un modo perfetto, ma perché allora non l'aveva prevenuta? Ella non comprendeva quali ragioni vi fossero tra questo modo di operare di Gesù e gli interessi del Padre suo. In che modo l'atteggiamento attuale di Gesù rientrava nel programma di salute che il Padre suo gli aveva dato? Anche ciò le sfuggiva. Ma se non ne scorge allora tutta la portata, ella certo non dubitava che Gesù fosse il Figlio di Dio. Perciò si sottometteva silenziosamente a quella divina volontà che reclamava dal suo amore un tale sacrificio; «ella custodiva nel suo cuore tutte le parole di Gesù». Le custodiva nel suo cuore, in esso era il tabernacolo dove adorava il mistero delle parole del Figlio suo nell'attesa che si facesse in lei luce completa.
IV. La vita nascosta di Nazareth.
Il Vangelo ci narra che dopo essere stato ritrovato nel Tempio, Gesù tornò a Nazareth con sua madre e S. Giuseppe e che ivi si trattenne fino all'età di trent'anni. E il sacro scrittore riepiloga tutto questo lungo periodo con le semplici parole: (Cf. Luc. II, 51) «Ed era soggetto a loro».
Di una esistenza di trentatré anni, colui che è la sapienza eterna, ne ha voluti passare trenta nel silenzio e nell'oscurità, nell'obbedienza e nel lavoro.
Vi è qui un mistero e un insegnamento di cui anche molte anime pie non riescono a cogliere il senso completo. Di che si trattava infatti? Il Verbo che è Dio, si fa carne; colui che è infinito ed eterno si abbassa un giorno, dopo molti secoli di attesa, a rivestire una forma umana (Philip. II, 7). «Sebbene egli nasca da una vergine immacolata, l'Incarnazione costituisce per lui un incommensurabile abbassamento» (Inno Te Deum). E perché discende fino a questi abissi? Per salvare il mondo, portandogli la luce divina. - Ora, salvo alcuni lampi che illuminano alcune anime privilegiate (i Pastori, i Magi, Simeone, Anna), ecco che questa luce si nasconde; volontariamente, per trent'anni, si tiene «sotto il moggio», per non manifestarsi poi che per soli tre anni. Non è, questo, misterioso? Non è sconcertante per la nostra ragione? Se avessimo conosciuto la missione di Gesù gli avremmo detto, come più tardi glielo diranno i suoi parenti: «Mostrati dunque al mondo poiché nessuno fa una cosa in segreto quando desidera che essa apparisca» (Joan. VII, 4).
Ma i pensieri di Dio non sono i nostri pensieri, e le sue vie trascendono le nostre. Colui che viene a riscattare il mondo lo vuole salvare innanzi tutto con una vita nascosta agli occhi del mondo.
Per trent'anni, nell'officina di Nazareth, il Salvatore del genere umano lavora e obbedisce; l'opera di colui che viene a istruire l'umanità per render le l'eterna eredità è tutta quanta nella vita di silenzio e di obbedienza a due creature negli atti più ordinari.
Oh, sì, voi siete veramente, o mio Salvatore, un Dio nascosto!
«Voi crescete indubbiamente, o Gesù, in età, in sapienza ed in grazia davanti a Dio e davanti agli uomini»; (Luc. II, 52) la vostra anima possiede, dal primo istante del vostro ingresso nel mondo, la pienezza della grazia, tutti i tesori di sapienza e di scienza; ma questa sapienza e questa grazia non si manifestano che poco a poco e voi rimanete agli occhi degli uomini un Dio nascosto, e la vostra divinità si occulta dietro l'apparenza di un operaio. O eterna sapienza, che per rialzarci dall'abisso ove la ribellione orgogliosa di Adamo ci aveva gettati, avete voluto vivere in un'umile bottega e ubbidire a semplici creature, io vi adoro e vi benedico!
Agli occhi dei suoi contemporanei, dunque, la vita di Cristo a Nazareth non poteva apparire che come la banale esistenza di un semplice operaio. Ed è tanto vero che più tardi, quando Cristo si rivela nella vita pubblica, i giudei della sua patria sono così colpiti dalla sapienza delle sue parole, dalla sublimità della sua dottrina, dalla grandezza delle sue opere che si domandano: «ma donde mai gli viene questa sapienza e come può operare questi miracoli? Non è egli il figlio del fabbro? E sua madre non è quella che si chiama Maria? Dove dunque ha imparato tutto ciò?» (Matth. XIII, 54-56) Cristo era per loro una pietra d'inciampo, perché fino a quel momento non avevano visto in lui che un operaio.
Questo mistero della vita nascosta implica insegnamenti che la nostra fede deve raccogliere con santa avidità. Anzitutto, agli occhi di Dio non è grande se non ciò che si fa per la sua gloria e con la grazia di Cristo, perché Dio non ci gradisce che nella misura della nostra somiglianza col suo Figlio Gesù. La divina figliazione di Cristo conferisce alle sue azioni più piccole un valore infinito per cui egli non è meno adorabile o meno accetto a suo Padre quando maneggia le forbici o la pialla di quando muore sulla croce per salvare l'umanità. In noi, la grazia santificante che ci fa figli adottivi di Dio, divinizza, nella sua radice, tutta la nostra attività e ci rende degni, come Gesù, per quanto a un titolo differente, delle compiacenze del Padre suo. Voi lo sapete: le doti più preziose, i pensieri più sublimi, le azioni più generose e più gloriose sono senza merito per la vita eterna se questa grazia non le vivifica. Il mondo che passa può ammirare e applaudire tutto ciò, l'eternità che sola rimane non lo accoglie né lo apprezza. A che serve, diceva Gesù, (Cf. Matth. XVI, 26) infallibile verità, conquistare il mondo colla forza delle armi, l'incanto dell'eloquenza, o coll'autorità del sapere, se, essendo privi della mia grazia, sarete esclusi dal mio regno che è il solo che non abbia fine?
Osservate invece quel povero operaio che si guadagna appena la vita, quell'umile serva ignorata dal mondo, quel povero sdegnato da tutti: la loro volgare esistenza non attira né trattiene l'attenzione di nessuno. Ma la grazia di Cristo li anima, ed ecco che queste anime rapiscono in estasi gli angeli, e sono per il Padre un oggetto continuo di amore, perché quelle anime portano in se medesime, per la grazia, i lineamenti stessi del Cristo.
La grazia santificante è la sorgente prima della nostra vera grandezza perché conferisce alla nostra vita, per quanto ordinaria e banale possa apparire, la sua vera nobiltà e il suo splendore.
Oh! se conosceste il dono di Dio!...
Ma questo dono è nascosto. Il regno di Dio si edifica sopratutto nel silenzio; è sopratutto interiore e nascosto nelle profondità dell'anima (Col. III, 3). Senza dubbio, la grazia possiede una virtù che si rivela quasi sempre al di fuori mediante l'irraggiamento delle opere di carità, ma il principio della sua potenza è del tutto intimo. E' in fondo al cuore che domina veramente l'intensità della vita cristiana, perché qui abita Dio adorato e servito nella fede, nel raccoglimento, nell'umiltà, nell'obbedienza, nella semplicità, nel lavoro e nell'amore.
La nostra attività esteriore non ha né base né fecondità soprannaturale che in quanto si riannoda a questa vita interiore. Noi non risplenderemo fruttuosamente al di fuori che in proporzione degli ardori del focolare soprannaturale della nostra intima vita (Cfr. Dom. J. B. Chautard, L'anima dell'apostolato). Che cosa si potrebbe fare di più grande quaggiù che promuovere il regno di Cristo nelle anime? Quale altra opera le si può uguagliare o potrebbe sorpassarla? E' tutta l'opera di Gesù e della Chiesa. Non potremo pertanto riuscirvi con mezzi migliori di quelli adoperati dal nostro capo divino. Convinciamoci profondamente che noi lavoreremo meglio per il bene della Chiesa, la salute delle anime, la gloria del nostro Padre celeste, procurando sopratutto di rimanere uniti a Dio con una vita di fede e di amore di cui egli solo è l'oggetto, che con una attività divoratrice e febbrile che non ci lascerebbe né il tempo né la possibilità di ritrovare Dio nella solitudine, nel raccoglimento, nella preghiera e nel distacco da noi stessi. Ora niente favorisce tanto questa intensa unione dell'anima con Dio quanto la vita nascosta.
Ed ecco perché le anime interiori, illuminate dai raggi dell'alto, amano tanto contemplare la vita di Gesù a Nazareth: vi trovano un incanto particolare e grazie abbondanti di santità.
V. Sentimenti della Vergine Maria negli anni della vita nascosta.
Otterremo specialmente per mezzo della Vergine Maria di aver parte alle grazie che Cristo ci ha meritate con la sua vita nascosta a Nazareth. Nessuno meglio dell'umile Vergine ne conosce la fecondità perché nessuno più di lei ne fu ricolma. Quegli anni dovettero essere per la Madre di Gesù una sorgente di grazie continue e inapprezzabili. Non è possibile pensarci senza sentirsi smarriti, come è impossibile esprimere a parole le intuizioni che se ne possono ricevere. Riflettiamo un istante a ciò che dovettero essere per Maria quei trent'anni quando i gesti, le parole, le azioni di Gesù Cristo erano per lei altrettante rivelazioni!
Indubbiamente, doveva esserci dell'incomprensibile, anche per Maria; non è possibile vivere a contatto continuo con l'Infinito come ella faceva, senza sentire e toccare talora il mistero. Ma quale abbondanza di luce era nell'anima sua! Quale accrescimento continuo di amore questo ineffabile. commercio con un Dio, che lavorava sotto i suoi occhi e ubbidiva a lei, non dové effettuare nel suo cuore immacolato! Maria viveva là con Gesù in un'unione che trascende ogni parola. Essi erano veramente uno; lo spirito, il cuore, l'anima, tutta la vita di Maria era in assoluta armonia con lo spirito, il cuore, l'anima e la vita del Figlio suo. La sua esistenza era, se così posso esprimermi, una vibrazione, ma una vibrazione pura e perfetta, tranquilla e piena di amore della vita medesima di Gesù.
Ora quale era in Maria la sorgente di questa unione e di questo amore? Era la sua fede. La fede della Vergine è una delle sue virtù più caratteristiche. Quale fede mirabile e piena di abbandono alle parole dell'angelo! Il celeste messaggero le annunzia un mistero inaudito che stupisce e sconvolge la natura: la concezione di un Dio in un seno verginale. E che dice Maria? «Ecco l'ancella del Signore; si faccia di me secondo la tua parola» (Luc. I, 38). E' diventata la madre del Verbo Incarnato per aver dato alle parole dell'angelo il pieno consenso della sua volontà (S. August., De Virgin., c. 3; Sermo CCXV, n. 4; S. Leo, Sermo I, de Nativitate Domini, c. I; S. Bernard., Sermo I, de Vigilia Nativit.). La fede di Maria nella divinità non ha mai vacillato; sempre vedrà nel suo Figlio Gesù Iddio infinito. E tuttavia a quali prove va soggetta questa fede! Suo Figlio è Dio, l'angelo le ha detto che salirà sul trono di David, che salverà il mondo e che il suo regno non avrà fine. Ed ecco che Simeone le predice che Gesù sarà un segno di contraddizione, che sarà causa di salute e di rovina; ecco che Maria deve fuggire in Egitto per sottrarre suo Figlio al furore tirannico di Erode, ecco che per trent'anni suo Figlio, che è Dio e che viene a riscattare il genere umano, vive in una povera bottega di falegname, una vita di lavoro, di obbedienza e di oscurità. Più tardi vedrà suo Figlio perseguitato dall'odio dei Farisei, lo vedrà abbandonato dai suoi discepoli, nelle mani dei suoi nemici, sospeso sulla croce, fatto segno ai sarcasmi, inabissato nel dolore; lo udirà lamentarsi dell'abbandono del Padre suo, ma la sua fede rimarrà incrollabile. Ai piedi della Croce risplenderà di tutta la sua luce. Maria riconoscerà sempre suo Figlio come Dio e perciò la Chiesa la chiama la «Vergine fedele» per eccellenza.
Questa fede è la sorgente di tutto l'amore di Maria per suo Figlio, questa fede la fa sempre rimanere unita a Gesù pur tra i dolori della sua passione e della sua morte. Chiediamo alla Vergine di ottenerci questa fede ferma e pratica che si perfeziona nell'amore e nel compimento della divina volontà; «Ecco l'ancella del Signore, si compia di me secondo la tua parola»; queste parole riassumono tutta l'esistenza di Maria: possano esse esprimere e riassumere anche la nostra vita.
Questa fervida fede che era per la Madre di Dio una sorgente di amore, era anche una sorgente di gioia. Lo Spirito Santo ce lo insegna, quando per bocca di Elisabetta proclama la Vergine «beata perché aveva creduto» (Luc. I. 45). Lo stesso avverrà di noi. S. Luca racconta che dopo un discorso di Gesù alla folla, una donna, alzando la voce, esclamò: «Beato il seno che ti ha portato e le mammelle che ti hanno nutrito». E Cristo rispose: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica!» (Ibid. XI, 27) Gesù non contraddice affatto all'esclamazione della donna giudea; non è stato egli a inondare il cuore della Madre sua di gioie incomparabili? Vuole solamente insegnarci dove si trovi tanto per noi che per lei il vero principio della gioia. Il privilegio della maternità divina è singolare e Maria è l'insigne creatura che, da tutta l'eternità, Dio stesso ha scelta per la meravigliosa missione di esser madre del Figlio suo: è questa la sorgente di tutte le grandezze di Maria.
Ma Gesù vuole insegnarci che come la Vergine ha meritato le gioie della divina maternità con la sua fede e il suo amore, così noi possiamo dividere con lei non la gloria di aver dato la vita a Cristo, ma la gioia di farlo nascere nelle anime nostre. E come avremo questa gioia? «Ascoltando e custodendo la parola divina». Noi l'ascoltiamo con la fede, e la custodiamo adempiendo con l'amore quanto ella comanda.
Tale è per noi, come per Maria, la sorgente della vera gioia per l'anima; tale è per noi il cammino della felicità. Se, dopo aver piegato il cuore agli insegnamenti di Gesù, ubbidiamo alla sua volontà e gli restiamo uniti, gli diverremo così cari è sempre Lui che lo proclama come se gli fossimo «una madre, un fratello e una sorella» (Matth. XII, 50; cf. Luc. VIII, 21; Marc. III, 35).
Quale unione più stretta e più feconda potrebbe formare l'oggetto dei nostri desideri?